... E DEL POTENZIALE SCOPPIO DI UNA NUOVA GRANDE GUERRA: IL DEBITO ESTERO STATUNITENSE E IL “FRIEND SHORING”
Dietro la guerra ci sono “i soldi”, è quello che più o meno tutti pensiamo e
sosteniamo, ed è sostanzialmente vero. Si dice anche che le ragioni alla base
delle guerre sono molto simili a quelle che fanno scoppiare liti e conflitti
all’interno delle famiglie o nei gruppi di amici, e anche ciò ha del
vero... C’è qualcosa che però, nella
strettissima attualità e sullo scacchiere politico globale, va oltre le dispute
territoriali e l’accaparramento di risorse (dai preziosi minerali per costruire
i nostri apparecchi elettronici all’acqua, e quindi le risorse idriche,
passando per il vile petrolio), che trascende anche i conflitti ideologici e
culturali (di solito propagandati con delle manichee enfatizzazioni di guerre
tra “bene” e “male”, tra “occidente democratico civilizzato” e “sud del mondo”
o “oriente” “autocratico e incivile”), e che è legato in maniera
interdipendente anche ai soldi che si spendono per le distruzioni delle
guerre (e quindi per l’apparato industriale bellico) e per le ricostruzioni post-conflitto (e quindi per l’industria civile): questo qualcosa è il debito estero statunitense...
La questione brutalmente sintetizzata è la seguente:
gli Stati Uniti hanno un enorme debito verso Cina, Russia e altri creditori
“orientali”. I capitali dei debitori statunitensi tendono sempre di più
a essere “mangiati”, o per meglio dire “assorbiti” dai creditori
orientali. Per questo gli USA, dopo aver storicamente sostenuto il
libero scambio e la globalizzazione, cominciano ad attuare politiche
protezioniste, innalzando barriere commerciali, finanziarie, e facendo affari
solo con stati “amici”. Questo cambio delle “regole” della concorrenza
internazionale ovviamente non va giù a chi viene scacciato via dal giro di
affari alimentando tensioni anche, se non soprattutto, di carattere militare.
Per essere “costruttori di pace” bisogna dunque iniziare a considerare le
condizioni economiche delle guerre, e non soltanto quelle ideologiche e le
dispute territoriali che sarebbero quindi secondarie, attuando una strategia di
“pacifismo conflittuale”.
Questa è la tesi del Professore di politica economica Emiliano Brancaccio, economista “eterodosso” che, insieme al “keynesiano” Robert Skidelsky, ha scritto un appello dal titolo “Le Condizioni Economiche per la Pace”, sottoscritto da decine di studiosi e pubblicato negli scorsi mesi anche sul Financial Times ,“tempio” del capitalismo finanziario globale, e su Il Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria.
Le parole di Brancaccio trascritte di seguito sono tratte da due incontri: il primo si è tenuto il 7 Settembre, un mese prima dell’attacco di Hamas e della “punizione collettiva” israeliana verso i gazawi, all’EX Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Materdei a Napoli, oggi sede di un “bene comune” e del partito “Potere al Popolo”, durante la tre giorni del festival del centro sociale partenopeo; il secondo, intitolato “La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista”, si è svolto presso l’Università “L’Orientale” di Napoli occupata l’8 Novembre (entrambi gli incontri sono visualizzabili negli appositi link alla pagina Facebook dell’EX OPG e incorporati in calce a questo post).
NARRAZIONI MEDIATICHE E QUESTIONI “MATERIALISTE”
Le narrazioni mediatiche più diffuse ci abituano a interpretare le guerre come conflitti di natura religiosa, etnica e ideale: questi elementi molto spesso sono concreti, ma basare puramente su di essi le ragioni delle guerre è una <<pura mistificazione>> volta a costruire una “falsa coscienza”, espressione indicante il concetto marxiano per cui le classi dominate incorporano nel proprio “senso comune” le tesi della classe dominante, che riesce dunque a imporre la sua egemonia ideologica.
Più che le fantomatiche “guerre di civiltà” tra civilizzazione e barbarie, tra mondi liberali e illiberali, più che le dispute territoriali, sono le forze e le dinamiche economiche a determinare le guerre: <<tutto si dice della guerra, eccetto che sia determinata da una legge di movimento dei capitali. È meglio di dire che quello è pazzo, che quello è cretino, che quell’altro è scemo, e così via... meglio dire che si combatte per alti ideali di libertà, che si va a morire ammazzati per una bandiera, piuttosto che affermare che esiste una meccanica di movimento del sistema, meccanica completamente elusa>> nei dibattiti dei principali media generalisti, ma anche nei cosiddetti circuiti accademici “ortodossi” dello studio dell’economia, nei quali di solito il capitalismo è perfino considerato propulsore di libertà, e per questo finalizzato <<addirittura alla costruzione di un nuovo tipo umano>>.
