ISRAELIANI, EBREI ED EX SIONISTI CONTRO SIONISMO E COLONIZZAZIONE PER UNA PALESTINA LIBERA
Abbiamo cominciato a lavorare a questo lungo articolo (che si è trasformato in un saggio informale da leggere con calma) prima dell’attacco partito dalla Striscia di Gaza, nel cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur...
Le accuse a chi critica lo stato di Israele e a chi prova a metterne in dubbio le sue caratteristiche democratiche vanno avanti da decenni, insieme alle politiche colonialiste dello stato ebraico che non rispettano il diritto internazionale. La principale accusa strumentale mossa a chiunque osi mettere in discussione la legittimità delle politiche e dei confini attuali dello stato di Israele, e che si sta rafforzando dopo l’attacco sferrato da Hamas, è quella di essere anti-semita e di aver dimenticato gli orrori dell’Olocausto.
Partiamo chiarendo da subito la posizione di chi scrive in merito ai circa 50 giorni di “punizione collettiva” dei gazawi (crediamo sia sempre utile esprimerla e separarla dai fatti, e se avete il piacere di esprimerne di diverse tra queste righe, o di segnalarci altri articoli e contenuti, non avete che da contattarci via mail o qui sotto nei commenti, e sarà nostro dovere riportarle e un piacere confrontarci) espressa in estrema sintesi: l’ “ultimissima” parte del conflitto all’interno dei territori palestinesi illegalmente occupati vede come principali protagonisti due “destre”, due estremismi e due fondamentalismi religiosi sostenuti da altre avverse potenze (USA e Iran in primis): da una parte quello fanatico-sionista di Israele e dall’altra quello del nazionalismo-islamico di Hamas. La differenza dello stato etno-centrico ebraico, oltre alla sproporzione di forza, risiede nell’avere un’entità statale (quella sionista-occupante e presunta sola “democrazia-liberale-liberista” del Medio Oriente) che occupa e colonizza illegalmente dei territori con un esercito “regolare”(oltre alle milizie paramilitari dei cosiddetti coloni). Per questo, a maggior ragione, dovrebbe rispettare il diritto internazionale, ma ciò non avviene da vari decenni e anzi: dopo aver favorito Hamas per mettere una pietra tombale su qualunque prospettiva di uno stato palestinese (non avendo nessuno con cui “trattare” ufficialmente) sta cogliendo l’occasione per attuare una nuova “Nakba”, la “Catastrofe” del ‘48, l’inizio della contemporanea politica dagli intenti genocidi nei confronti dei palestinesi.
Questo “saggio-articolo” nasce con l’intento principale di smontare le accuse di anti-semitismo mosse a chiunque critichi Israele, perfino agli stessi israeliani ed ebrei: “disinnescare” questo genere di critiche è diventato più arduo dopo le azioni dei fondamentalisti islamici, e in particolare quelle dirette a obiettivi non militari, che sono ovviamente da condannare in quanto crimini di guerra... Il problema però è che i crimini di guerra commessi negli ultimi decenni da Israele, e in particolare dagli estremisti sionisti-colonialisti, vengono ignorati dalla stampa mainstream, impegnata come al solito ad alimentare la narrazione fantoccio dei “buoni occidentali democratici giudaico-cristiani” contro i “cattivi terroristi”, quasi sempre musulmani, oltre a tralasciare le cause materiali e “materialiste” alla base delle guerre.
Quasi nessuno si indigna quando, quotidianamente, l’esercito israeliano (così come altri apparati militari del mondo “civilizzato”) insieme ai coloni (di fatto delle milizie paramilitari supportate dalle forze di difesa israeliane “ufficiali”) commettono indicibili abusi, perfino con l’avallo di leggi palesemente illegali e incivili (si pensi alle varie torture commesse in regime di detenzione amministrative agli “ostaggi” palestinesi israeliani da anni, ai permessi per costruire insediamenti garantiti solo ai coloni, agli spossessamenti forzati di terre, colture, costruzioni, risorse idriche e così via), sistematicamente ignorati dalla quasi totalità di politici e degli apparati mediatici.
Quasi nessuno prova a spiegare come vivono effettivamente i palestinesi, come viene irrimediabilmente limitata la loro libertà di movimento, di proprietà, di accesso a strutture sanitarie e scuole, di come vengono rinchiusi (non solo con gli arresti arbitrari) e uccisi, di come delle famiglie vengono separate da recinzioni automatizzate con meccanismi di riconoscimento facciale, di persone che non possono tornare “a casa” pur avendone il pieno diritto, di persone nate e cresciute in campi profughi che non riescono nemmeno a concepire cosa significhi viveri al di fuori di esso, del senso di claustrofobia, letterale e metaforico, che non può far altro che alimentare i fondamentalismi e la lotta armata (conflitto armato che, tra l’altro, è legittimo di fronte a un occupazione illegale anche secondo il diritto internazionale, anche se il diritto alla difesa non dovrebbe mai coinvolgere civili se non come funesti “danni collaterali”, e nonostante questa constatazione sia dolorosa per qualunque vita spezzata, al di là del fatto che indossi una divisa o meno)... Anzi, se qualcuno prova a fare delle critiche a Israele, anche “minime”, viene perfino tacciato di essere anti-semita e complice dei “terroristi”, il che è linguisticamente paradossale: sono gli israeliani guerra-fondai, nazionalisti e colonialisti, a essere anti-semiti perché anche i palestinesi fanno parte delle popolazioni semitiche, anche se il termine anti-semitismo viene usato in chiave anti-ebraica per la prima volta nella Germania di metà ‘800.
E mentre la maggioranza dei principali media mainstream si scaglia contro i presunti -e talvolta purtroppo veri- antisemiti, all’opposto si fa sempre più largo anche l’islamofobia, un sentimento di cui avere paura e da contrastare tanto quanto l’anti-semitismo, insieme al linguaggio genocida che disumanizza la popolazione palestinese.
Iniziamo da tre stralci di interventi, diffusi tramite dei brevi video, che meriterebbero di diventare virali, di salire alla ribalta delle cronache, di risalire i risultati nei “feed” dei vari social network che invece tendono a identificare come “contenuti sospetti” qualunque critica a Israele penalizzandola o bannandola (e che per questo vi invitiamo a ri-postarli e a schiacciare su “mi piace”, anche se non ci piace vedere immagini, o sentire parole molto forti che però non possiamo ignorare).
Questi primi tre estratti di interventi hanno il merito di sintetizzare efficacemente e in pochissime battute le ingiustizie e le inconsistenze dell’ideale fanatico-sionista, e i danni che esso crea alle diverse comunità nelle terre di Palestina e nel Mondo intero, a cominciare da quelle arabe ed ebraiche: ci riferiamo al rabbino americano “ultra-ortodosso” e anti-sionista Yisroel Dovid Weiss, all’avvocata israelo-americana specializzata in diritti umani Sari Bashi di “Human Rights Watch” e “Gisha”, e a Ruth Ben-Artzi, professoressa di scienze politiche negli USA e nipote di Sara e Benjamin Netanyahu, rispettivamente la “first lady” e il presidente di Israele da cui ha preso le distanze parlando di una deriva “fascista” dello stato di Israele.
Passiamo poi alle parole del medico e oratore Gabor Maté, classe 1944, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto era diventato, da giovane, un sostenitore dell’ideale sionista di una “terra promessa”, mosso da una naturale ricerca di protezione per il suo popolo, prima di rendersi conto delle atrocità che venivano commesse nei territori occupati dopo averli visitati.
CONTRO L’ETNO-TEOCRAZIA ISRAELIANA O CONTRO GLI EBREI?!
Foto a sinistra di "Carolmooredc" rilasciata con licenza creative commons: sul cartello del rabbino si legge: "<I rabbini autentici si sono sempre opposti al sionismo e allo stato di Israele>" |
Iniziamo a smentire le sempre più frequenti accuse di anti-semitismo nei confronti delle voci critiche di Israele partendo proprio da quella di un rabbino della comunità haredi, che alcuni definiscono come “ultra-ortodossi” mentre per altri sarebbe preferibile usare il termine “ultra-praticanti”. Si chiama Yisroel Dovid Weiss, vive negli USA, gran parte dei suoi antenati sono morti durante l’Olocausto e fa parte di “Neturei karta”, gruppo che critica il sionismo e lo stato israeliano.
