25.11.23

ANTI-SIONISMO NON È ANTI-SEMITISMO

ISRAELIANI, EBREI ED EX SIONISTI CONTRO SIONISMO E COLONIZZAZIONE PER UNA PALESTINA LIBERA 

Abbiamo cominciato a lavorare a questo lungo articolo (che si è trasformato in un saggio informale da leggere con calma) prima dell’attacco partito dalla Striscia di Gaza, nel cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur...

Le accuse a chi critica lo stato di Israele e a chi prova a metterne in dubbio le sue caratteristiche democratiche vanno avanti da decenni, insieme alle politiche colonialiste dello stato ebraico che non rispettano il diritto internazionale. La principale accusa strumentale mossa a chiunque osi mettere in discussione la legittimità delle politiche e dei confini attuali dello stato di Israele, e che si sta rafforzando dopo l’attacco sferrato da Hamas, è quella di essere anti-semita e di aver dimenticato gli orrori dell’Olocausto.


In foto le parole "antisemitismo", "ebraismo" e "giudaismo" nella colonna sinistra insieme a una stella di David. In mezzo più volte è ripetuto il simbolo matematico "≠", "diverso da" e nella colonna destra le parole "antisionismo", "sionismo" e "Israele", insieme alla bandiera di Israele. Si vede anche una bandiera della pace insieme a una della Palestina e un cartello a una manifestazione con la scritta "un olocausto (1933-45) non ne giustifica un altro (1948-oggi)", oltre a una mappa di Israele e Palestina disegnata come un enorme labirinto


Il nocciolo del problema dunque risiede nell’identificare tout-court l’entità statale sionista-teocratica con l’ebraismo, e di conseguenza l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, non considerando l’eterogeneità della cultura ebraica e stereotipizzandola. Nell’articolo si incroceranno anche varie tematiche ricorrenti nella storia e nella questione palestinese, come il concetto di “Nakba”, i pareri sulla cosiddetta “soluzione dei due stati” (principale alternativa a quella dello “stato binazionale”), o il supporto ai fondamentalisti messianici sionisti da parti della potente lobby cristiana-protestante nord-americana.

