... E DEL POTENZIALE SCOPPIO DI UNA NUOVA GRANDE GUERRA: IL DEBITO ESTERO STATUNITENSE E IL “FRIEND SHORING”
Dietro la guerra ci sono “i soldi”, è quello che più o meno tutti pensiamo e
sosteniamo, ed è sostanzialmente vero. Si dice anche che le ragioni alla base
delle guerre sono molto simili a quelle che fanno scoppiare liti e conflitti
all’interno delle famiglie o nei gruppi di amici, e anche ciò ha del
vero... C’è qualcosa che però, nella
strettissima attualità e sullo scacchiere politico globale, va oltre le dispute
territoriali e l’accaparramento di risorse (dai preziosi minerali per costruire
i nostri apparecchi elettronici all’acqua, e quindi le risorse idriche,
passando per il vile petrolio), che trascende anche i conflitti ideologici e
culturali (di solito propagandati con delle manichee enfatizzazioni di guerre
tra “bene” e “male”, tra “occidente democratico civilizzato” e “sud del mondo”
o “oriente” “autocratico e incivile”), e che è legato in maniera
interdipendente anche ai soldi che si spendono per le distruzioni delle
guerre (e quindi per l’apparato industriale bellico) e per le ricostruzioni post-conflitto (e quindi per l’industria civile): questo qualcosa è il debito estero statunitense...
La questione brutalmente sintetizzata è la seguente:
gli Stati Uniti hanno un enorme debito verso Cina, Russia e altri creditori
“orientali”. I capitali dei debitori statunitensi tendono sempre di più
a essere “mangiati”, o per meglio dire “assorbiti” dai creditori
orientali. Per questo gli USA, dopo aver storicamente sostenuto il
libero scambio e la globalizzazione, cominciano ad attuare politiche
protezioniste, innalzando barriere commerciali, finanziarie, e facendo affari
solo con stati “amici”. Questo cambio delle “regole” della concorrenza
internazionale ovviamente non va giù a chi viene scacciato via dal giro di
affari alimentando tensioni anche, se non soprattutto, di carattere militare.
Per essere “costruttori di pace” bisogna dunque iniziare a considerare le
condizioni economiche delle guerre, e non soltanto quelle ideologiche e le
dispute territoriali che sarebbero quindi secondarie, attuando una strategia di
“pacifismo conflittuale”.
Questa è la tesi del Professore di politica economica Emiliano Brancaccio, economista “eterodosso” che, insieme al “keynesiano” Robert Skidelsky, ha scritto un appello dal titolo “Le Condizioni Economiche per la Pace”, sottoscritto da decine di studiosi e pubblicato negli scorsi mesi anche sul Financial Times ,“tempio” del capitalismo finanziario globale, e su Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria.
Le parole di Brancaccio trascritte di seguito sono tratte da due incontri: il primo si è tenuto il 7 Settembre, un mese prima dell’attacco di Hamas e della “punizione collettiva” israeliana verso i gazawi, all’EX Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei a Napoli, oggi sede di un “bene comune” e del partito “Potere al Popolo”, durante la tre giorni del festival del centro sociale partenopeo; il secondo, intitolato “La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista”, si è svolto presso l’Università “L’Orientale” di Napoli occupata l’8 Novembre (entrambi gli incontri sono visualizzabili negli appositi link alla pagina Facebook dell’EX OPG e incorporati in calce a questo post).
NARRAZIONI MEDIATICHE E QUESTIONI “MATERIALISTE”
Le narrazioni mediatiche più diffuse ci abituano a interpretare le guerre come conflitti di natura religiosa, etnica e ideale: questi elementi molto spesso sono concreti, ma basare puramente su di essi le ragioni delle guerre è una <<pura mistificazione>> volta a costruire una “falsa coscienza”, espressione indicante il concetto marxiano per cui le classi dominate incorporano nel proprio “senso comune” le tesi della classe dominante, che riesce dunque a imporre la sua egemonia ideologica.
Più che le fantomatiche “guerre di civiltà” tra civilizzazione e barbarie, tra mondi liberali e illiberali, più che le dispute territoriali, sono le forze e le dinamiche economiche a determinare le guerre: <<tutto si dice della guerra, eccetto che sia determinata da una legge di movimento dei capitali. È meglio di dire che quello è pazzo, che quello è cretino, che quell’altro è scemo, e così via... meglio dire che si combatte per alti ideali di libertà, che si va a morire ammazzati per una bandiera, piuttosto che affermare che esiste una meccanica di movimento del sistema, meccanica completamente elusa>> nei dibattiti dei principali media generalisti, ma anche nei cosiddetti circuiti accademici “ortodossi” dello studio dell’economia, nei quali di solito il capitalismo è perfino considerato propulsore di libertà, e per questo finalizzato <<addirittura alla costruzione di un nuovo tipo umano>>.