Il 15 Maggio di quest’anno nel 75esimo anniversario della “Nakba”, e cioè dell’inizio della prima guerra arabo-israeliana, dell’operazione di pulizia etnica (secondo la definizione dello storico israeliano Ilan Pappé) e dello spossessamento forzato di centinaia di migliaia palestinesi delle loro terre e della loro stessa identità, lanciava un messaggio tramite il canale di “Middle East Eye”, negli stessi giorni in cui si festeggiava la nascita dello stato israeliano (ed esprimendo dei concetti che ha ripetuto un mese fa ad “Al Jazeera”):
<<abbiamo un messaggio per questi 75 anni d’occupazione: vogliamo che il mondo sappia che ciò che viene perpetrato ai danni del popolo palestinese, l’oppressione, la sottomissione, la terribile crudeltà, non è in nome della nostra religione, della Stella di David e degli ebrei in tutto il Mondo che sono fedeli alla propria religione (…) siamo in completa opposizione all’esistenza dello stato sionista di Israele, e dico “sionista” perché è tale e non ebraico. Il Giudaismo e la Torah vietano agli ebrei di avere una propria sovranità ed entità fin dalla distruzione del tempio, e gli ebrei fedeli non provano mai ad avere uno stato proprio, oltre al divieto di uccidere o rubare. L’essenza di questa idea di prendersi la terra dei palestinesi è completamente in antitesi e in contraddizione con la mia religione. Gli ebrei, dal primo giorno, hanno sempre preso posizione contro questa entità sionista, e continuiamo a farlo protestando, piangendo, soffrendo e percependo le sofferenze dei palestinesi. Speriamo e preghiamo il signore continuamente per una completa fine dell’occupazione. Vogliamo che il mondo sappia che il movimento sionista non è un movimento ebraico, ma un movimento politico e materialista creato da eretici, che in maniera semplicistica cercano di incorporare la nostra religione per intimidire, per fare stare zitti e chiamare anti-semiti chiunque si opponga, mentre ciò è palesemente falso>>. Nella maggior parte dei programmi televisivi di questi giorni si mostrano piazze che protestano in favore della Palestina, si intervistano palestinesi europei che sostengono Hamas (quasi a lasciar intendere che tutti i palestinesi siano identificabili con un movimento nazionalista o che lo sostengano, e senza dire che questo è stato favorito in diverse maniere dallo stesso Israele che ne ha anche accresciuto la popolarità), e poi evocano lo spettro dell’antisemitismo, che certamente esiste (a volte anche nell’ambito della sinistra radicale, ma soprattutto in quello della destra neo-nazi-fascista e perfino nelle parole di certi governanti italiani che rievocano il concetto di sostituzione etnica e di complotti orditi dagli "emissari" dell'ebreo Soros) ma che non va certo agitato a sproposito. Quante volte avete visto invece un ebreo, o addirittura un rabbino, criticare aspramente e nettamente sia il sionismo che Israele in TV? Verrebbe anche lui definito un antisemita?
Gli altri stralci di interventi sono stati diffusi dall’emittente indipendente “Democracy Now!”. I primi provengono da un’intervista a Sari Bashi del 17 Ottobre, esperta di diritti umani con cittadinanza israeliana e statunitense, “Program Director” di “Human Rights Watch”, sposata con un professore palestinese della Cisgiordania.
In un breve “reel” diffuso dall’emittente sul suo profilo Instangram,
nei primi giorni della <<punizione collettiva>> senza precedenti
nella storia recente palestinese come è stato senza precedenti l’attacco di
Hamas, diceva: <<non va mai bene commettere impronunciabili crimini di
guerra contro i civili, come è stato fatto nel sud di Israele il 7 Ottobre, e
questo in nessuna maniera giustifica la commissione di crimini di guerra contro
i civili di Gaza. Per gli americani che sono perplessi su quanto sta avvenendo
vorrei suggerire di ricordare un principio molto basilare: i civili devono
essere protetti! Inoltre spingete i rappresentanti che avete eletto per ricordare questo principio al governo degli
USA, perché quest’ultimo sta fornendo 3.8 miliardi di dollari all’anno in aiuti
militari a Israele e portando ancora più armi qui, adesso, e che ha la
responsabilità di porre un freno agli attacchi contro i civili, di chiedere a
Israele di cancellare l’ordine di evacuazione>> (che come ha spiegato
nell’intervista può essere assimilato a un trasferimento illegale e forzato
della popolazione, oltre alla violazione del principio di non respingimento commessa
anche dall’Egitto) <<di proteggere i civili di Gaza e di ripristinare
immediatamente gli aiuti umanitari>>, inviti e condizioni che
purtroppo sono stati tragicamente disattesi.
Parlando poi delle cause dell’odio e della violenza alimentate dalla sistematica repressione dei palestinesi anche in Cisgiordania, in meno di un minuto di un altro breve video (diffuso sul canale Youtube della stessa emittente) sintetizza cosa vuol dire abitare in un regime di “apartheid”, un regime <<invisibile ai governanti americani>> e denunciato dalla ONG di cui fa parte, partendo dalla sua stessa prospettiva: <<sono un’ebrea israeliana e americana. Il mio partner è palestinese è posso fare delle cose che lui non può fare: posso viaggiare abbastanza liberamente, e anche se sua madre è una rifugiata da un posto che ora fa parte di Israele, lui non può passare in zone che sono proibite ai palestinesi. I miei diritti sono ottimi, godo di buona salute, e ci sono città in Israele costruite solo per ebrei, così come nella Cisgiordania ci sono insediamenti per soli ebrei, mentre i palestinesi sono circondati, non hanno la facoltà di costruire città, con le loro case demolite per la mancanza di permessi praticamente impossibili da ottenere. Le autorità israeliane stanno attuando trasferimenti forzati, con la rimozione di comunità palestinesi in Cisgiordania per fare spazio agli insediamenti. Tutto ciò rientra nelle cause alla radice della violenza (...) Ci sono degli abusi terribili: bisogna solo ascoltare cosa le persone sul campo dicono e agire di conseguenza>>.
Chiudiamo questo primo paragrafo con le parole di Ruth
Ben-Artzi, professoressa di scienze politiche negli Stati Uniti, esperta di
Medio Oriente, cresciuta in Israele e nipote acquisita del primo ministro
israeliano. Per anni aveva cercato di non rendere pubblica la sua parentela e di
evitare di esporre le sue opinioni politiche. Mentre però il governo di suo zio
portava avanti le riforme che avrebbero completato la trasformazione di Israele
in una vera e propria <<teocrazia>>, negli scorsi mesi ha deciso di rompere il silenzio e di dissociarsi ufficialmente dai suoi parenti a mezzo stampa,
accusandoli di <<promuovere il fascismo>>. Immaginate cosa
succederebbe se lo stesso concetto, con l’associazione della parola “fascismo”
a “Israele”, venisse espresso da un non ebreo: “di norma” verrebbe tacciato di
essere un pericoloso anti-semita e di aver dimenticato l’orrore della Shoà.
Ai microfoni di “Democracy Now” la scorsa
settimana, mentre iniziavano le trattative per il rilascio degli ostaggi, ha
parlato di un appello degli ebrei e israeliani residenti nello stato di Rhode
Island, insieme a centinaia di scienziati politici, per chiedere un “cessate
il fuoco” (espressione molto diversa dalle cosiddette “tregue umanitarie”),
come unica soluzione e punto di partenza per una risoluzione del conflitto che
non finisca con l’alimentare delle spirali di violenza, una soluzione che non
può essere quella militare e che certamente finirebbe per rafforzare Hamas,
piuttosto che eradicarla, e che è supportata da diverse organizzazioni sia
palestinesi che israeliane: la soluzione politica è <<l’unica
speranza per, approssimativamente, 7 milioni di palestinesi e 7 milioni di
ebrei che vivono tra il fiume e il mare di raggiungere la pace>>.
LA DIFFERENZA TRA QUELLO CHE SAPPIAMO E QUELLO CHE NON VOGLIAMO SAPERE...
Foto a sinistra di "Gabor Gastonyi", fonte "Clare Day", rilasciata con licenza "creative commons" |
Gabor Maté, medico e sopravvissuto all’Olocausto, inizialmente un supporter adolescenziale dell’ideale sionista di uno stato ebraico per poi diventare acceso critico del colonialismo israeliano, vive in Canada, e nove anni fa scriveva sul sito “The Star” in un articolo intitolato “Il magnifico sogno di Israele è diventato un incubo”: <<in Israele-Palestina la fazione più potente ha avuto successo nel descrivere se stessa come la vittima, mentre quelli che vengono ammazzati e storpiati diventano i carnefici (...) Netanyahu, tu che con precisione chirurgica massacri innocenti, giovani e anziani, tu che hai crudelmente introdotto un embargo a Gaza per anni, affamandola di necessità, tu che togli ai palestinesi sempre più la loro terra, l’acqua, i raccolti, gli alberi, te ne importa della vita?!>>.
Nell’articolo si trova anche una precisa risposta alla fallacia
logica dell’"argomento
fantoccio" più usata dagli estremisti sionisti e dalla folta schiera di politici
e comunicatori loro "supporters": quando vengono denunciate le politiche colonialiste di Israele,
questi usano la tragedia dell’Olocausto per sviare l’attenzione dai loro crimini
nei territori occupati, avanzando il diritto ad avere un proprio stato ma
dimenticando di dire che questo viene ottenuto a spese di un altro popolo: <<il
mio cuore mi dice che “mai più” non è uno slogan tribale, che l’omicidio
dei miei nonni ad Auschwitz non giustifica l’esproprio dei palestinesi in
corso, che giustizia, verità e pace non sono prerogative tribali. Che il
“diritto di difendere sé stessi” di Israele, inattaccabile in principio, non
conferisce validità alle uccisioni di massa>>.
Quando il noto autore e oratore scriveva queste parole, a Luglio del 2014, Hamas aveva lanciato più di 3000 razzi in pochi giorni e Israele rispondeva con un’offensiva a Gaza, l’operazione “margine di protezione”. Prima della tregua morirono più di duemila palestinesi e una settantina di israeliani, quasi tutti militari (tra l’altro in quei giorni terminò anche la vita di un reporter italiano, Simone Camilli, che si trovava lì per un pezzo sugli ordigni inesplosi).
Nello stesso periodo rilasciò anche una lunga intervista a Russel Brand per il podcast “Under the Skin”, e alcuni stralci sono pubblicati sul suo canale YouTube. Nell’intervista va subito al nocciolo della questione palestinese partendo cronologicamente dalla “Nakba” nel ‘48, quando terminava il mandato britannico della Palestina e più di 700mila arabi-palestinesi furono espulsi dalla loro terra:
<<non c’era altro modo per creare uno stato ebraico senza
opprimere ed espellere la popolazione locale, cosa che hanno fatto nel 1947 con
la protezione dell’impero britannico. Storici israeliani ed ebrei hanno
dimostrato, al di sopra di ogni dubbio, che nel 1948 che l’espulsione dei
palestinesi è stata deliberata, persistente, pervasiva, omicida e crudele.