Partiamo chiarendo da subito la posizione di chi scrive in merito ai circa 50 giorni di “punizione collettiva” dei gazawi (crediamo sia sempre utile esprimerla e separarla dai fatti, e se avete il piacere di esprimerne di diverse tra queste righe, o di segnalarci altri articoli e contenuti, non avete che da contattarci via mail o qui sotto nei commenti, e sarà nostro dovere riportarle e un piacere confrontarci) espressa in estrema sintesi: l’ “ultimissima” parte del conflitto all’interno dei territori palestinesi illegalmente occupati vede come principali protagonisti due “destre”, due estremismi e due fondamentalismi religiosi sostenuti da altre avverse potenze (USA e Iran in primis): da una parte quello fanatico-sionista di Israele e dall’altra quello del nazionalismo-islamico di Hamas. La differenza dello stato etno-centrico ebraico, oltre alla sproporzione di forza, risiede nell’avere un’entità statale (quella sionista-occupante e presunta sola “democrazia-liberale-liberista” del Medio Oriente) che occupa e colonizza illegalmente dei territori con un esercito “regolare”(oltre alle milizie paramilitari dei cosiddetti coloni). Per questo, a maggior ragione, dovrebbe rispettare il diritto internazionale, ma ciò non avviene da vari decenni e anzi: dopo aver favorito Hamas per mettere una pietra tombale su qualunque prospettiva di uno stato palestinese (non avendo nessuno con cui “trattare” ufficialmente) sta cogliendo l’occasione per attuare una nuova “Nakba”, la “Catastrofe” del ‘48, l’inizio della contemporanea politica dagli intenti genocidi nei confronti dei palestinesi.
Inoltre, chiedere ancora di “condannare Hamas” dopo migliaia di morti causati dalla “punizione di massa” in poco più di un mese attuata da Israele, risulta non solo squisitamente fazioso ma anche ridicolo: prima di chiedere “condannate Hamas” bisognerebbe iniziare col condannare Israele , col riconoscere la sproporzione dei danni causati dallo stato etno-cratico e teo-cratico in questi ultimi giorni, non considerando quelli arrecati ai palestinesi (non solo arabi ma anche gli stessi ebrei) a partire da prima della sua fondazione e dal “peccato originale” di matrice europea e colonialista che ne connota la sua stessa nascita.
Questo “saggio-articolo” nasce con l’intento principale di smontare le accuse di anti-semitismo mosse a chiunque critichi Israele, perfino agli stessi israeliani ed ebrei: “disinnescare” questo genere di critiche è diventato più arduo dopo le azioni dei fondamentalisti islamici, e in particolare quelle dirette a obiettivi non militari, che sono ovviamente da condannare in quanto crimini di guerra... Il problema però è che i crimini di guerra commessi negli ultimi decenni da Israele, e in particolare dagli estremisti sionisti-colonialisti, vengono ignorati dalla stampa mainstream, impegnata come al solito ad alimentare la narrazione fantoccio dei “buoni occidentali democratici giudaico-cristiani” contro i “cattivi terroristi”, quasi sempre musulmani, oltre a tralasciare le cause materiali e “materialiste” alla base delle guerre.
Quasi nessuno si indigna quando, quotidianamente, l’esercito israeliano (così come altri apparati militari del mondo “civilizzato”) insieme ai coloni (di fatto delle milizie paramilitari supportate dalle forze di difesa israeliane “ufficiali”) commettono indicibili abusi, perfino con l’avallo di leggi palesemente illegali e incivili (si pensi alle varie torture commesse in regime di detenzione amministrative agli “ostaggi” palestinesi israeliani da anni, ai permessi per costruire insediamenti garantiti solo ai coloni, agli spossessamenti forzati di terre, colture, costruzioni, risorse idriche  e così via), sistematicamente ignorati dalla quasi totalità di politici e degli apparati mediatici.
Quasi nessuno prova a spiegare come vivono effettivamente i palestinesi, come viene irrimediabilmente limitata la loro libertà di movimento, di proprietà, di accesso a strutture sanitarie e scuole, di come vengono rinchiusi (non solo con gli arresti arbitrari) e uccisi, di come delle famiglie vengono separate da recinzioni automatizzate con meccanismi di riconoscimento facciale, di persone che non possono tornare “a casa” pur avendone il pieno diritto, di persone nate e cresciute in campi profughi che non riescono nemmeno a concepire cosa significhi viveri al di fuori di esso, del senso di claustrofobia, letterale e metaforico, che non può far altro che alimentare i fondamentalismi e la lotta armata (conflitto armato che, tra l’altro, è legittimo di fronte a un occupazione illegale anche secondo il diritto internazionale, anche se il diritto alla difesa non dovrebbe mai coinvolgere civili se non come funesti “danni collaterali”, e nonostante questa constatazione sia dolorosa per qualunque vita spezzata, al di là del fatto che indossi una divisa o meno)... Anzi, se qualcuno prova a fare delle critiche a Israele, anche “minime”, viene perfino tacciato di essere anti-semita e complice dei “terroristi”, il che è linguisticamente paradossale: sono gli israeliani guerra-fondai, nazionalisti e colonialisti, a essere anti-semiti perché anche i palestinesi fanno parte delle popolazioni semitiche, anche se il termine anti-semitismo viene usato in chiave anti-ebraica per la prima volta nella Germania di metà ‘800.
 
