25.11.23

ANTI-SIONISMO NON È ANTI-SEMITISMO

ISRAELIANI, EBREI ED EX SIONISTI CONTRO SIONISMO E COLONIZZAZIONE PER UNA PALESTINA LIBERA 

Abbiamo cominciato a lavorare a questo lungo articolo (che si è trasformato in un saggio informale da leggere con calma) prima dell’attacco partito dalla Striscia di Gaza, nel cinquantesimo anniversario della guerra dello Yom Kippur...

Le accuse a chi critica lo stato di Israele e a chi prova a metterne in dubbio le sue caratteristiche democratiche vanno avanti da decenni, insieme alle politiche colonialiste dello stato ebraico che non rispettano il diritto internazionale. La principale accusa strumentale mossa a chiunque osi mettere in discussione la legittimità delle politiche e dei confini attuali dello stato di Israele, e che si sta rafforzando dopo l’attacco sferrato da Hamas, è quella di essere anti-semita e di aver dimenticato gli orrori dell’Olocausto.


In foto le parole "antisemitismo", "ebraismo" e "giudaismo" nella colonna sinistra insieme a una stella di David. In mezzo più volte è ripetuto il simbolo matematico "≠", "diverso da" e nella colonna destra le parole "antisionismo", "sionismo" e "Israele", insieme alla bandiera di Israele. Si vede anche una bandiera della pace insieme a una della Palestina e un cartello a una manifestazione con la scritta "un olocausto (1933-45) non ne giustifica un altro (1948-oggi)", oltre a una mappa di Israele e Palestina disegnata come un enorme labirinto


Il nocciolo del problema dunque risiede nell’identificare tout-court l’entità statale sionista-teocratica con l’ebraismo, e di conseguenza l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, non considerando l’eterogeneità della cultura ebraica e stereotipizzandola. Nell’articolo si incroceranno anche varie tematiche ricorrenti nella storia e nella questione palestinese, come il concetto di “Nakba”, i pareri sulla cosiddetta “soluzione dei due stati” (principale alternativa a quella dello “stato binazionale”), o il supporto ai fondamentalisti messianici sionisti da parti della potente lobby cristiana-protestante nord-americana.