Questo è ciò che viene chiamato “Nakba” in arabo, la “catastrofe”.
Oggi in Canada (paese in cui vive Maté ndr) c’è un legge che non permette
la negazione dell’Olocausto (anche se non credo in questo tipo di
legge), ma in Israele ce ne è un’altra che non permette di parlare della
Nakba, anche se è alla base della fondazione di Israele>>.
Dopo aver visitato i territori occupati ha visto di persona la
crudeltà del colonialismo sionista e di matrice europea, <<il diniego
dei diritti all’accesso dell’acqua, gli incendi e la distruzione degli olivi>>
e le altre brutalità alla base della <<più lunga operazione di pulizia
etnica del XX e del XXI secolo (...) In quanto ebreo potrei
atterrare con un aereo a Tel Aviv domani e chiedere la cittadinanza secondo la legge
del diritto al ritorno, ma il mio amico palestinese a Vancouver, nato a
Gerusalemme, non può nemmeno visitare la città: se io ho il diritto di
ritornare dopo duemila anni, assumendo che la storia non sia opinabile, perché
il mio amico non può tornare dopo 70 anni?>>.
Poi parla dell’immensa povertà di Gaza, <<la
più grande prigione del mondo a cielo aperto>> e di Hamas,
<<un’organizzazione islamica, inizialmente incoraggiata e
supportata da Israele come contrappeso alla secolarizzata “Organizzazione
per la Liberazione della Palestina” con cui non voleva avere
a che fare. Era naturale, date le condizioni, che le persone avrebbero
seguito una leadership estremista, questo fa la gente quando viene resa
miserabile, senza speranza, deprivata di qualunque diritto. Non c’è bisogno
di supportare le politiche di Hamas per difendere i diritti dei palestinesi, è
una falsità assoluta... Ma ci sono state delle libere elezioni a Gaza,
monitorate dalla comunità internazionale e definite come le più libere nel
mondo arabo, e Hamas ha vinto, e immediatamente gli USA e Israele organizzarono
un golpe, che Hamas sconfisse e per cui fu iniziato un embargo che priva
Gaza di cibo, medicinali e acqua a sufficienza. Ogni volta che c’è un conflitto
Israele “falcia il prato”, un’espressione che si traduce nell’uccisione di
massa di civili. Allora, è vero che da Gaza si lanciano razzi verso Israele
uccidendo persone innocenti?! Sì è vero! Sono in favore di questo?! No! Ma
quando si discute della morte di civili innocenti, Israele uccise 20mila civili
libanesi nel 1982, usando armi illegali come le bombe a grappolo, in una guerra
che non aveva alcuna giustificazione, e potrei andare avanti per ore. La
sproporzione di potere, di responsabilità, di oppressione è così marcata da un
lato, che basta pensare alla peggiore cosa che si può dire di Hamas
moltiplicata per mille, e quella cosa non sarà paragonabile alla repressione
israeliana, alle uccisioni e alle espropriazioni dei palestinesi>>,
e come vedremo questo punto di vista non è cambiato in questi ultimi giorni.
Maté, come altri “ebrei dissidenti”, deve poi difendersi
dall’accusa di non essere un praticante, una critica “parallela” a quella di
essere antisemita o ebreo che odia sé stesso: <<A quelli che argomentano che non siamo degli
ebrei praticanti, dico che possono venire a visitare la mia famiglia alla
Pasqua Ebraica ogni anno, quando parliamo di come la liberazione degli ebrei
dall’Egitto non deve essere un simbolo ebraico ma internazionale: se dopo 2000
anni possiamo cercare liberazione e libertà, perché non possono farlo i
palestinesi? Quelli che confondono il sionismo con il giudaismo provocano un
grande danno. C’era un filosofo ebreo che già nel 1895 disse che se
avessimo continuato a trattare in quel modo il mondo arabo, avremmo ottenuto un
disastro. Per questo combinare il giudaismo e l’ebraicità con il sionismo è
assolutamente falso; così come è una calunnia dire che gli ebrei che si
oppongono a Israele non sono ebrei; così come dire che chiunque critica
Israele è un’antisemita è un oltraggioso tentativo di intimidire delle brave
persone non ebree che vogliono lottare per la verità>>.
Ritorniamo poi al punto della narrazione mediatica mainstream tesa
a giustificare qualunque crimine di Israele e a dipingere chiunque vi si
opponga come terrorista: <<se guardiamo i media occidentali e
americani, quando chi protesta a Hong Kong lancia delle pietre alla polizia vengono
considerati degli eroi, così come quelli che nel Myanmar usano delle fionde
contro l’esercito oppressivo, ma quando i bambini palestinesi lanciano delle
pietre ai soldati israeliani questi vengono chiamati “terroristi”. Israele la
fa franca con molto di più e con molte meno critiche sui media occidentali di
qualunque altro paese>>.
Un altro concetto molto potente e spiazzante espresso
nell’intervista riguarda non solo quello che si sa, ma quello che non si
vuole sapere, quelle domande che non ci poniamo anche perché siamo
bombardati da fatti frivoli che diventano “notizie” mentre la “terza guerra mondiale a pezzetti”
imperversa, o siamo sviati da narrazioni distorte: ad Albert Speer, ministro
del regime nazista, architetto personale di Hitler, e criminale di guerra, fu
posta una domanda topica: “cosa sapevi?”, cosa sapeva della “Soluzione
finale”, e cioè del piano di sterminio degli ebrei, dei romanì, dei
diversamente abili, dei gay (si parla di “Omocausto” oltre che di “Olocausti”
al plurale, a tal proposito) e delle svariate atrocità naziste.
Maté, leggendo l’autobiografia dell’architetto nazista, resta particolarmente impressionato dalla risposta e argomenta che anche per la questione palestinese dovremmo impegnarci a conoscere e a contrastare i disegni degli estremisti sionisti in maniera proattiva: <<Speer disse che “cosa sapevo?” non era la giusta domanda. La domanda corretta sarebbe stata “cosa potevo sapere se avessi voluto?!”. Aveva tantissimi indizi, come quando in una fabbrica di armamenti incontrò dei prigionieri di un campo di concentramento e chiese loro se avessero preferito stare lì o nel campo, notando subito dopo lo shock sulle loro facce. Non chiese mai il perché di quella espressione sul loro volto. Oppure quando disse a un generale tedesco di voler visitare la parte orientale del Terzo Reich si sentì rispondere che era meglio non vedere cosa succedeva lì. Non chiese mai il perché. La domanda quindi non era cosa sapeva, ma cosa avrebbe potuto sapere se lo avesse voluto>>, e quindi ognuno di noi, non vivendo sotto la censura di un regime come quello nazista, potrebbe cercare gli scritti o i video di storici israeliani che da tempo denunciano il regime sionista, come Norman Frichneshtain, anche lui figlio di ebrei scampati all’Olocausto, ma anche degli ex soldati israeliani che si sono pentiti delle brutalità commesse da Israele tramite le loro azioni militari: <<si può accedere a tutta l’informazione che si vuole, per questo se qualcuno oggigiorno “non conosce”, non è perché le informazioni non sono a disposizione... Non è cosa conosci, ma cosa potresti conoscere>> ciò che davvero conta! Il nostro disinteresse può tramutarsi in una indifferente colpevolezza, se non addirittura in una complicità più o meno indiretta, come nel caso dell’architetto di Hitler...
Quando l’intervista si avvia alla conclusione Maté unisce le
legittime istanze degli ebrei che avevano vissuto la Shoah usate strumentalmente
a danno di un altro popolo, sintetizzando efficacemente e con una semplicità
disarmante la questione palestinese:
<<posso comprendere che dopo gli orrori del genocidio
nazista abbiamo disperatamente voglia di protezione, ma niente di ciò può
essere usato come una giustificazione per quello che stiamo facendo,
oppure come una scusa per non conoscere la verità, insieme al deliberato
tentativo di mettere a tacere chiunque provi a parlare, che sia ebreo o
meno: non ci sono due visioni, anche se è comunque una questione
complicata, dato che in termini di potere e controllo è abbastanza semplice... C’era una terra con delle
persone, e altre persone la volevano, se la sono presa e continuano a
prendersela,
continuano a discriminare, opprimere ed espropriare: questo è quanto. Spero
che i non ebrei fronteggino il colonialismo senza aver paura di essere tacciati
di antisemitismo. Non è questione di essere
“pro-palestinesi”, non sono pro-palestinese, sono “pro-verità”, e penso che
si verificherà un disastro per gli israeliani sul lungo termine perché questo
stato di cose non può essere sostenuto. Penso che ci sono un sacco di brave
persone in Israele che la pensano esattamente come me. Quindi non è
questione di essere pro-palestinesi, ma di essere in favore di giustizia,
libertà e verità>>.
ISRAELE HA VISSUTO PER POCHI GIORNI QUELLO CHE I PALESTINESI VIVONO DA DECENNI DI ROUTINE
In un video più recente, pubblicato sul suo canale, osserviamo che nonostante sia estremamente provato da quanto successo, le sue posizioni non sono cambiate dopo l’evento del 7 Ottobre, dopo l’attacco a dei <<non combattenti>> che porta alla mente delle reminiscenze degli assalti che hanno vissuto le comunità ebraiche nella storia: per questo, argomenta l’esperto in psicologia, anche un sentimento come la vendetta è <<completamente comprensibile, da un punto di vista emotivo. Cosa è difficile ricordare in tempi come questi è che c’è un’altra parte, che ci sono altre persone che hanno le loro esperienze, basate sulla loro storia>>, e questa storia la sintetizza citando le parole della giornalista israeliana Amira Hass in un articolo pubblicato sul quotidiano israeliano e progressista Haaretz:<<in pochi giorni gli Israeliani hanno sperimentato quello che passano i palestinesi da decenni e di routine -e che stanno ancora passando- incursioni militari, morte, crudeltà, bambini ammazzati, corpi ammucchiati per le strade, assedio, paura, ansia per i propri cari, prigionia, essere gli obiettivi di vendette>>.