Contrariamente a quanto si potrebbe essere portati a pensare, sin dagli albori dell’ideale coloniale sionista sul finire dell’800 (supportato in ambito protestante per ragioni teologiche che analizzeremo nei paragrafi conclusivi di questo saggio informale), che mirava a fondare uno stato per gli Ebrei in diversi continenti (e prima che la scelta cadesse in area ottomana), l’anti-sionismo ha sempre avuto dei sostenitori in ambito ebraico, denotando la posizione degli ebrei che vedevano nel sionismo un tradimento dei valori e della cultura ebraica, che non dovevano e non potevano esprimersi nella creazione di una nazione degli ebrei per ragioni politiche (come la contrarietà alla colonizzazione, ai nazionalismi, all’oppressione di altri popoli o il senso di appartenenza alle nazioni in cui già si viveva) e religiose-identitarie (l’ebraismo inteso come una religione, come una cultura, non quindi in senso politico-nazionalista, oltre al rifiuto di “fondare” una nazione ebraica prima dell’arrivo del messia per gli ortodossi). Attualmente però parlare di anti-sionismo sta pericolosamente diventando un tabù, delegittimando e stigmatizzando ogni opposizione al progetto colonialista di Israele, portando a compimento la ridicola identificazione tra sionismo ed ebraismo prevista e scientemente portata avanti per decenni da politicanti come Abba Eban.
E mentre la maggioranza dei principali media mainstream si scaglia contro i presunti -e talvolta purtroppo veri- antisemiti, all’opposto si fa sempre più largo anche l’islamofobia, un sentimento di cui avere paura e da contrastare tanto quanto l’anti-semitismo, insieme al linguaggio genocida che disumanizza la popolazione palestinese.
 
Per decostruire in maniera molto approfondita e collegata con l’attualità questo genere di accuse usiamo le parole di alcuni ebrei e/o israeliani di origini e formazione molto eterogenee.

Iniziamo da tre stralci di interventi, diffusi tramite dei brevi video, che meriterebbero di diventare virali, di salire alla ribalta delle cronache, di risalire i risultati nei “feed” dei vari social network che invece tendono a identificare come “contenuti sospetti” qualunque critica a Israele penalizzandola o bannandola (e che per questo vi invitiamo a ri-postarli e a schiacciare su “mi piace”, anche se non ci piace vedere immagini, o sentire parole molto forti che però non possiamo ignorare). 
Questi primi tre estratti di interventi hanno il merito di sintetizzare efficacemente e in pochissime battute le ingiustizie e le inconsistenze dell’ideale fanatico-sionista, e i danni che esso crea alle diverse comunità nelle terre di Palestina e nel Mondo intero, a cominciare da quelle arabe ed ebraiche: ci riferiamo al rabbino americano “ultra-ortodosso” e anti-sionista Yisroel Dovid Weiss, all’avvocata israelo-americana specializzata in diritti umani Sari Bashi di “Human Rights Watch” e “Gisha, e a Ruth Ben-Artzi, professoressa di scienze politiche negli USA e nipote di Sara e Benjamin Netanyahu, rispettivamente la “first lady” e il presidente di Israele da cui ha preso le distanze parlando di una deriva “fascista” dello stato di Israele.
Passiamo poi alle parole del medico e oratore Gabor Maté, classe 1944, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto era diventato, da giovane, un sostenitore dell’ideale sionista di una “terra promessa”, mosso da una naturale ricerca di protezione per il suo popolo, prima di rendersi conto delle atrocità che venivano commesse nei territori occupati dopo averli visitati.
 
Ci spostiamo dal nord-america in Italia, rivolgendo occhi e orecchie alle tanto lucide quanto sdegnose dichiarazioni di Moni Ovadia, che da sempre si è schierato contro l’oppressione del popolo palestinese, e che al contempo ha posto al centro della sua produzione artistica e saggistica il <<vagabondaggio culturale e reale>> di quello ebraico, <<una cultura che le ideologie totalitarie del ‘900 avrebbero voluto cancellare>>: nato in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefardita e trasferitosi da piccolo a Milano, dopo una laurea in scienze politiche ha avviato progetti artistici e di ricerca nel campo della musica etnica e popolare. È uno degli artisti e intellettuali italiani che più si prodiga nel denunciare senza remore, con una franchezza cristallina e tagliente gli abusi nei territori palestinesi occupati portati avanti dai gruppi di potere “giudaico-cristiani”.
 
Nella conclusione di questo “saggio informale” andiamo metaforicamente in Israele, riportando brevemente le parole apparse sui canali social di Josh Drill, ex soldato israeliano della ONG “Breakin the silence”, organizzazione di veterani con lo scopo di <<aumentare la consapevolezza sulle tragiche conseguenze di un’occupazione militare prolungata>>.
 