Il motore principale degli ultimi due conflitti “più visibili” e di vaste proporzioni risiedono, secondo Brancaccio, nei <<problemi di competitività e di debito estero dell’economia americana>>, debito accumulato nell’epoca della globalizzazione e che, ipocritamente, è sfociato in una <<nuova forma di protezionismo unilaterale e molto aggressivo>>: <<da diverso tempo gli americani importano troppe merci ed esportano poche merci: devono coprire la differenza tra troppe importazioni e poche esportazioni, chiedendo prestiti all’estero>>, per questo gli Stati Uniti accumulano un enorme debito verso l’estero e verso quei paesi che esportano di più di quello che importano, e per rallentare questa tendenza innalzano barriere protezionistiche <<sempre più alte e selettive, di tipo sia commerciale sia finanziario: è una chiusura per certi versi inedita, che chiamo “friend-shoring”. Vuol dire che gli americani tendono a fare affari solo con gli “amici” occidentali e con i loro sodali, mentre vogliono ridurre ai minimi termini i rapporti economici con i “nemici”, vale a dire in primo luogo la Cina e gli altri esportatori orientali, in piccola parte anche la Russia, e diversi paesi mediorientali non “allineati”, tutti soggetti guarda caso -questi “nemici”- che nel tempo hanno accumulato un ingente credito verso gli americani>>. Le misure protezionistiche servono <<in ultima istanza a evitare che cinesi e altri creditori, prevalentemente orientali, utilizzino i loro “attivi” -questi loro crediti- non più soltanto per prestare denaro ma per acquisire pacchetti di controllo di aziende americane e occidentali>>. In termini marxiani il rischio per gli USA è quello di una <<nuova centralizzazione del capitale a livello internazionale>> nelle mani delle “potenze orientali”. In soldoni: bisogna evitare che Cina, Russia e altri creditori si comprino le loro aziende.
Paradossalmente i nord-americani, infuocati sostenitori liberoscambisti della globalizzazione e della concorrenza internazionale, adesso stanno attuando una strategia per limitare la concorrenza straniera, degli stati “nemici” e creditori, che non l’hanno presa bene: <<i paesi creditori, con cui per decenni gli USA si sono indebitati, che oggi vengono qualificati come “nemici” e buttati fuori dal giro di affari>> hanno reagito anche alimentando <<tensioni militari a livello mondiale>>. <<Gli americani hanno fatto guerre, hanno fatto carne di porco per decenni, (diciamolo pure, con il nostro aiuto) e adesso gli altri iniziano a muoversi in senso politico militare, ed è quello che sta succedendo, per vie dirette e indirette. La nostra tesi di fondo è che la feroce competizione economica moderna, con gli enormi squilibri internazionali che genera infiniti rivoli, può sempre sfociare in uno scontro militare>>. Insomma, parafrasando Carl von Clausewitz (generale e teorico militare prussiano che definì la guerra come “la prosecuzione della politica con altri mezzi”) si potrebbe affermare che <<la guerra è prosecuzione del capitalismo con altri mezzi>>. E il mezzo della guerra (illegale) è stato già ampiamente utilizzato per alimentare un circuito espansionista sia economico che militare, una strategia che Brancaccio definisce di “doppio espansionismo”, ossia quello del debito e dell’influenza militare: i debiti che venivano accumulati servivano anche a finanziare le proprie campagne militari, con l’intento di accaparrarsi nuove risorse per ripagare i debiti, ma qualcosa è andato storto, come in Afghanistan. È un po’ come un giocatore di poker indebitato fino al collo che continua a giocare (e barare) puntando poste sempre più alte con la speranza di ripagare tutto... Ma la posta in gioco principale, e nemmeno l’unica, è quella delle vittime civili della tanto pubblicizzata guerra al terrorismo, che invece di stroncarlo lo ha fatto crescere.
COSA LEGA LA GUERRA IN UCRAINA A QUELLA IN PALESTINA
Il conflitto in Ucraina si configurerebbe quindi come una <<verifica sulla tenuta del nuovo ordine protezionista americano>>, mentre <<la questione palestinese indebolisce il progetto americano di friend-shoring, mette in difficoltà questo ordine protezionista che gli americani stanno cercando di costruire>>.