Le
violenze commesse da Hamas vengono decontestualizzate sui canali mediali
mainstream, mentre ossessivamente si chiede a chi si batte per i diritti del
popolo palestinese di prendere le distanze dal gruppo di combattenti
nazionalisti-islamici: <<La storia non è iniziata il 7 ottobre>>
ricorda ovviamente Maté, e <<se vogliamo voltare pagina e avviare
in qualche maniera un processo di pace, dobbiamo essere in grado di capire le
esperienze degli altri>>. Non si può dimenticare che <<decine
di migliaia di palestinesi, migliaia di bambini, sono stati uccisi negli ultimi
80 anni, che dal ‘47-’48 sono stati espulsi dalla loro terra, che è stata
occupata. Pregando per la sicurezza dei circa 220 ostaggi, bisogna ricordare
che ci sono migliaia di ostaggi nelle prigioni israeliane, torturati in maniera
professionale (...) che cosa ha nutrito un odio così
grande, un desiderio di vendetta cos grande>>, quello che succede
a Gaza, una striscia di terra che si può definire <<il più
grande campo di concentramento al mondo (...) in cui sono stati
massacrati e oppressi ripetutamente>>. Non si può scollegare
un evento dalla storia e dal contesto, e chi lo fa riesce a nascondere sia i
problemi che le soluzioni... E
anche questa volta facciamo notare che se a usare l’espressione “campo di
concentramento” fosse stato un non ebreo, possiamo facilmente immaginare che
gli sarebbe stato addebitato di essere insensibile nei riguardi dell’orribile
trattamento dei nazisti riservato agli ebrei. Questa volta però lo ha detto un
sopravvissuto all’Olocausto: avrà questo diritto senza essere bollato come
antisemita?!
Nel
video, dove viene intervistato da sua figlia, ritorna anche sulla definizione
di anti-semitismo e sulle declinazioni di vari tipi di razzismo: <<ci
sono persone che odiano gli ebrei non per qualcosa che hanno o che non hanno
fatto, ma solo perché ebrei, così come alcune persone odiano i neri o i
musulmani. Queste persone prenderanno un’azione fatta da ebrei, neri o
musulmani, e la useranno per infiammare l’odio che alberga già dentro loro
stessi>>. L’odio verso gli ebrei è culminato nel più <<orribile
evento della storia, e cioè il meccanizzato e scientificamente pianificato
tentativo di eliminare un intero popolo, e di cui i miei nonni furono vittime,
e di cui io stesso da bambino sono quasi stato una vittima>>. Per questo
qualunque critica a Israele alimenta quel genere di sentimento negli
anti-semiti, <<ma questo fenomeno non mi pare che sia quello
maggioritario. La maggiorparte delle persone che critica Israele lo fa con
dolore, loro in realtà vogliono giustizia per tutti (...) ciò che Israele
compie è stato definito da circa 2mila israeliani, ricercatori, rabbini e
storici come “apartheid”. Il precedente vice-capo delle forze di difesa
israeliane ha definito ciò che Israele compie come simile alla situazione degli
ebrei nella Germania nazista: questo è un soldato israeliano, non un antisemita.
Ha detto che come i teppisti nazisti riuscivano ad attaccare gli ebrei
impunemente, e con il supporto della polizia, così i coloni nei territori
occupati attaccano, ammazzano, distruggono le proprietà palestinesi, ammazzano
i bambini, e quando si ribellano l’esercito arriva a sostenere i coloni>>.
Scatta quindi un meccanismo per il quale <<se sei un sostenitore
del sionismo e identifichi l’ebraicità con il sionismo in Israele, allora chi critica
Israele per te sarà naturalmente antisemita o un ebreo che odia sé stesso, ma
in realtà questa percezione è frutto della credenza che l’essere ebreo si
identifichi con Israele>>.
Dopo
aver specificato più volte che l’atto di Hamas non è giustificabile, così come
non sono giustificabili i crimini di guerra compiuti da Israele a partire dal 7
Ottobre, ci tiene a <<ricordare, quando valutiamo la portata delle sofferenze, imposte da
una parte sull’altra, che c’è a malapena paragone>>.
SCARDINARE MEDIATICAMENTE L’ANTI-SIONISMO: NON VUOL DIRE ANTI-EBRAISMO
La disarmante semplicità con cui Maté riassume più di sette decenni di esproprio delle terre di Palestina la ritroviamo anche nelle sofferenti invettive del noto artista e attivista ebreo-italiano. Moni Ovadia, in un dibattito a “La Bolla” sul canale “Ottolina TV”, trasmesso il giorno dopo l’inizio dell’operazione “alluvione Al-Aqsa”, parte descrivendo le ipocrisie più evidenti delle democrazie liberali-liberiste “occidentali”:
<<C’è una cosa molto semplice e sempre sottaciuta: le cosiddette democrazie occidentali dicono sempre di stare con Israele rivendicando il diritto a difendersi... Ma i palestinesi che diritto hanno?! A subire persecuzioni, colonizzazione, vessazioni, distruzione delle abitazioni, espropriazioni di ulivi ecc. Questo è il diritto dei palestinesi?! Se avete notato, nelle comunicazioni di politici come Blinken, Macron e Biden, nessuno dice almeno un “però”>> riguardo alla condizione in cui versano i palestinesi. <<Sono convinto che questa situazione sia stata creata dai governi israeliani, in particolare quest’ultimo che è un coacervo di reazionari incapaci: è ovvio che se crei situazioni incendiarie poi scoppia l’incendio. Gaza è come una scatola di sardine sigillata, nessuno può entrare o uscire senza l’autorizzazione israeliana che controlla gli spazi aerei, marittimi e sotterranei. L’energia e l’acqua sono forniti da Israele, e l’ONU ha definito Gaza “inabitabile”. Invece quelli della Cisgiordania vivono in un prigione a cielo aperto>>.
Con questa acuta descrizione l’intellettuale disegna una
situazione ancora più grave per la “striscia” che si affaccia sul Mediterraneo:
di solito questa viene descritta come la più grande prigione a cielo aperto
del Mondo mentre per Ovadia è una, per così dire, prigione estremamente
sovrappopolata, al punto di poter essere definita come una “scatola di
sardine” invivibile. La situazione dei palestinesi in Cisgiordania non
è migliore: rinchiusi tra vari muri e checkpoint fissi o “volanti”, sono sottoposti
<<a ogni forma di vessazione, ad arresti amministrativi, apartheid,
stillicidio di provocazioni ininterrotte verso bambini, donne e
adulti. Io credo, come ho sempre espresso, che un popolo oppresso ha diritto
a ribellarsi, come sancito dalle convenzioni internazionali, con i mezzi
che ritengono appropriati... Certo, la morte di cittadini israeliani e il
loro sequestro provoca ovviamente sofferenza e dolore, ma è il risultato
dell’arroganza e delle politiche dei governi israeliani, che hanno lasciato
marcire questa situazione, con la complicità della comunità internazionale.
Tutti dicono che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ma davvero? Una democrazia non colonizza terre non sue, non arresta con leggi di carattere razzista esseri umani che in realtà non fanno niente di criminale, non li depreda delle risorse agricole, idriche e via dicendo>>, nell’immobilità effettiva della comunità internazionale che non si attiva per <<porre fine a questa situazione scellerata che per Gaza dura da 75 anni, e per la Cisgiordania sicuramente da 56 e forse di più: è così semplice da vedere, e non c’è uno di questi soloni che dice che Israele ha sbagliato, perché un governo che occupa è responsabile dei cittadini di quel territorio>>.
L’intellettuale che dirige anche il teatro di Ferrara (mentre i
reazionari italiani ne chiedevano le dimissioni per le sue coraggiose e
schiette prese di posizione), a due giorni di distanza dall’attacco dei
fondamentalisti islamici veniva intervistato da Alessandro di Battista sul
suo canale Youtube.
In quell’occasione ripeteva dei concetti chiave espressi nell’altra intervista.
Tra questi c’è l’immobilità, se non la complicità, della comunità
internazionale nei riguardi dello “Stato ebraico”, stato che a oggi
discrimina le minoranze non ebree non solo di fatto, ma anche di diritto, dopo
la svolta autoritaria avviata nel 2018 con
una delle cosiddette “leggi fondamentali”, quella dello “stato-nazione del
popolo ebraico” in cui si sancisce che, formalmente, i diritti individuali di tutti i cittadini
sono uguali, ma non lo sono quelli dei gruppi etnici non ebrei, all’incirca un
quinto della popolazione:
L’attivista ebreo passa a parlare dello stato di assedio, e cioè dell’embargo condannato dalle Nazioni Unite, attuato dal 2007 insieme all’Egitto nel territorio abitato dai gazawi e della “favola” del ritiro degli israeliani da quella parte di territorio: <<alle medie, mentre studiavo l’Iliade, mi hanno insegnato che l’assedio è un atto di guerra. I governi israeliani raccontano una favola quando dicono di essersi ritirati da Gaza, ma dopo aver ritirato quei pochi coloni cos’hanno fatto? Hanno sigillato i confini>> creando una <<trappola per topi. Come si fa a stupirsi della violenza quando ci sono persone che non hanno un minimo di speranza. I palestinesi devono vivere come dei topi, come degli schiavi, devono vivere nelle situazioni più atroci, e questa la chiamano “civiltà occidentale” (...) se smetti di pensare criticamente vuol dire che sei complice della distruzione di questo Mondo (...) io ho dedicato la mia vita a una cultura di minoranza, la cultura ebraica del centro-est europeo, e io dalla vicenda degli ebrei ho imparato una cosa principale: si sta con gli oppressi e mai con gli oppressori>>.