Infine il punto di vista più radicale è probabilmente quello espresso dall’attivista libertario israeliano Jonathan Pollak, noto principalmente come co-fondatore dell’organizzazione “Anarchici contro il muro”, anche se non gli piace essere identificato come tale nello specifico. In alcune interviste oltre a contestualizzare il ricorso alla lotta armata, strategia utilizzata anche da Mandela nella battaglia contro l’apartheid sud-africano, ha messo in evidenza l’ipocrisia dell’ “apartheid-giudiziario” israeliano: arrestato dopo una protesta contro i coloni a Beita, avrebbe potuto essere processato da un tribunale civile in quanto cittadino israeliano, ma ha invece scelto un tribunale militare, rischiando una pena più alta come avviene per chi non ha un passaporto israeliano.
 
Nel testo che segue troverete principalmente video (con appositi link qualora non riusciste a visualizzarli “incorporati” nel post), frammenti di articoli e trascrizioni (con annesse traduzioni dall’inglese) di alcune delle dichiarazioni da loro rilasciate, quelle che riteniamo più significative per testimoniare che non tutti gli ebrei e gli israeliani sono in favore dell’apartheid e dei crimini di guerra in Palestina, anche se questi provengono da percorsi politici, di vita e contesti molto diversi tra loro... E non ci sono solo singoli ebrei e/o israeliani come quelli qui citati, ma anche gruppi e associazioni che da tempo, e in questi ultimi giorni, protestano in favore dei palestinesi, come “Jewish Voice For Peace”, “Rabbis For Human Rights” e “Laboratorio Ebraico Antirazzista”, solo per citarne alcuni.
 
Infine non dobbiamo dimenticare anche alcune delle vittime israeliane dell’attacco di Hamas che continuano a chiedere l’imminente fine dell’offensiva criminale e dell’occupazione illegale israeliana, come Noy Katsman, fratello di Hayim che in vita, dopo essere stato un militare, aveva cominciato a difendere i diritti dei palestinesi. Al suo funerale ha detto: <<non usate le nostre morti e le nostre sofferenze per arrecarne ulteriori ad altre persone e famiglie>>; analogamente Yonatan Zeigen, figlio di Vivian Silver, fondatrice di “Women Wage Peace” e morta durante l’attacco di Hamas, invita il governo israeliano a fare tutto il contrario della guerra, e quindi ad avviare negoziazioni, usando lo slogan che l’anziana avrebbe fatto proprio, e cioè “non nel nostro nome”. Ricordiamo inoltre che perfino l’ex vertice del Mossad Tamir Pardo (e non solo diverse organizzazioni umanitarie e membri dell’ONU come avevamo già detto tra queste pagine virtuali) ha definito, un mese prima del 7 Ottobre, il sistema di segregazione attuato da Israele come un regime di apartheid.



CONTRO L’ETNO-TEOCRAZIA ISRAELIANA O CONTRO GLI EBREI?!


Immagine del rabbino con un cartello recitante la scritta: "I rabbini autentici si sono sempre opposti al sionismo e allo stato di Israele". Nel testo alcune delle parole riportate nell'articolo espresse da lui
Foto a sinistra di "Carolmooredc" rilasciata con licenza creative commons: sul cartello del rabbino si legge: "<I rabbini autentici si sono sempre opposti al sionismo e allo stato di Israele>"

23.11.23

LA “VERA” RAGIONE DELLA GUERRA IN UCRAINA E IN PALESTINA...

... E DEL POTENZIALE SCOPPIO DI UNA NUOVA GRANDE GUERRA: IL DEBITO ESTERO STATUNITENSE E IL “FRIEND SHORING”


foto di una banconota americano: al centro, invece della faccia di un presidente, c'è un carro armato. Ai lati due soldati con fucili spianati