La strategia statunitense consiste nel creare un “blocco” insieme a Unione Europea e agli altri “amici” da contrapporre a quello dei creditori. Il problema principale del “blocco occidentale” è quello di non essere autosufficiente dal punto di vista energetico e delle materie prime: dietro questa problematica si celerebbe la ragione principale motivazione dei cosiddetti “accordi di Abramo”, un patto inizialmente siglato tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Israele nel 2020 a Washington, e successivamente anche da Marocco e Sudan, oltre a una serie di trattative e negoziati “laterali” che coinvolgono altri paesi, Arabia Saudita in primis, ovvero la potenza arabo-sunnita storicamente rivale dell’Iran persiano-sciita. I due rivali, già prima del 7 Ottobre, sembravano riavvicinarsi anche grazie alla mediazione della Cina, con il primo più conciliante con l’occidente e Israele, favorevole a una soluzione diplomatica della questione palestinese tramite l’appoggio dell’Autorità Nazionale Palestinese, mentre il secondo invece appoggia Hamas ed Hezbollah libanese con un approccio marcatamente conflittuale.
Abramo è considerato un profeta sia per islamici ed ebrei, e infatti lo scopo dell’accordo è quello di <<normalizzare le relazioni tra Israele e alcuni grandi paesi arabi e africani a maggioranza musulmana, produttori di combustibili fossili e risorse naturali>> in modo da farli rientrare nella strategia di “friend-shoring” e dunque nella cerchia degli “amici”. Una delle grandi lacune di questi accordi però è proprio la questione palestinese tenuta <<clamorosamente in sospeso. È un po’ come se qualcuno avesse dimenticato una grossa bomba sotto il tavolo degli accordi di Abramo, ed è scoppiata con un tempismo quasi perfetto>>, mettendo a rischio la strategia americana e offrendo una sponda al governo cinese che potrebbe beneficiare anche del fallimento del progetto dell’“Imec”, la rete di infrastrutture per i commerci alternativa alla “Nuova via della seta”.
<<Queste colossali lotte capitalistiche si stanno giocando sulla pelle dei popoli, anche sulla pelle di quegli israeliani sequestrati e uccisi da Hamas, ma soprattutto sulla pelle del popolo palestinese, sottoposto a un massacro sanguinario dal governo di Bibi Netanyahu e sodali>>, e non solo: la strategia della divisione in blocchi economici fa schizzare in alto l’inflazione, abbassando il potere di acquisto di pensioni e stipendi e quindi impoverendo <<milioni e milioni di lavoratrici e lavoratori nel mondo>>.
COSA DOBBIAMO CHIEDERE A USA E CINA? UNA SOLUZIONE DI “CAPITALISMO ILLUMINATO”
Nell’appello si spiega che nelle trattative di pace le contese territoriali sono gli aspetti più visibili, al centro dell’attenzione mediatica, ma di solito sono quelli economici a essere decisivi, e per questo dovremmo fare pressioni sugli USA per farli arretrare <<rispetto al progetto protezionista, neoimperialista, unilaterale e aggressivo del friendshoring>>. È anche necessario però che <<i cinesi, grandi creditori del sistema, accettino un piano di regolazione politica, e non di mercato, dell’enorme credito che hanno accumulato verso gli Stati Uniti>>, una soluzione molto complessa e definibile come di <<capitalismo illuminato>>, prima che scoppi un nuovo conflitto mondiale.
L’Unione Europea essendo <<in una posizione di attivo verso l’estero potrebbe smarcarsi dalla logica guerrafondaia della divisione del Mondo in amici e nemici>> e sganciarsi dalla strategia protezionista, ma nonostante ciò <<è stata pressoché totalmente subalterna>> alla logica del friend-shoring e alla linea statunitense. Inoltre l’Europa, sostanzialmente compatta sul conflitto in Ucraina, si è completamente <<sfaldata>> di fronte all’invasione e al massacro di Gaza e si può dire che <<praticamente non esiste>>.
L’Italia, nonostante una certa <<pubblicistica che definisce “brillanti” gli indirizzi di politica estera dell’attuale governo>> con <<uno spettacolo grottesco>> della Meloni che <<imbarazzata al Palazzo di vetro -sede principale delle Nazioni Unite- balbettava al Consiglio improbabili giustificazioni sull’astensione dell’Italia alla risoluzione ONU per la tregua, mentre Francia, Spagna e molti altri l’hanno approvata... La verità>> secondo il professore, è che c’è una linea <<che viene da lontano>>, ma adottata con particolare premura dai governi Draghi e Meloni per deviare la politica estera nazionale, originariamente caratterizzata da un atlantismo moderato e mediazioni con i paesi “non allineati” agli USA, fin dai tempi della “prima repubblica”, verso la direzione di un appiattimento con le <<politiche più estremiste in seno alla NATO>>, con uno <<scivolamento verso posizioni guerrafondaie preoccupante anche per ragioni economiche, e anche “capitalistiche”>>, per così dire: l’Italia è storicamente un crocevia dei principali commerci mondiali e per questo le politiche di mediazione sarebbero funzionali alle strategie commerciali dominanti... Per questo lo studioso ritiene che bisogna <<insistere con le mobilitazioni e con la protesta per un cambio di politica estera dell’Italia: è possibile, si può fare! Si pensi solo al fatto che Spagna e Francia>> hanno appoggiato la tregua, e ciò è indicativo della possibilità di modificare la politica estera, anche per arrivare a una conciliazione con l’“oriente”, oltre a sospendere gli accordi di cooperazione con Israele di fronte a un tale massacro. E <<non basta inorridirsi di fronte al massacro di Gaza, ma serve un riposizionamento>> in politica estera <<abbandonando questo atlantismo un po’ maniacale>> per ritornare all’approccio della mediazione.