Lo scorso 12 Giugno, quattro mesi prima dell’inizio degli ultimi
scontri, eravamo andati a un convegno intitolato “La Palestina oggi e le
prospettive future”, inserito all’interno della otto-giorni di eventi “Masarat
Al-Funun, percorsi artistici”, organizzata dalla Comunità Palestinese della Campania e che si è tenuta presso lo spazio liberato de “L’Asilo”.
Già in quell’incontro Moni Ovadia parlava delle narrazioni mediali e del “pensiero unico” pro-occupazione israeliana, nonché del corto-circuito psicologico e mediatico che confonde l’antisionismo con l’antisemitismo:
<<ogni volta che ascolto notizie sulla Palestina sono
sempre più sgomento... noi che cerchiamo di mobilitare un’attenzione e una
coscienza nei confronti del popolo palestinese siamo pochissimi: molti sono
disposti a parlare di altre battaglie, come per esempio quelli che partecipano
alle assemblee dei “No Tav” e così via, ma non appena si parla di Palestina
si vede l’imbarazzo, perché c’è una specie di cortocircuito “finto-psicologico”
per cui Israele sarebbe (mi riferisco al Governo di Israele) in una
posizione di impunità, e questo è di una gravità senza precedenti nella
storia. Nessuno può essere impunito, nessuno, neanche se ha avuto
precedenti tragici… Vedo tante persone di livello, anche intellettuali e
filosofi, ma quando si parla di
Palestina sono pochissimi disposti a metterci la faccia e il nome, e continuo a
riflettere e cerco di capire come si può scardinare questa cosa.
C’è una situazione molto strana: tutte le volte che cerco di
smascherare questo occidente, che oramai è marcio e fradicio con la
sua finta democrazia, con un mainstream veramente ripugnante e schifoso,
quando parlo di Palestina in un teatro tutte le persone applaudono, perché
sentono questa tematica. Però, non appena ci si sposta verso un “livello” che
chiede la partecipazione per fare delle mobilitazioni (ripeto ad artisti e
intellettuali) allora si vede che il numero si riduce. C’è un enorme equivoco su questa questione:
per qualche ragione, essendo il governo
israeliano composto di ebrei>> quando si attaccano le politiche sioniste dei
nazionalisti israeliani, si viene
tacciati di essere antisemiti, confondendo
le denunce contro le occupazioni illegali attuate negli ultimi decenni dallo
stato israeliano con una generica avversione verso gli ebrei. Alla platea
rivolge <<una piccola raccomandazione: fottetevene se vi danno
dell’antisemita, ridetegli in faccia a questi mascalzoni. È una
vigliaccheria usare la cenere di morti indifesi nell’indifferenza generale per
opprimere un popolo, io non riesco a pensare a niente di più schifoso! Io
continuo a dire che non me frega e non ho assolutamente paura di nulla e mi
viene da dire “ebrei a che titolo”?! E qualche volta, un po’ come una
boutade e un po’ seriamente, ho detto a qualche amico ebreo in Israele: “Ma
perché siete ancora ebrei voi israeliani?! A che titolo?!". Come
fanno a ergersi a paladini di un governo fascista, segregazionista,
colonialista e persecutorio, un governo che ce le ha tutte! Qualcuno poi
comincia a dire: “ah sì, sono i discendenti delle vittime della Shoah”, ma
quelli sterminati erano ebrei senza terra, non c’è stato un genocidio di
israeliani, c’è stato un genocidio di ebrei della diaspora, proprio perché
erano senza nazione! Quindi questo assumerne l’eredità è un’operazione
falsa, strumentale e disgustosa! Non si può legittimare una politica
terrificante contro delle persone indifese, contro un popolo per di più solo.
Io credo che questo sia oggi, e dal dopoguerra, il più grande scandalo a cui
stiamo assistendo, legittimato dalla comunità internazionale: non è vero
che esiste la legalità internazionale. Le risoluzioni dell’ONU quando sono riferite alla situazione del popolo palestinese scompaiono:
la 194, il diritto dei profughi al ritorno nelle terre da cui sono stati
cacciati da guerre; e poi le famose 242 e 338: sono stracci di carta. Però
i governanti israeliani sono i primi a strillare se secondo loro si violano le
risoluzioni dell’Onu. Ma come? Le violano tutti i giorni, tutte le ore,
tutti i minuti. E poi sulla base della violazione delle risoluzioni dell’ONU sono
stati assassinati 500 mila iracheni, altrettanti afghani, non parliamo della
Libia... adesso dicono “c’è un invasore e c’è un invaso” (riferendosi al
conflitto in Ucraina ndr) <<ma io ogni volta che mi lasciano dire tre
parole in televisione dico: “e i palestinesi?!”. Poi si sente l’imbarazzo per
un paio di secondi e poi ritornano a parlare come prima, come se niente fosse,
nessuno risponde...>>
<<Ho paura che, vi spiego la mia angoscia, che finché la posizione internazionale degli Stati Uniti non verrà ridimensionata da una prospettiva multipolare, loro eserciteranno la loro nefasta influenza per impedire che i governi israeliani vengano giudicati per i loro crimini contro l’umanità, per i loro crimini di guerra, per i loro “crimini di pace”>>. Tra l’altro critica anche il partito democratico USA, che insieme ai vari governi italiani, <<sulla Palestina non è meglio di quello Repubblicano (…) Credo che siamo di fronte a qualcosa che mostra che ogni logica del diritto è stata violata. Fanno le leggi apposta per violare i principi più elementari del rispetto dei diritti dei popoli e degli esseri umani. Hanno fatto una legge terrificante che è la legge dello stato-nazione, e quei pochi giornalisti israeliani coraggiosi come Gideon Levy hanno scritto su un giornale israeliano, pubblicato da un editore israeliano: “e adesso anche Israele ha le sue leggi di Norimberga”(e cioè le leggi per la “protezione” del sangue e dell’onore tedesco varate nella Germania nazista nel ‘35 ndr). Allora che differenza c’è con il Sud Africa, con quell’apartheid?>>. A questo proposito vi invitiamo a leggere un altro articolo, pubblicato su queste pagine lo scorso Giugno in cui abbiamo analizzato l’uso della parola apartheid associato alla questione palestinese, utilizzo del termine che si trova in alcune relazioni delle Nazioni Unite e nelle denunce di diverse ONG indipendenti, e che rappresenta la caduta, perlomeno parziale, di un altro “tabù mediatico”: non è più eccessivo paragonare le politiche segregazioniste sud-africane a quelle dello stato ebraico. Tuttavia c’è una differenza, individuata dal noto artista, e consiste nel fatto che <<la violazione è commessa da governi a cui la sedicente comunità internazionale (che poi è la parte occidentale) ha attribuito l’impunità a priori. Io ho invitato BDS (un movimento internazionale che attua strategie di lotta non violenta contro Israele, tramite “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni”) e gli ho detto, se volete, fatemi presidente pro-tempore, così affronto io l’accusa di antisemitismo, voglio vedere... Noi dobbiamo capire come dobbiamo rompere questa omertà che non ha precedenti! Io da anni mi sto impegnando ma purtroppo non ho la forza...>>.
A questo punto suggerisce di organizzare un <<grandissimo
concerto>> come fu fatto per denunciare e contrastare l’apartheid in
Sud-Africa, coinvolgendo star di livello internazionale come Roger Waters
(anche lui più volte accusato di antisemitismo, non possiamo dire se a torto o a ragione ma, viste le fondamenta fragili di molte di queste accuse, siamo propensi a dargli quantomeno il beneficio del dubbio): <<bisogna
rompere con un evento che chiami in causa, bisogna provocare affinché strillino
all’antisemitismo per rispondere a muso duro. Io considero oggi l’accusa che
mi fanno, di essere un ebreo antisemita, una medaglia all’onore! Com’è
possibile chiudere gli occhi di fronte a tanto schifo?
Siamo veramente molto pochi a criticare senza paura le posizioni
della oramai linea criminale della politica israeliana. L’opposizione
parlamentare è inesistente, sono pochissime le voci in Israele che si
contrappongono in maniera autentica. Bisogna che ci sia una protezione
internazionale del popolo palestinese. Noi dobbiamo ingegnarci tutti quanti
di dare vita a un evento che scardini questa omertà ripugnante (...) Ci vuole
un elemento di rottura molto forte: non so se riusciamo a unire le forze per
organizzare un evento di fronte al quale la comunità internazionale non possa
tacere. Tutti gli eventi che abbiamo fatto, e io ne ho partecipato a decine,
non bastano: ci vuole qualcosa che abbia un effetto mediatico molto, molto
potente, e che risvegli le coscienze di tanti che magari sono pronti ad
essere risvegliati, ma che non vengono raggiunti perché la censura mediatica
sulla situazione del popolo palestinese è di una perversione senza limiti.
Io mi rendo disponibile, non cambierò di una virgola il mio atteggiamento: né
le minacce né l’isolamento mi interessano, continuando con le mie forze che purtroppo
sono piccole, soprattutto in un paese con un tasso di vigliaccheria che non ha
riscontro nel resto dell’occidente (mi dispiace doverlo dire perché l’Italia è
il mio paese). È pura vigliaccheria non riuscire a vedere le sofferenze di
bambini, di donne, di uomini, di vecchi, di un intero popolo continuamente
vessato>>.