Partiamo chiarendo da subito la posizione di chi scrive in merito ai circa 50 giorni di “punizione collettiva” dei gazawi (crediamo sia sempre utile esprimerla e separarla dai fatti, e se avete il piacere di esprimerne di diverse tra queste righe, o di segnalarci altri articoli e contenuti, non avete che da contattarci via mail o qui sotto nei commenti, e sarà nostro dovere riportarle e un piacere confrontarci) espressa in estrema sintesi: l’ “ultimissima” parte del conflitto all’interno dei territori palestinesi illegalmente occupati vede come principali protagonisti due “destre”, due estremismi e due fondamentalismi religiosi sostenuti da altre avverse potenze (USA e Iran in primis): da una parte quello fanatico-sionista di Israele e dall’altra quello del nazionalismo-islamico di Hamas. La differenza dello stato etno-centrico ebraico, oltre alla sproporzione di forza, risiede nell’avere un’entità statale (quella sionista-occupante e presunta sola “democrazia-liberale-liberista” del Medio Oriente) che occupa e colonizza illegalmente dei territori con un esercito “regolare”(oltre alle milizie paramilitari dei cosiddetti coloni). Per questo, a maggior ragione, dovrebbe rispettare il diritto internazionale, ma ciò non avviene da vari decenni e anzi: dopo aver favorito Hamas per mettere una pietra tombale su qualunque prospettiva di uno stato palestinese (non avendo nessuno con cui “trattare” ufficialmente) sta cogliendo l’occasione per attuare una nuova “Nakba”, la “Catastrofe” del ‘48, l’inizio della contemporanea politica dagli intenti genocidi nei confronti dei palestinesi.
Inoltre, chiedere ancora di “condannare Hamas” dopo migliaia di morti causati dalla “punizione di massa” in poco più di un mese attuata da Israele, risulta non solo squisitamente fazioso ma anche ridicolo: prima di chiedere “condannate Hamas” bisognerebbe iniziare col condannare Israele , col riconoscere la sproporzione dei danni causati dallo stato etno-cratico e teo-cratico in questi ultimi giorni, non considerando quelli arrecati ai palestinesi (non solo arabi ma anche gli stessi ebrei) a partire da prima della sua fondazione e dal “peccato originale” di matrice europea e colonialista che ne connota la sua stessa nascita.
Questo “saggio-articolo” nasce con l’intento principale di smontare le accuse di anti-semitismo mosse a chiunque critichi Israele, perfino agli stessi israeliani ed ebrei: “disinnescare” questo genere di critiche è diventato più arduo dopo le azioni dei fondamentalisti islamici, e in particolare quelle dirette a obiettivi non militari, che sono ovviamente da condannare in quanto crimini di guerra... Il problema però è che i crimini di guerra commessi negli ultimi decenni da Israele, e in particolare dagli estremisti sionisti-colonialisti, vengono ignorati dalla stampa mainstream, impegnata come al solito ad alimentare la narrazione fantoccio dei “buoni occidentali democratici giudaico-cristiani” contro i “cattivi terroristi”, quasi sempre musulmani, oltre a tralasciare le cause materiali e “materialiste” alla base delle guerre.
Quasi nessuno si indigna quando, quotidianamente, l’esercito israeliano (così come altri apparati militari del mondo “civilizzato”) insieme ai coloni (di fatto delle milizie paramilitari supportate dalle forze di difesa israeliane “ufficiali”) commettono indicibili abusi, perfino con l’avallo di leggi palesemente illegali e incivili (si pensi alle varie torture commesse in regime di detenzione amministrative agli “ostaggi” palestinesi israeliani da anni, ai permessi per costruire insediamenti garantiti solo ai coloni, agli spossessamenti forzati di terre, colture, costruzioni, risorse idriche  e così via), sistematicamente ignorati dalla quasi totalità di politici e degli apparati mediatici.
Quasi nessuno prova a spiegare come vivono effettivamente i palestinesi, come viene irrimediabilmente limitata la loro libertà di movimento, di proprietà, di accesso a strutture sanitarie e scuole, di come vengono rinchiusi (non solo con gli arresti arbitrari) e uccisi, di come delle famiglie vengono separate da recinzioni automatizzate con meccanismi di riconoscimento facciale, di persone che non possono tornare “a casa” pur avendone il pieno diritto, di persone nate e cresciute in campi profughi che non riescono nemmeno a concepire cosa significhi viveri al di fuori di esso, del senso di claustrofobia, letterale e metaforico, che non può far altro che alimentare i fondamentalismi e la lotta armata (conflitto armato che, tra l’altro, è legittimo di fronte a un occupazione illegale anche secondo il diritto internazionale, anche se il diritto alla difesa non dovrebbe mai coinvolgere civili se non come funesti “danni collaterali”, e nonostante questa constatazione sia dolorosa per qualunque vita spezzata, al di là del fatto che indossi una divisa o meno)... Anzi, se qualcuno prova a fare delle critiche a Israele, anche “minime”, viene perfino tacciato di essere anti-semita e complice dei “terroristi”, il che è linguisticamente paradossale: sono gli israeliani guerra-fondai, nazionalisti e colonialisti, a essere anti-semiti perché anche i palestinesi fanno parte delle popolazioni semitiche, anche se il termine anti-semitismo viene usato in chiave anti-ebraica per la prima volta nella Germania di metà ‘800.
 
Contrariamente a quanto si potrebbe essere portati a pensare, sin dagli albori dell’ideale coloniale sionista sul finire dell’800 (supportato in ambito protestante per ragioni teologiche che analizzeremo nei paragrafi conclusivi di questo saggio informale), che mirava a fondare uno stato per gli Ebrei in diversi continenti (e prima che la scelta cadesse in area ottomana), l’anti-sionismo ha sempre avuto dei sostenitori in ambito ebraico, denotando la posizione degli ebrei che vedevano nel sionismo un tradimento dei valori e della cultura ebraica, che non dovevano e non potevano esprimersi nella creazione di una nazione degli ebrei per ragioni politiche (come la contrarietà alla colonizzazione, ai nazionalismi, all’oppressione di altri popoli o il senso di appartenenza alle nazioni in cui già si viveva) e religiose-identitarie (l’ebraismo inteso come una religione, come una cultura, non quindi in senso politico-nazionalista, oltre al rifiuto di “fondare” una nazione ebraica prima dell’arrivo del messia per gli ortodossi). Attualmente però parlare di anti-sionismo sta pericolosamente diventando un tabù, delegittimando e stigmatizzando ogni opposizione al progetto colonialista di Israele, portando a compimento la ridicola identificazione tra sionismo ed ebraismo prevista e scientemente portata avanti per decenni da politicanti come Abba Eban.
E mentre la maggioranza dei principali media mainstream si scaglia contro i presunti -e talvolta purtroppo veri- antisemiti, all’opposto si fa sempre più largo anche l’islamofobia, un sentimento di cui avere paura e da contrastare tanto quanto l’anti-semitismo, insieme al linguaggio genocida che disumanizza la popolazione palestinese.
 
Per decostruire in maniera molto approfondita e collegata con l’attualità questo genere di accuse usiamo le parole di alcuni ebrei e/o israeliani di origini e formazione molto eterogenee.