C’è poi un’altra sfida per chi si colloca “a sinistra” dello spettro politico che dovrebbe essere ingaggiata: <<riabilitare sul piano scientifico, e quindi anche politico, la parola “rivoluzione”>> nel senso di critica del sistema capitalistico di mercato e di rilancio della pianificazione collettiva finalizzata alla “libera individualità sociale”, e cioè quel sistema antropologico che supera la dipendenza personale dai potenti della storia pre-capitalista, oltre a quella dell’indipendenza riconosciuta solo all’élite della “classe borghese”. Per avviare questa riabilitazione semantica e politica della rivoluzione, rendendola credibile sia dal punto di vista accademico che dalla prospettiva della comunicazione di massa, bisogna collegarla alla “fenomenologia della catastrofe”, intendendo per quest’ultima un mutamento del processo storico: i mass media dominanti ci raccontano che il <<tempo storico è fermo. Veniamo indottrinati nel senso che dobbiamo ritenere che le cose sono come sono e non muteranno>>. In particolare ci viene insegnato che il capitale è così com’è, e dobbiamo tenercelo così, punto. Inserire la catastrofe rompe questo schema perché implica che il tempo e lo status quo non sono fermi e immutabili, ma c’è per l’appunto un movimento verso la catastrofe. Qualcosa che hanno intuito i movimenti ecologisti radicali, movimenti per certi versi, <<millenaristi e messianici>> che identificano l’epoca attuale come catastrofica, principalmente dal punto di vista climatico. In questa lettura sembra però mancare un elemento fondamentale alla base dell’apocalisse climatica: il collegamento tra questa e il capitalismo, e quindi con le <<leggi di movimento del sistema>>, oltre alla connessione tra le leggi del capitalismo e guerra, e dunque la catastrofe militare.
Questo collegamento è un’operazione scientifica, e dunque politica, della massima urgenza: la <<meccanica della catastrofe>> va allora analizzata per comprendere le leggi che la regolano e che potrebbero portarci verso una nuova grande guerra, e per fare questa analisi torna utile recuperare una tesi e un concetto introdotto da Marx, esprimibile con l’espressione di “legge di tendenza verso la centralizzazione dei capitali”, e più nello specifico della “centralizzazione internazionale dei capitali”: <<la competizione capitalistica genera ogni giorno vincitori e vinti>>, con i primi che tendono a fagocitare, a “mangiarsi” gli altri. Ciò implica <<un processo di centralizzazione del capitale in sempre meno mani>>...
CHI CONTROLLA QUANTO: LA CONTESA PER IL NUOVO ORDINE ECONOMICO MONDIALE E QUELLO CHE I MEDIA NON DICONO (FORSE PERCHÉ NON LO SANNO COMPRENDERE E DIRE, FORSE PERCHÉ “NON FA NOTIZIA” IN SENSO SENZAZIONALISTICO, FORSE PERCHÉ IL POTEREMEDIATICO NON È ABBASTANZA INDIPENDENTE)
La tesi della concentrazione di soldi e potere in sempre meno mani può apparire semplice e intuitiva, ma analizzarla in concreto, non solo in termini di proprietà ma anche di controllo del capitale (e quindi di chi, per esempio, possiede quote molto piccole di una società in termini percentuali, ma essendo queste molto parcellizzate quella piccola quota basta a controllare una grande multinazionale), è un’operazione molto raffinata dal punto di vista scientifico-accademico. Utilizzando strumenti di “network analysis” (un ramo della scienza delle reti che studia, interdisciplinarmente, le rappresentazioni di sistemi complessi di fenomeni fisici, biologici e sociali per costruire modelli descrittivi e predittivi di questi fenomeni) e computer particolarmente potenti in grado di fare calcoli molto complessi, si può dimostrare a distanza di circa un secolo e mezzo che Marx aveva avuto una <<intuizione giusta, è cioè che una tendenza verso la centralizzazione dei capitali a livello mondiale e in sempre meno poche mani è un fatto, documentato e verificato empiricamente, scientificamente incontrovertibile al punto tale che meno del 2% degli azionisti mondiali detiene il controllo di oltre l’80% del capitale azionario mondiale>>.