LE ORIGINI DEL SIONISMO: I PALESTINESI PAGANO LA “BANCAROTTA FRAUDOLENTA” DELL’OCCIDENTE
Rispondendo
alla domanda di un’astante, sul ruolo degli ebrei che combattono il fanatismo
messianico sionista, l’intellettuale ripercorre la storia della nascita di
Israele, con annesse colpe “occidentali”, fino ad arrivare a parlare della
cosiddetta “Lobby Sionista-Cristiana”:
<<Ci
sono una rete di Ebrei Contro l’Occupazione con
cui abbiamo fatto diverse cose, ma non sono sufficienti>>, non si riesce a ricevere
abbastanza attenzione a livello mediatico. Gli ebrei che sposano la causa
palestinese <<sono pochi e non sono in posizioni di potere. Ce ne sono
negli Stati Uniti, in Francia, e anche in Italia che però sono quattro gatti,
anche perché gli ebrei in Italia sono circa 30 mila>> e tra queste
stima che solo tra le 200 e le 400 persone sono particolarmente attive per la
causa palestinese. <<Ci sono anche delle associazioni che criticano,
ma non hanno strappato una sorta di falso cordone ombelicale>> che
collega la nascita di Israele al dramma della Shoah, e che non hanno
<<il coraggio di dire: “il governo israeliano è guidato da criminali
fascisti”, perché questo è! Qualcuno in Israele lo dice, ma fuori ci sono
ancora delle prudenze. Conosco anche delle persone autorevoli che hanno fatto
critiche, ma si fermano sempre a un certo punto, si fermano a un “sì, però”.
Non c’è nessun “sì, però”, questa è la conseguenza di quello che il sionismo è
dall’origine. Alle origini del sionismo c’è uno slogan che manifesta la sua
tara colonialista. Non è un movimento colonialista classico, ma trae
legittimazione del colonialismo, perché l’establishment israeliano sionista si
ripara dietro la famosa dichiarazione Balfour, una lettera scritta da un ministro del paese più colonialista del tempo,
l’Inghilterra, per dire che l’Inghilterra era favorevole allo stabilirsi di una
“National Home”, e cioè di un focolare nazionale ebraico in quella terra, nella
Palestina mandataria (...) perché avevano interessi anche con i governi arabi,
non con i palestinesi. Lo slogan sionista che nasce dietro questa dichiarazione
è: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, e cioè il
sionismo non ha mai visto i palestinesi, mai! (...) Se poi declini il nazionalismo
con un delirio religioso (cioè questa terra ce l’ha data Dio) qualsiasi altra
gente o popolo avesse fatto questo, sarebbe scoppiato uno scandalo in
occidente. Ma di fronte a questo obbrobrio, cioè la legittimazione
religiosa di un nazionalismo (e già i nazionalismi fanno totalmente schifo,
siamo di fronte alla follia) (...) il vero problema è che, secondo la mia
opinione, l’occidente fa bancarotta fraudolenta della questione dello
sterminio degli ebrei, facendo pagare a qualcun altro il prezzo: questo è
stato il gioco portato a dei livelli così ripugnanti>> con delle
tattiche che riflettono un altissimo <<livello di perversione>>
comunicativa, come <<quando Netanyahu dice che è stato il gran Mufti a
convincere Hitler di voler uccidere gli ebrei. Il problema è che
l’occidente sa che ha fatto bancarotta fraudolenta e deve venirne fuori con la
coscienza pulita, e allora noi in cambio diamo una terra a “quei tre” che ci
vogliono andare e siamo pari... ma siamo pari un corno perché il prezzo lo
hanno pagato i palestinesi, con la Nakba prima e poi è andando
avanti... Quando c’è stato un momento in cui, con gli accordi di Oslo si
poteva pensare almeno qualcosa di decedente>>, dato che con gli
accordi che portano il nome della capitale norvegese, siglati tra il ‘93 e il
‘95, si sarebbe potuto avviare un processo di pacificazione, anche se secondo
alcuni si trattava in realtà di una resa dell’Organizzazione
per la Liberazione della Palestina che, paradossalmente, ha incentivato e
legittimato l’espansione degli insediamenti israeliani. Il processo di pace,
sia che lo si voglia considerare come concreto o solo di facciata, subì un
arresto con una serie di attentati terroristici culminati nell’omicidio del
presidente laburista israeliano Yitzhak Rabin, da parte di Yigal Amir,
“battezzando” un processo politico ed elettorale che vedrà trionfare l’estrema
destra israeliana e porterà alla presidenza Netanyahu. Moni Ovadia ha
un’opinione molto chiara sull’estremista di destra che sparò a Rabin alla fine
di una manifestazione della pace a Tel Aviv: <<voi credete che sia
stato un ebreo fanatico ad uccidere Rabin?! Certo, lui aveva la mano armata, ma
dietro chi c’era? Noi in Italia lo sappiamo bene: i servizi segreti deviati. Lo
hanno fatto fuori, e subito dopo hanno architettato tutto in modo che Oslo
venisse dimenticata>>. Che l’idea di Ovadia sia “complottista” o meno, sta di fatto
che dopo la morte di Rabin ogni prospettiva di pace è stata pericolosamente
accantonata. Gli israeliani avrebbero dovuto ritirarsi dalla Cisgiordania ma
invece hanno continuato a inviare coloni...
DUE STATI E DUE POPOLI, UN UNICO STATO DEMOCRATICO O UN UNICO STATO SUPREMATISTA ETNO-CENTRICO?
Le negoziazioni avviate con gli accordi di Oslo avrebbero dovuto
condurre alla creazione di due entità statali. Le trattative avrebbero previsto
il ritiro di Israele dai territori definitivamente occupati dal ‘67, l’anno
della “guerra dei sei giorni”, occupazioni non riconosciute dalle risoluzioni
ONU. Quando si sente parlare della soluzione dei “due popoli due stati” ci si riferisce a questo: tale soluzione sembrerebbe più pratica e più facile
da realizzare. Tuttavia molte personalità della società civile e della politica
(incluso Ovadia, ma anche lo scomparso Vittorio Arrigoni per esempio) credono che si possa costruire una pace
duratura solo con la cosiddetta “soluzione di uno stato unico”, nota
anche come “soluzione bi-nazionale”, in cui tutti i gruppi etnici di
Israele, Gerusalemme, Striscia di Gaza e Cisgiordania convivano godendo di uguali
diritti: <<Quando oggi qualcuno mi parla di “due popoli due stati”,
lo trovo di un’ipocrisia senza limite. C’è una soluzione: lo stato binazionale,
punto. E ci sono degli ebrei ortodossi che sono ancora più radicali di
questo, ebrei di quelli che stanno tutto il giorno chini sul Talmud e sulla
Torah, che dicono che Israele è uno stato crudele sul piano umanitario e
blasfemo su quello della Torah. Qualsiasi ipotesi relativa alla soluzione dei
due stati, è stata distrutta dai governi che si sono succeduti dopo Rabin. Poi
si sente dire “noi dobbiamo avere la sicurezza” (lo sapete che hanno il piglio
della sicurezza), e per avere la sicurezza tu metti 700 mila coloni nelle terre
legittime dei palestinesi (anche secondo questo schifo di legalità
internazionale)?! È chiaro che si vuole altro>>. E questo “altro”
evocato da Ovadia, allo stato attuale delle cose, purtroppo si traduce nella “soluzione
di uno stato unico”,
che però è quello suprematista, etnocentrico e colonialista, dove
le varie minoranze etniche non godono gli stessi diritti della maggioranza
ebraica.
LA “LOBBY CRISTIANA-SIONISTA”
Gli ebrei antisionisti non sono sufficienti a fermare le politiche
di annessione e di apartheid anche perché, dalla parte dei fanatici messianici,
ci sono dei potentissimi alleati che leggono e usano la Bibbia in maniera
strumentale, e che per questo non si distinguono dalla loro controparte dei
musulmani estremisti (anche se le letture della “guerra santa” islamica affini
a quelle dei crociati cristiani vengono ampiamente pubblicizzate, mentre l’interpretazione
della “jihad” come guerra metaforica contro egoismo ed egocentrismo e,
secondariamente, come guerra attuata per autodifesa, non viene nemmeno
considerata sui principali media generalisti): <<Purtroppo gli ebrei
antisionisti non bastano. Ci vuole qualcosa che arrivi ai grandi
numeri. Vi dico una cosa: nel 2014 trecento ebrei statunitensi sopravvissuti
alla Shoah hanno comprato una pagina del New York Times.
C’era scritto che il governo israeliano stava commettendo un genocidio (immaginate sempre cosa succede quando, in
questi giorni, un non ebreo usa la parola “genocidio” associandola a Israele
ndr) nei confronti del popolo palestinese: è passato in
cavalleria perché la parte dell’ebraismo sionista è quella più potente,
più dotata di mezzi e per giunta sostenuta da una forza micidiale che non è
ebraica: sono gli evangelici degli Stati Uniti che hanno
fondi smisurati. Sono settanta milioni e per loro, siccome sono pazzi fanatici,
la loro teoria è che tutti gli ebrei devono tornare in Israele, che ci sarà una
guerra fra bene e male e tornerà Cristo. Credono anche che gli ebrei
che si convertiranno saranno salvi, mentre gli altri si fotteranno nelle fiamme
dell’inferno, e per questo sono ultra-filosionisti e antisemiti>>,
un paradosso di proporzioni “bibliche”. Il blocco di potere
mediatico ed economico principale, secondo Ovadia, non è dunque quello della
cosiddetta <<lobby ebraica, ma della lobby sionista che è
potentissima e collabora con i cristiani-sionisti... Mentre noi siamo
fragili>>, il che rende ancora più arduo sfondare <<questo
muro ipocrita di silenzio>>.