Iniziamo da tre stralci di interventi, diffusi tramite dei brevi video, che meriterebbero di diventare virali, di salire alla ribalta delle cronache, di risalire i risultati nei “feed” dei vari social network che invece tendono a identificare come “contenuti sospetti” qualunque critica a Israele penalizzandola o bannandola (e che per questo vi invitiamo a ri-postarli e a schiacciare su “mi piace”, anche se non ci piace vedere immagini, o sentire parole molto forti che però non possiamo ignorare). 
Questi primi tre estratti di interventi hanno il merito di sintetizzare efficacemente e in pochissime battute le ingiustizie e le inconsistenze dell’ideale fanatico-sionista, e i danni che esso crea alle diverse comunità nelle terre di Palestina e nel Mondo intero, a cominciare da quelle arabe ed ebraiche: ci riferiamo al rabbino americano “ultra-ortodosso” e anti-sionista Yisroel Dovid Weiss, all’avvocata israelo-americana specializzata in diritti umani Sari Bashi di “Human Rights Watch” e “Gisha, e a Ruth Ben-Artzi, professoressa di scienze politiche negli USA e nipote di Sara e Benjamin Netanyahu, rispettivamente la “first lady” e il presidente di Israele da cui ha preso le distanze parlando di una deriva “fascista” dello stato di Israele.
Passiamo poi alle parole del medico e oratore Gabor Maté, classe 1944, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto era diventato, da giovane, un sostenitore dell’ideale sionista di una “terra promessa”, mosso da una naturale ricerca di protezione per il suo popolo, prima di rendersi conto delle atrocità che venivano commesse nei territori occupati dopo averli visitati.
 
Ci spostiamo dal nord-america in Italia, rivolgendo occhi e orecchie alle tanto lucide quanto sdegnose dichiarazioni di Moni Ovadia, che da sempre si è schierato contro l’oppressione del popolo palestinese, e che al contempo ha posto al centro della sua produzione artistica e saggistica il <<vagabondaggio culturale e reale>> di quello ebraico, <<una cultura che le ideologie totalitarie del ‘900 avrebbero voluto cancellare>>: nato in Bulgaria da una famiglia ebraico-sefardita e trasferitosi da piccolo a Milano, dopo una laurea in scienze politiche ha avviato progetti artistici e di ricerca nel campo della musica etnica e popolare. È uno degli artisti e intellettuali italiani che più si prodiga nel denunciare senza remore, con una franchezza cristallina e tagliente gli abusi nei territori palestinesi occupati portati avanti dai gruppi di potere “giudaico-cristiani”.
 
Nella conclusione di questo “saggio informale” andiamo metaforicamente in Israele, riportando brevemente le parole apparse sui canali social di Josh Drill, ex soldato israeliano della ONG “Breakin the silence”, organizzazione di veterani con lo scopo di <<aumentare la consapevolezza sulle tragiche conseguenze di un’occupazione militare prolungata>>.
 
Infine il punto di vista più radicale è probabilmente quello espresso dall’attivista libertario israeliano Jonathan Pollak, noto principalmente come co-fondatore dell’organizzazione “Anarchici contro il muro”, anche se non gli piace essere identificato come tale nello specifico. In alcune interviste oltre a contestualizzare il ricorso alla lotta armata, strategia utilizzata anche da Mandela nella battaglia contro l’apartheid sud-africano, ha messo in evidenza l’ipocrisia dell’ “apartheid-giudiziario” israeliano: arrestato dopo una protesta contro i coloni a Beita, avrebbe potuto essere processato da un tribunale civile in quanto cittadino israeliano, ma ha invece scelto un tribunale militare, rischiando una pena più alta come avviene per chi non ha un passaporto israeliano.
 
Nel testo che segue troverete principalmente video (con appositi link qualora non riusciste a visualizzarli “incorporati” nel post), frammenti di articoli e trascrizioni (con annesse traduzioni dall’inglese) di alcune delle dichiarazioni da loro rilasciate, quelle che riteniamo più significative per testimoniare che non tutti gli ebrei e gli israeliani sono in favore dell’apartheid e dei crimini di guerra in Palestina, anche se questi provengono da percorsi politici, di vita e contesti molto diversi tra loro... E non ci sono solo singoli ebrei e/o israeliani come quelli qui citati, ma anche gruppi e associazioni che da tempo, e in questi ultimi giorni, protestano in favore dei palestinesi, come “Jewish Voice For Peace”, “Rabbis For Human Rights” e “Laboratorio Ebraico Antirazzista”, solo per citarne alcuni.
 