Sentiamo spesso parlare dei cosiddetti “oligarchi russi”, ossia dei potenti industriali e finanzieri che si sono arricchiti grazie alla liberalizzazione dei mercati dell’ex URSS che <<ci sono, e come no>>, certamente esistono... Però il “net control”, ossia <<l’indice di centralizzazione capitalistica che noi misuriamo, per la Russia è all’incirca del 9%. In altre parole il 9% dei proprietari del capitale russo detiene almeno l’80% del capitale azionario delle società russe. Negli Stati Uniti questa percentuale scende allo 0,3%>>: quante volte però abbiamo sentito nominare gli “oligarchi nord-americani”?!
La politica economica americana è perciò la questione principale da analizzare per comprendere come la tendenza verso la centralizzazione potrebbe condurci a un conflitto di amplissima scala. Ed è questa anche la tesi fondamentale che il docente, insieme a Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli, esprime nel libro “La Guerra Capitalista: Competizione Centralizzazione, Nuovo Conflitto Imperialista”, edito da Mimesis Edizioni nel 2022: <<I grandi attori della scena internazionale>>, Biden incluso, <<riconoscono negli atti ufficiali della diplomazia ufficiale -che per qualche strana ragione non arrivano mai a media- che la guerra in Ucraina e gli altri eventi bellici di questo tempo potrebbero rappresentare un grande spartiacque storico che non si limita a definire i confini territoriali dell’Ucraina o della Russia. Non è questione semplicemente di Donbass o di Crimea, no!>>... Gli attuali eventi bellici potrebbero servire a definire quello che viene chiamato il <<nuovo ordine mondiale: questa è la partita in gioco, e la controversia chiave su cui si gioca la possibilità di costruirlo o meno>> è proprio la politica economica americana, con il passaggio dalla <<grande globalizzazione dei mercati, della grande apertura dei movimenti di merci, di capitali, di persone>>, su cui hanno insistito costruendoci sopra un modello culturale, a una politica <<all’esatto opposto>> del liberoscambismo e della globalizzazione, fin dalla crisi finanziaria del 2007-2008. Il passaggio al <<rigoroso, ferreo, pervasivo protezionismo commerciale e finanziario a livello mondiale, compiuto non solo da quel simpatico allerchino-fascista di Trump, ma già da Obama>> (anche se il primo lo ha sbandierato apertamente con lo slogan “America First”), il ché implica che <<l’avvicendamento delle famigerate democrazie liberali>>, e quindi l’alternanza di democratici e repubblicani al potere, <<non incide minimamente sulle grandi questioni di politica internazionale>>, sancendo il definitivo passaggio da una politica liberista a una protezionista, dopo aver compreso che non si riusciva a controllare pienamente globalizzazione e concentrazione capitalistica.
La principale implicazione politica, espressa dai diplomatici cinesi e russi, è che <<gli americani non sono più nelle condizioni di poter decidere autonomamente le regole del commercio e della finanza internazionale, di fare il bello e il cattivo tempo come hanno fatto qualche anno fa. Non possono più decidere, per esempio, di essere liberoscambisti finché gli conveniva e diventare improvvisamente protezionisti quando capiscono che il liberoscambismo non gli conviene più>> e dopo aver accumulato 18 mila miliardi di dollari di debito verso l’estero, e quindi oltre 4 mila miliardi e 500 miliardi di credito verso l’estero (principalmente nei confronti degli USA) dovuti rispettivamente a Cina e Russia in primis, oltre ad altri paesi situati verso est.
Nei discorsi del docente ci colpisce molto (e ci fa sorridere amaro) un esercizio intellettuale in cui prova a immaginarsi le priorità e i rispettivi dialoghi dei protagonisti, ai massimi livelli, delle trame politiche ed economiche globali: <<Il grande leader politico cosa ha sulla sua agenda? A un grande presidente di un grande stato, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, quali temi vengono messi sul suo tavolo>>? Si potrebbe pensare la <<libertà, la difesa dei popoli del Donbass, la tutela della difesa della sovranità dell’Ucraina. Vogliamo sollevare un minimo sospetto che non sia esattamente così? Forse i temi centrali, ai vertici del potere economico-politico, sono altri... Forse il problema è che Biden, per esempio, riceve una comunicazione dalle grandi multinazionali e aziende e gli viene detto: “caro Joe i cinesi hanno fatto una proposta di acquisto, hanno fatto un OPA, è un OPA ostile. Che facciamo, ci facciamo comprare dai cinesi?”>>, e così si alzano delle barriere protezioniste. E dall’altro lato del globo <<possiamo immaginare che a Putin venga detto: “guarda Vlad che questi non ci fanno più entrare nel loro mercato. Abbiamo pacchi di miliardi accumulati, e questi non ci fanno più entrare, questa cosa non va bene. Erano globalisti fino a ieri e noi, che abbiamo accumulato credito nei loro confronti, adesso non possiamo comprarli”. E questo discorso vale in Medio Oriente, in estremo oriente e vale in Cina>>, aprendo un’immensa contesa sull’ordine economico mondiale: se gli Stati Uniti si sono indebitati durante l’epoca della globalizzazione e <<cambiano le regole del gioco in corso d’opera le tensioni diplomatiche e militari salgono, la probabilità di guerre aumenta e anche la probabilità di un grande conflitto>>, con la volontà di trovare nuovi sbocchi per i flussi finanziari tramite la forza piuttosto che con la competizione nel mercato.