Dietro la guerra ci sono “i soldi”, è quello che più o meno tutti pensiamo e sosteniamo, ed è sostanzialmente vero. Si dice anche che le ragioni alla base delle guerre sono molto simili a quelle che fanno scoppiare liti e conflitti all’interno delle famiglie o nei gruppi di amici, e anche ciò ha del vero... C’è qualcosa che però, nella strettissima attualità e sullo scacchiere politico globale, va oltre le dispute territoriali e l’accaparramento di risorse (dai preziosi minerali per costruire i nostri apparecchi elettronici all’acqua, e quindi le risorse idriche, passando per il vile petrolio), che trascende anche i conflitti ideologici e culturali (di solito propagandati con delle manichee enfatizzazioni di guerre tra “bene” e “male”, tra “occidente democratico civilizzato” e “sud del mondo” o “oriente” “autocratico e incivile”), e che è legato in maniera interdipendente anche ai soldi che si spendono per le “distruzioni” delle guerre (e quindi per l’apparato industriale bellico) e per le “ricostruzioni” post-conflitto (e quindi per l’industria civile): questo qualcosa è il debito estero statunitense...

 

La questione brutalmente sintetizzata è la seguente: gli Stati Uniti hanno un enorme debito verso Cina, Russia e altri creditori “orientali”. I capitali dei debitori statunitensi tendono sempre di più a essere “mangiati”, o per meglio dire “assorbiti” dai creditori orientali. Per questo gli USA, dopo aver storicamente sostenuto il libero scambio e la globalizzazione, cominciano ad attuare politiche protezioniste, innalzando barriere commerciali, finanziarie, e facendo affari solo con stati “amici”. Questo cambio delle “regole” della concorrenza internazionale ovviamente non va giù a chi viene scacciato via dal giro di affari alimentando tensioni anche, se non soprattutto, di carattere militare. Per essere “costruttori di pace” bisogna dunque iniziare a considerare le condizioni economiche delle guerre, e non soltanto quelle ideologiche e le dispute territoriali che sarebbero quindi secondarie, attuando una strategia di “pacifismo conflittuale”.

 

Questa è la tesi del Professore di politica economica Emiliano Brancaccio, economista “eterodosso” che, insieme al “keynesiano” Robert Skidelsky, ha scritto un appello dal titolo “Le Condizioni Economiche per la Pace”, sottoscritto da decine di studiosi e pubblicato negli scorsi mesi anche sul Financial Times ,“tempio” del capitalismo finanziario globale, e su Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria.

Le parole di Brancaccio trascritte di seguito sono tratte da due incontri: il primo si è tenuto il 7 Settembre, un mese prima dell’attacco di Hamas e della “punizione collettiva” israeliana verso i gazawi, all’EX Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei a Napoli, oggi sede di un “bene comune” e del partito “Potere al Popolo”, durante la tre giorni del festival del centro sociale partenopeo; il secondo, intitolato “La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista”, si è svolto presso l’Università “L’Orientale” di Napoli occupata l’8 Novembre (entrambi gli incontri sono visualizzabili negli appositi link alla pagina Facebook dell’EX OPG e incorporati in calce a questo post).

 

NARRAZIONI MEDIATICHE E QUESTIONI “MATERIALISTE”

 

Le narrazioni mediatiche più diffuse ci abituano a interpretare le guerre come conflitti di natura religiosa, etnica e ideale: questi elementi molto spesso sono concreti, ma basare puramente su di essi le ragioni delle guerre è una <<pura mistificazione>> volta a costruire una “falsa coscienza”, espressione indicante il concetto marxiano per cui le classi dominate incorporano nel proprio “senso comune” le tesi della classe dominante, che riesce dunque a imporre la sua egemonia ideologica.


Più che le fantomatiche “guerre di civiltà” tra civilizzazione e  barbarie, tra mondi liberali e illiberali, più che le dispute territoriali, sono le forze e le dinamiche economiche a determinare le guerre: <<tutto si dice della guerra, eccetto che sia determinata da una legge di movimento dei capitali. È meglio di dire che quello è pazzo, che quello è cretino, che quell’altro è scemo, e così via... meglio dire che si combatte per alti ideali di libertà, che si va a morire ammazzati per una bandiera, piuttosto che affermare che esiste una meccanica di movimento del sistema, meccanica completamente elusa>> nei dibattiti dei principali media generalisti, ma anche nei cosiddetti circuiti accademici “ortodossi” dello studio dell’economia, nei quali di solito il capitalismo è perfino considerato propulsore di libertà, e per questo finalizzato <<addirittura alla costruzione di un nuovo tipo umano>>.