Oltre alla miriade di predicatori sparsi nel continente americano, tra le figure di maggiore spicco della galassia degli ultra-conservatori cristiani c’è sicuramente Mike Evans, che si descrive come <<un devoto leader Americano Cristiano e Sionista>>. Tra le fila di milioni di “amici”, ossia di seguaci, ci sono politici del calibro Bolsonaro, Mike Pompeo e Mike Pence (nato da genitori cattolici, dopo essere <<rinato evangelico>> ha riferito alla Knesset, il parlamento di Israele, di provare <<meraviglia nella terra promessa di Abramo. Siamo con Israele perché crediamo nel bene e nel male, nella libertà contro la tirannia>>). La rete di seguaci ha anche appoggiato Trump, che prima di salire alla Casa Bianca aveva promesso di far diventare la Gerusalemme “divisa” sede dell’ambasciata degli Stati Uniti, riconoscendola come capitale legittima del “regno divino-coloniale” (promessa mantenuta).
ROMPERE IL MURO DEL SILENZIO
Josh
Drill, ex
soldato israeliano di “Breaking the silence”, organizzazione di
veterani con lo scopo di <<aumentare la consapevolezza sulle tragiche
conseguenze di un’occupazione militare prolungata>> ha dichiarato il
5 Ottobre, due giorni prima dell’attacco di Hamas: <<le Nazioni
Unite hanno pubblicato un documento dove si spiega che più di mille palestinesi
sono fuggiti dalle loro case per le violenze coordinate dei coloni.
Questo tipo di violenza è ai massimi storici grazie all’estrema influenza
del governo. Da ex militare che ha prestato servizio nel cuore di Hebron,
in Cisgiordania, ho assistito a molti di questi attacchi dei coloni che non
sono diretti soltanto ai civili palestinesi, ma anche contro gli
attivisti israeliani che si battono per i diritti umani e contro di me e i miei
soldati. Diverse volte i coloni mi hanno chiamato “nazista”
per non averli lasciati entrare in territorio palestinese. Questi attacchi
provocano danni ingenti alle proprietà, causano severe infermità e perfinoala
morte di palestinesi. Quando ero un ufficiale ad Hebron mi chiedevo sempre “perché
qualcuno dovrebbe attaccare civili?”, specialmente quando queste azioni
contribuiscono ad alimentare sempre più spargimento di sangue?
Questi
incidenti non avvengono casualmente, ma sono una strategia coordinata dall’
“impresa” dei coloni radicali. I ministri Itamar Ben-Gvir e Smortich sono i
loro comandanti nel governo. Hanno un obiettivo chiaro: far avanzare
l’ideologia e le politiche dei suprematisti ebrei per scacciare i palestinesi
dalle loro terre e costruire nuovi insediamenti illegali. Questa versione
pericolosa e violenta dell’ebraismo è un giudaismo che né io né voi avete
imparato crescendo>>, diceva
rivolgendosi ai follower del suo profilo su “X-Twitter”: <<Solo pochi giorni fa uno dei leader dei coloni, Elisha Vered, ha
dichiarato che sputare sui cristiani è un’antica tradizione ebraica. Questa
violenta e razzista versione dell’ebraismo è esattamente la stessa promossa da
questo governo pericoloso, e non ci si può sorprendere se sotto il suo comando
questo genere di attacchi sono cresciuti di dieci volte, portando a maggiore
distruzione e morte. Se voi, come me, non ne potete più di questi attacchi,
dovete stare dalla nostra parte a protestare per mandare via questo governo
fascista>>.
Le sue
posizioni, espresse sempre sul suo account “X” (attuale nome ufficiale
di “Twitter”) sono radicalmente cambiate dopo l’attacco di Hamas,
ringraziando per esempio il presidente Biden per l’appoggio incondizionato alla
sua nazione. Probabilmente la sua posizione, un riflesso della recente ondata
di proteste contro le limitazioni al potere giudiziario, è molto meno
radicale di quanto possa sembrare a una prima lettura, e non ci sembra
mettere veramente in discussione l’essenza colonialista di quella che molti
definiscono una “vibrante democrazia”, ma soltanto l’ultima deriva ancora più
autoritaria e a destra della sua storia.
Settler violence in the West Bank is reaching unprecedented levels. This is not by chance. The radical settler enterprise has forced over 1000 Palestinians to flee their homes as part of a larger and deliberate effort to expand the illegal settlements. As a combat officer in… pic.twitter.com/LAM9TpyPHa
— Josh Drill (@drill_josh) October 5, 2023
Tuttavia le posizioni manifestate il giorno dopo l’attacco dall’organizzazione di cui fa parte, la citata “Breaking the silence”, risultano decisamente meno equivocabili: <<l’attacco di Hamas e gli eventi che si stanno succedendo da ieri non si possono descrivere a parole. Potremmo parlare delle loro azioni crudeli e criminali, oppure focalizzarci su come gli ebrei-suprematisti al governo ci hanno condotto fino a questo punto. Ma, come ex soldati israeliani, il nostro lavoro è parlare di quello che ci hanno mandato a fare>>, rompendo il silenzio, per l’appunto. <<Il nostro paese decise, decenni fa, che era disposto a rinunciare alla sicurezza dei suoi cittadini nei nostri villaggi e nelle nostre città, per mantenere il controllo su una popolazione di milioni di civili soggiogata, e tutto ciò per favorire un programma colonialista-messianico. L’idea di poter “gestire il conflitto” senza doverlo risolvere, ancora una volta, sta collassando davanti ai nostri occhi. Ha retto fino ad adesso perché solo pochi hanno osato metterla in discussione. Questi eventi dolorosissimi potrebbero portare un cambiamento. Devono portarlo. Per tutti noi dal fiume al mare>>, e cioè tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.
L’APARTHEID GIUDIZIARIO: DUE SISTEMI PARALLELI
Foto a destra di "Almog ezra" rilasciata con licenza "creative commons" |
Dopo
aver evidenziato la posizione di alcuni militari israeliani, fulcro di una
società radicalmente fondata su guerra e colonizzazione più che sulla
protezione, concludiamo con le parole di un attivista anarchico e
antisionista israeliano.
Si
chiama Jonathan Pollak ed ha animato “Anarchici contro il muro”,
gruppo noto anche come “Ebrei contro i ghetti”, una formazione di
libertari israeliani che si opponeva alla costruzione di barriere e alle
strategie di apartheid, oltre a lavorare per il noto giornale “Haaretz”.
Per la sua attività politica si è guadagnato le antipatie e le ire di
governanti e fanatici, subendo attentati, carcerazioni che hanno danneggiato
gravemente il suo stato di salute, e un’epilessia da trauma procuratagli da un
proiettile di gas lacrimogeno a una manifestazione.
In
un’intervista per il sito anti-autoritario “Crimethinc” (pubblicata l’8
di Ottobre e intitolata “Una super-potenza nucleare e un popolo espropriato”),
come premessa chiarisce l’accezione di alcuni termini che usa in quel contesto
e che ricorrono quando ci si occupa della questione palestinese:
definisce
Israele <<un progetto di insediamento colonialista>> e il sionismo
come <<un movimento coloniale finalizzato alla supremazia ebraica>>,
oltre ad affermare che <<sarebbe negligente ignorare la lunga storia
della pulizia etnica di Israele, a partire da quelle attuata nel 1948
nota come Nakba>>. Anche Pollak, come Maté e altri storici israeliani, non ha remore a
definire i processi di conquista israeliani come una “pulizia etnica”
(cogliamo l’occasione per segnalarvi nuovamente questo post in cui analizziamo la definizione affine a quest’ultima, e cioè quella di “sostituzione
etnica”, tra l’altro usata dai tempi del nazismo fino ai contemporanei
governanti italiani per evocare dei fantomatici complotti che sarebbero guidati
da facoltosi ebrei, definizione confusa, anche grazie a delle traduzioni
errate, con quella di “ricambio migratorio” usato in documento
dell’ONU).
Nel primo giorno dell’attacco di Hamas, quando ha rilasciato l’intervista, spiegava che <<nel “mainstream” della società e dei media israeliani si è aperta una discussione sul compiere un genocidio a Gaza. Se questo non verrà prevenuto potrebbe infatti realizzarsi>>. Sempre nel preambolo dell’intervista continua a contestualizzare il ciclo ininterrotto di violenza collegandolo alla storia della lotta armata nel contesto dell’apartheid sudafricano: <<se chiediamo a palestinesi di non cedere alla violenza, non dobbiamo dimenticare la realtà che affrontano. Quando i palestinesi protestarono davanti alla barriera che li imprigiona a Gaza, nel 2017-2018, furono sparati e uccisi a centinaia. Le immagini che circolano adesso>>, ribadiamo che erano le prime ore dell’attacco di Hamas, <<sono raccapriccianti e scioccanti: non intendo minimizzarle, giustificarle o perdonarle, ma nel corso delle lotte, la via per la liberazione si apre quasi sempre verso delle svolte grottesche. L’African National Congress>>, il partito in cui Mandela ha militato prima di essere eletto , <<viene spesso celebrato come punto di riferimento, in maniera errata, da chi vuole argomentare che la violenza non ha nessun ruolo nelle lotte politiche. Ma dopo la creazione della sua ala militare, l’MK>>, noto anche come “Lancia della Nazione”, <<l’ANC non ha mai rinunciato alla violenza. Nelson Mandela rifiutò ciò anche dopo decenni di prigionia>>, e dopo l’offerta di essere scarcerato se lo avesse fatto. <<Il contesto di lotta qui è tra una superpotenza militare e nucleare e un popolo diseredato. Il colonialismo non cede e non farà un passo indietro di sua iniziativa, nemmeno se lo chiedi gentilmente. Il de-colonialismo è una causa nobile, ma nel percorso che porta a raggiungerlo è spesso brutto e macchiato di violenza. Nell’assenza di ogni realistica alternativa per ottenere la libertà le persone sono forzate a compiere azioni ingiustificabili. È una realtà fondamentale della disparità di forze. Chiedere agli oppressi di agire sempre nella maniera più pura è come chiedere loro di restare per sempre schiavi>>. Inoltre non è di secondaria importanza ricordare, a tal proposito, che anche Mandela era considerato dagli Stati Uniti come un terrorista.