Su questo le diplomazie si scontrano, e questioni del genere contano <<molto di più del confine del Donbass e della Crimea (...) I tavoli delle trattative territoriali sono stati sempre più visibili nella storia del capitalismo, ma i tavoli delle trattative economiche sono stati sempre più importanti!>>.
COME NE USCIAMO? CHE FACCIAMO?
Nell’appello scritto insieme a Robert Skidelsky, biografo di Keynes, <<noi sosteniamo che non vi è alcun modo di aprire una trattativa di pace>> che non sia su un “tavolo economico”, mentre l’attenzione della pubblica opinione è tutta concentrata su <<quello secondario territoriale>>. Per questo va aperta una discussione critica sul protezionismo americano e sul friend-shoring, mettendo in discussione la linea protezionistica, convincendo i cinesi che non è più possibile portare avanti il globalismo: <<abbiamo capito che loro ci guadagnano da globalismo e da globalizzazione>> però a questi <<comunisti-liberoscambisti cinesi>> bisogna far comprendere che nemmeno l’opzione iper-globalista è praticabile. <<Bisogna cercare una soluzione intermedia. Keynes alla fine della seconda guerra mondiale elabora un piano, il cosiddetto piano Keynes, finalizzato sostanzialmente a una regolazione politica sugli squilibri internazionali generati dal movimento capitalistico. Quella idea>> concretizzata parzialmente con i famosi accordi di Bretton Woods nel ‘44 <<è stata evocata soltanto dopo due guerre mondiali>>, dopo milioni di morti e devastazioni immani, <<e soltanto sotto il pungolo della grande alternativa di sistema che all’epoca era rappresentata dall’esperimento sovietico. Io, che non sono keynesiano, ritengo che una domanda chiave che dobbiamo porci ed è urgente è questa: esistono oggi le condizioni per evocare una ipotesi di regolazione capitalistica, come quella evocata da Keynes e applicata in minima parte a Bretton Woods, oggi, senza il pungolo di una grande alternativa e minaccia rossa -che nel senso sovietico non c’è, dato che la Cina è tante cose ma non una minaccia in questo senso- è possibile ritornare a quella evocazione keynesiana prima che scoppi una nuova grande guerra? Questa secondo noi è la domanda che dovrebbe essere al centro del dibattito democratico di questo tempo, deve ritornare al centro della discussione politica. Ovviamente le risposte che si possono dare secondo me sono due: una è quella di Keynes che oggi, posso sospettare, direbbe che probabilmente si possono creare le condizioni per una nuova regolazione capitalistica prima che scoppi una guerra>> dato che aveva simpatie per il capitalismo <<anche se lo considerava una patologia psichiatrica; c’è poi la risposta alternativa, più cupa, più funesta, che è quella di Lenin e che risponderebbe: “no, non è possibile una regolazione capitalistica! Sarà tempo di ferro e di fuoco”. La questione, al di là del sì keynesiano e del no leniniano, è che quella domanda noi la dobbiamo porre al centro del sistema>> mediatico, politico e accademico.
Nel libro succitato Brancaccio parla di una <<pura guerra capitalista>> tra due imperialismi: l’imperialismo dei debitori-sconfitti e quello dei creditori-vincitori <<che scoppia a causa non di sacri diritti negati, ma di profani contratti mancati>>. Tutto il resto <<è secondario ed è scandaloso>> che non se ne parli, eccetto in maniera incidentale quando le “petro-monarchie” e le società cinesi comprano le squadre di calcio occidentali, promuovendo così anche la loro immagine tramite il cosiddetto “sport-washing”, oppure quando vengono acquisite aziende europee di diverso genere.
CONTRO LA LINEA DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA CHE NON C’É PIÙ (UN PARAGRAFO “DI NICCHIA”)
Il Prof. Brancaccio all'Ex Opg Je So Pazzo |
Oltre alla rielaborazione del concetto di rivoluzione con l’inserimento dell’orizzonte della “catastrofe” e delle dinamiche socio-economiche sottese a essa, in quest’ultimo paragrafo (che prende spunto dalla parte finale del primo incontro) ci focalizziamo su due spunti (forniti dalle domande del moderatore, Giampiero Laurenzano di PAP) “di nicchia”, o per meglio dire delle “nicchie di sinistra” e delle varie identità “sinistre”:
il primo è la paradossale posizione di chi (come il sottoscritto) è cresciuto nella generazione dei “No Global” e adesso vede assumere posizioni anti-globaliste e protezioniste non solo dai nazional-conservatori-sovranisti come la Meloni, ma anche dai vari governi a stelle e strisce;
la seconda questione riguarda invece le “simpatie”, a partire già dalle generazioni precedenti del movimento no-global, nei riguardi della sfera sovietica e della Repubblica Popolare Cinese, della possibile definizione di quest’ultima come un’entità imperialista e capitalista, e della rappresentazione di queste potenze come alternative “multipolari”.
Brancaccio riassume decenni di storia e di diatribe in pochi secondi partendo dalla <<fase in cui si è ritenuto che, essendo il gigante americano al centro del sistema mondiale, una qualsiasi forma di multipolarismo capitalistico a livello internazionale, fosse l’obiettivo verso cui tendere. Io, che considero l’imperialismo americano il nostro nemico principale (perché non c’è dubbio che si combatte contro il “proprio” imperialismo, quello della propria terra), all’epoca consideravo la questione della tendenza verso il multipolarismo come una questione di “mutamento storico”, e quindi qualcosa verso cui tendere. Ma noi siamo pienamente dentro quella fase, adesso... E adesso dobbiamo fare un passo avanti per poterla interpretare criticamente e per potere lottare in senso progressivo. La mia sensazione è che le compagne e i compagni che si attardano a fare un discorso meramente multipolare, quindi prendendosi la bandiera di Xi Jinping o di Putin, sono un po’ in ritardo sul processo storico>>, afferma eufemisticamente prima di chiarire: <<lungi da me avallare e celebrare il tentativo di maquillage che stanno facendo gli atlantisti attraverso questa guerra... Non scherziamo: fino all’altro ieri hanno fatto carne di porco in Medio Oriente, hanno distrutto l’Iraq, hanno devastato la Jugoslavia, grazie anche alle decisioni dei nostri Presidenti del Consiglio di sinistra (...) ma fare un discorso meramente “campista”, come si dice in gergo, è vecchio, è debole perché siamo già in una fase multipolare. Tecnicamente parlando (adesso utilizzo, come dire, “le Bibbie”) Lenin sostiene che è imperialismo quando è esportazione di capitale, e quando l’esportazione di capitale deve farsi strada, deve farsi largo, deve crearsi sbocchi anche attraverso le truppe e i cannoni>>, e quando il livello e il tipo di capitalismo è a uno stadio molto avanzato, mentre più genericamente l’imperialismo può essere inteso come una qualunque politica atta a perseguire il dominio di un’entità statale su altre. <<Siamo in una fase di potenziale ascesa di un nuovo imperialismo, esportatore di capitali, proveniente da oriente, proprio in virtù del fatto che c’è una senescenza -cosa che da molto fastidio ai nostri media- del grande capitalismo americano>>, e l’epoca dell’imperialismo unipolare americano <<è finita>>. <<C’è qualche compagna e compagno che vede la Cina con un certo interesse e fascino, e anche io la guardo così, però sono costretto a misurarmi con la scienza: se c’è una ragione per cui riesco a reggere il confronto con quelli là>> -e presumiamo che intenda gli scienziati economici “ortodossi” e i relativi “templi” del grande capitalismo finanziario come il Financial Times che ha pubblicato il già citato appello, oltre alle numerose trasmissioni televisive in cui viene invitato- <<è perché sto sui dati, sui fatti. La Cina è un esperimento politico colossale, gigantesco, di grande interesse, inquietante e affascinante, ma è anche un luogo in cui gli indici di disuguaglianza sono esplosi, dove il mercato azionario -non semplicemente a Hong Kong, ma a Shanghai- è diventato potentissimo, dove una classe capitalista emergente comincia a confrontarsi con il Partito comunista cinese e comincia a rivendicare libertà, e non quelle collettive di cui abbiamo bisogno, ma quelle del capitale! La Cina è una realtà complessa>> e il professore non condivide completamente la tesi di Ronald H. Coase, premio nobel per l’economia e autore del libro “Come la Cina è diventata un paese capitalista” (di cui ci consiglia la lettura), secondo cui sarebbe <<un paese capitalista a tutti gli effetti>>, anche se perlomeno è sbilanciata verso il capitalismo e forse <<persino Tienanmen, diversamente da come è stata narrata da tutti, anche dai media occidentali, fosse in realtà una partita tra il partito comunista cinese e una classe capitalista che già all’epoca, nell’89, cominciava ad emergere, a farsi largo e a rivendicare. Pensate oggi quanto quello scontro tra partito e classe abbia raggiunto dei livelli contraddittori>>. Non serve <<mettere la bandiera dell’anti-imperialismo in mano a Xi Jinping>> e questo <<campismo semplicistico>> o “neo-campismo”(e quindi lo schierarsi in favore del “campo” che dovrebbe costituire un'alternativa socialista), non avendo <<nemmeno un’Internazionale Comunista che ci costringe e ci obbliga a prendere una posizione>>, bisogna identificarlo chiaramente, dicendo <<le cose come stanno: è francamente infantile>>. Infine bisogna considerare un'altra differenza tra i due "blocchi" di ieri e rispetto a quelli di "oggi": <<non erano legati da un intreccio micidiale>> , erano separati.