L’ultimo
calvario giudiziario che Pollak sta affrontando scaturisce da un presunto lancio di
pietre contro una jeep militare in Beita, nella Cisgiordania,
città <<che ha una lunga tradizione di resistenza al colonialismo
israeliano. Era un centro di resistenza durante la Prima Intifada
(1987-1993). Agli inizi del 1988, circa venti uomini da Beita e
dai villaggi vicini furono identificati dallo Shin Bet, l’infame polizia segreta,
e raggruppati dall’esercito. Vennero ammanettati ed ebbero le ossa spaccate
dai soldati, usando pietre e bastoni. I soldati eseguirono un ordine diretto
dell’allora Ministro della Difesa Yitzhak Rabin, che pubblicamente annunciò
la politica di “spezzare loro armi e gambe”>>. Sempre quell’anno
nello stesso villaggio la violenza di un colono fanatico condurrà alla morte
alcuni palestinesi e anche una giovane adolescente israeliana, uccisa per
errore, e per la cui morte fu diffusa la fake-news che ad ammazzarla erano
stati dei palestinesi con delle pietre.
L’ondata
di repressione sull’area è continuata per decenni, fino a una mattina di
Gennaio, giorno dell’arresto di Pollack con l’accusa di assalto
aggravato (il presunto lancio di pietre), resistenza e rissa. Dopo tre
settimane di arresto preventivo viene rilasciato ai domiciliari per il suo
stato di salute. Pollack, avendo passaporto israeliano, dovrebbe essere
processato da un tribunale civile, e invece ha optato per essere processato da
un tribunale militare: <<un meccanismo unico dell’apartheid israeliano,
che non esisteva nemmeno in quello del Sud-Africa, consiste nella coesistenza
di due sistemi legali paralleli: uno per i palestinesi e uno per i coloni
ebrei. Quando si è accusati degli stessi reati, anche se avvenuti nello stesso posto, allo stesso momento, e
nelle medesime circostanze, si verrà processati secondo il sistema penale israeliano,
mentre i miei compagni palestinesi si troveranno a fronteggiare il sistema
penale militare israeliano, che riflette la realtà di una dittatura militare a
tutti gli effetti. (...) Si sente spesso dire che il sistema è cattivo, ma non
razzista, dato che la distinzione avviene sulla base della cittadinanza.
Quest’affermazione è falsa. C’è una minoranza di palestinesi, il 20% di quelli
che vivono nelle aree occupate da Israele nel 1948 e che hanno la cittadinanza
israeliana (a differenza dei palestinesi nella Cisgiordania e di Gaza, che
vivono sotto il suo controllo come cittadini senza cittadinanza): un fatto poco
conosciuto sulle corti militari è che pure i palestinesi che hanno cittadinanza
israeliana a volte vengono processati da corti militari della Cisgiordania. Il
nocciolo della questione è semplice: sono stato incriminato da una corte di
civili perché lo stato mi considera ebreo, ma se fossi stato un palestinese con
la cittadinanza israeliana, probabilmente sarei stato processato da militari. Il sistema è basato su fondamenti etnici e
religiosi. Le stesse leggi sono diverse, in fatti la legge militare è un
insieme di decreti diramati dal comandante militare dell’area. Uno di questi,
per esempio, vieta ogni assemblea di 10 o più persone che abbia natura
politica, anche in una proprietà privata, con una pena che arriva a 10 anni>>.
Pollak,
che rischia un massimo di 10 anni (sarebbero stati 5 se giudicato dalla corte
di civili), oltre a dichiararsi innocente e vittima di accuse inventate, non
riconosce la legittimità del tribunale che lo giudica in quanto espressione
diretta di un sistema etnocentrico.
Da
anarchico convinto ha scelto di pagare un prezzo, <<non paragonabile>>
a quello dei suoi compagni palestinesi, ha scelto di rinunciare ai suoi
“privilegi” per dedicarsi a una causa più nobile, quella di un popolo oppresso,
e crede che ovviamente le istanze di questo vanno appoggiate ma non dirette vestendo
i panni dei <<salvatori bianchi>>.
GLI
EBREI E IL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE PALESTINESE, GLI “OCCIDENTALI” E LA
DECOLONIZZAZIONE CULTURALE
In
un’altra intervista, rilasciata a Febbraio a “+972 Magazine” (realizzata da Oren Ziv e intitolata “La trama per mettere dietro le sbarre
un israeliano anti-sionista”), parlava ancora della lotta contro
l’apartheid in Sud-Africa e del ruolo che gli ebrei dovrebbero avere in quella
palestinese: <<quando i bianchi sud-africani si opposero
all’apartheid, da minoranza si unirono all’ANC -e alcuni impugnarono
pure le armi- nella lotta per rovesciare il regime e il colonialismo. La stessa
cosa avviene in Palestina: per unirci alla lotta davvero e per rovesciare
l’apartheid, i pochi ebrei coloni che sono interessati in ciò dovranno uscire
allo scoperto contro il regime coloniale, e non solo contro questo o quel
sintomo di esso. Dobbiamo cercare una via all’interno del movimento di
liberazione palestinese, sapendo che gli ebrei devono essere una minoranza al
suo interno, e che solo così, tramite un capovolgimento degli equilibri
di potere, possiamo lavorare per una vera eguaglianza e per la
liberazione>>.
In
sostanza, la lezione che credo di aver imparato e “fatto mia” dall’esempio e
dalle parole di Pollak, consiste nel fatto che noi “privilegiati” e
“occidentali” dobbiamo diventare i migliori alleati di tutti gli oppressi del
pianeta cominciando dal denunciare e a contrastare le diverse forme di
colonialismo che esportiamo da secoli. Dobbiamo lottare insieme, senza guidare
nessuno ma assecondando le istanze dei popoli oppressi, e pareggiando così gli
squilibri di potere che derivano dai nostri “privilegi”, imparando insieme e
sperimentando processi auto-gestionari e orizzontali, non gerarchici. Dobbiamo
rinunciare a quei “privilegi” che non sono strettamente necessari a una
sopravvivenza decente, a partire dal nostro tempo, ridistribuendoli e
continuando a lottare insieme a tutte le genti oppresse, a mettere in crisi le
dinamiche socio-economiche alla base dei vari tipi di sfruttamento, creando e
ingaggiando vari tipi di “conflitto” (che fortunatamente non è sempre e
necessariamente un conflitto “armato” o violento, che dovrebbe essere solo
un’ultima e inevitabile risorsa), non accontentandoci mai di quello che si
ottiene perché <<l’imperfezione è una costante, ma noi continuiamo
a lottare, trasformando ogni vittoria in sconfitta e poi ancora in lotta, ogni
volta>>, tendendo perennemente verso “l’utopia” e costruendo concretamente un esistenza
degna di essere vissuta per tutt*.
Paolo
Maria Addabbo aka Anarcopacifista
Vi ringraziamo per lo sforzo che avete fatto ad arrivare fin qui: non è secondario nell'epoca dei contenuti mediatici e giornalistici da consumare in fretta e voracemente, come se fossero "cibi spazzatura" sfornati in serie dal "fast-food" delle notizie. Anche l'impegno "artigianale" richiesto per scrivere approfondimenti e articoli in stile "slow journalism" richiede molte energie, oltre alla vostra preziosissima attenzione: per questo vi invitiamo a seguire i vari canali "alternativi" come il nostro e come quelli citati e linkati nell'articolo, a dedicare più tempo a essi che ai classici media mainstream, e vi chiediamo di supportarci chiedendoci delucidazioni su quanto scritto, commentandoci, criticandoci, apprezzandoci e avviando dibattiti nei commenti qui sotto, sui "social asociali" e sui social alternativi (siamo anche nel "fediverso" con un profilo Mastodon), e idealmente anche di persona...
Vi salutiamo allegando, come di
consueto, una citazione musicale in linea con quanto scritto: si tratta di "Palestine" del giovanissimo rapper di Gaza "MC Abdul", che fonde il suono del rap old-school statunitense con le istanze, la rabbia e il dolore del popolo palestinese, mentre sullo sfondo del video non ci sono grattacieli e città avveniristiche, ma rovine...
Oltre a questo alleghiamo anche due delle varie (e comunque troppo rare a nostra detta) "intrusioni" di Moni Ovadia nel panorama televisivo italiano (rispettivamente a "L'aria che tira" un anno fa e a "Piazzapulita" un mese fa) in cui parla in maniera molto accesa e schietta delle guerre più note in corso e, più in generale, dell'ipocrisia del cosiddetto ordine internazionale.
Infine "incorporiamo" anche il suo lungo intervento a "L'Asilo" dello scorso Giugno.
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