ABBIAMO BISOGNO DI DIBATTITI E CRITICA PER NEUTRALIZZARE DINAMICHE E NARRAZIONI GUERRAFONDAIE: SOSTENETE I CONTENUTI MEDIALI ALTERNATIVI!
Grazie per essere arrivat* fin qui: nel nostro “piccolo-mediatico”, e con i nostri corposi articoli in stile “slow-journalism”, che di solito assomigliano più a dei saggi informali, cerchiamo di fare il nostro meglio per amplificare le tesi e le voci che non trovano sufficiente spazio nei dibattiti che vanno per la maggiore. Per questo pensiamo sia fondamentale in questi giorni funesti, mentre un nuovo conflitto diventa più visibile (perché in realtà è "scoppiato" circa 70 anni fa) e mentre un altro passa in sordina (anche questo in realtà "scoppiato" quasi dieci anni fa), cercare di indagare le cause “materialiste” delle guerre, mentre la stragrande maggioranza dei media mainstream ci propina discorsi vuoti e retorici su libertà da difendere “a senso unico”, puntando a raccontare quello che è più “notiziabile”, ciò che si "produce" più economicamente e a ritmi serrati nella globalizzata e omologata catena di montaggio mediale...
Di seguito trovate incorporate la registrazione delle dirette dei due incontri (se non riuscite a visualizzarli trovate i link all’inizio di questo maxi-post): ringraziamo le compagne e i compagni dei vari spazi occupati e liberati che organizzano questo genere di “conferenze”, incontri e dibattiti e che rappresentano dei preziosissimi momenti di formazione, nonché delle valide alternative da "visualizzare" al posto di molti canali televisivi e online. Nel farlo vi invitiamo a dedicare il vostro prezioso tempo non solo alla visione di programmi televisivi e “influencer” famosi, alla lettura delle più note (forse alcune troppo note) testate, ma anche a canali alternativi (inclusi quelli dei “social asociali” e dei social alternativi -siamo anche sul “fediverso” con un account Mastodon, oltre ai link alle altre piattaforme che si trovano in fondo-) come riteniamo siano i nostri e quelli a cui dedichiamo volentieri il nostro spazio: apprezzateci, criticateci, correggeteci, chiedeteci delucidazioni, proponeteci "cose", commentateci qui sotto, sui "social asociali", o ancora meglio di persona! Sarà nostro dovere e piacere includere il vostro punto di vista e “fonderlo” con quello di questa umile zina/rivista.
Paolo Maria Addabbo, aka il “Direttore-Tuttofare”
E allora la catastrofe a livello sociale sarebbero le guerre... e questa fenomenologia della catastrofe, sia in ambito ecologista che bellico, come si esplica? Come risolve? Non capisco. È solo un'analisi?
RispondiEliminaGrazie dell'attenzione e del commento. Se ho compreso bene le parole del Prof., inserendo la catastrofe nell'orizzonte ultimo del capitalismo, che ci viene insegnato essere un qualcosa di immutabile e che "bisogna tenerselo così com'è", e comprendendo che c'è un movimento storico verso la catastrofe climatica e sociale, si arriva a capire che dunque nulla è davvero "fisso", che nulla non si può non cambiare. Sta a noi quindi "mutare il corso della storia" e cambiare l'attuale sistema socio-economico dominante, il capitalismo per l'appunto, evitando l'accentramento del capitale in sempre meno mani, decentrando le dinamiche di potere, potenziando sul breve termine almeno le politiche "welfaristiche"/"keynesiane", attuando un'economia veramente green e sostenibile (e non quella propinata dal green-washing), chiedendo a Cinesi e USA di mediare le regole del commercio internazionale senza alimentare tensioni militari, combattendo la "falsa coscienza", e così via discorrendo e immaginando...
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