Infine non dobbiamo dimenticare anche alcune delle vittime israeliane dell’attacco di Hamas che continuano a chiedere l’imminente fine dell’offensiva criminale e dell’occupazione illegale israeliana, come Noy Katsman, fratello di Hayim che in vita, dopo essere stato un militare, aveva cominciato a difendere i diritti dei palestinesi. Al suo funerale ha detto: <<non usate le nostre morti e le nostre sofferenze per arrecarne ulteriori ad altre persone e famiglie>>; analogamente Yonatan Zeigen, figlio di Vivian Silver, fondatrice di “Women Wage Peace” e morta durante l’attacco di Hamas, invita il governo israeliano a fare tutto il contrario della guerra, e quindi ad avviare negoziazioni, usando lo slogan che l’anziana avrebbe fatto proprio, e cioè “non nel nostro nome”. Ricordiamo inoltre che perfino l’ex vertice del Mossad Tamir Pardo (e non solo diverse organizzazioni umanitarie e membri dell’ONU come avevamo già detto tra queste pagine virtuali) ha definito, un mese prima del 7 Ottobre, il sistema di segregazione attuato da Israele come un regime di apartheid.



CONTRO L’ETNO-TEOCRAZIA ISRAELIANA O CONTRO GLI EBREI?!


Immagine del rabbino con un cartello recitante la scritta: "I rabbini autentici si sono sempre opposti al sionismo e allo stato di Israele". Nel testo alcune delle parole riportate nell'articolo espresse da lui
Foto a sinistra di "Carolmooredc" rilasciata con licenza creative commons: sul cartello del rabbino si legge: "<I rabbini autentici si sono sempre opposti al sionismo e allo stato di Israele>"


Iniziamo a smentire le sempre più frequenti accuse di anti-semitismo nei confronti delle voci critiche di Israele partendo proprio da quella di un rabbino della comunità haredi, che alcuni definiscono come “ultra-ortodossi” mentre per altri sarebbe preferibile usare il termine “ultra-praticanti”. Si chiama Yisroel Dovid Weiss, vive negli USA, gran parte dei suoi antenati sono morti durante l’Olocausto e fa parte di “Neturei karta, gruppo che critica il sionismo e lo stato israeliano.


Il 15 Maggio di quest’anno nel 75esimo anniversario della “Nakba”, e cioè dell’inizio della prima guerra arabo-israeliana, dell’operazione di pulizia etnica (secondo la definizione dello storico israeliano Ilan Pappé) e dello spossessamento forzato di centinaia di migliaia palestinesi delle loro terre e della loro stessa identità, lanciava un messaggio tramite il canale di “Middle East Eye, negli stessi giorni in cui si festeggiava la nascita dello stato israeliano (ed esprimendo dei concetti che ha ripetuto un mese fa ad “Al Jazeera):



<<abbiamo un messaggio per questi 75 anni d’occupazione: vogliamo che il mondo sappia che ciò che viene perpetrato ai danni del popolo palestinese, l’oppressione, la sottomissione, la terribile crudeltà, non è in nome della nostra religione, della Stella di David e degli ebrei in tutto il Mondo che sono fedeli alla propria religione (…) siamo in completa opposizione all’esistenza dello stato sionista di Israele, e dico “sionista” perché è tale e non ebraico. Il Giudaismo e la Torah vietano agli ebrei di avere una propria sovranità ed entità fin dalla distruzione del tempio, e gli ebrei fedeli non provano mai ad avere uno stato proprio, oltre al divieto di uccidere o rubare. L’essenza di questa idea di prendersi la terra dei palestinesi è completamente in antitesi e in contraddizione con la mia religione. Gli ebrei, dal primo giorno, hanno sempre preso posizione contro questa entità sionista, e continuiamo a farlo protestando, piangendo, soffrendo e percependo le sofferenze dei palestinesi. Speriamo e preghiamo il signore continuamente per una completa fine dell’occupazione. Vogliamo che il mondo sappia che il movimento sionista non è un movimento ebraico, ma un movimento politico e materialista creato da eretici, che in maniera semplicistica cercano di incorporare la nostra religione per intimidire, per fare stare zitti e chiamare anti-semiti chiunque si opponga, mentre ciò è palesemente falso>>. Nella maggior parte dei programmi televisivi di questi giorni si mostrano piazze che protestano in favore della Palestina, si intervistano palestinesi europei che sostengono Hamas (quasi a lasciar intendere che tutti i palestinesi siano identificabili con un movimento nazionalista o che lo sostengano, e senza dire che questo è stato favorito in diverse maniere dallo stesso Israele che ne ha anche accresciuto la popolarità), e poi evocano lo spettro dell’antisemitismo, che certamente esiste (a volte anche nell’ambito della sinistra radicale, ma soprattutto in quello della destra neo-nazi-fascista e perfino nelle parole di certi governanti italiani che rievocano il concetto di sostituzione etnica e di complotti orditi dagli "emissari" dell'ebreo Soros) ma che non va certo agitato a sproposito. Quante volte avete visto invece un ebreo, o addirittura un rabbino, criticare aspramente e nettamente sia il sionismo che Israele in TV? Verrebbe anche lui definito un antisemita?



Gli altri stralci di interventi sono stati diffusi dall’emittente indipendente “Democracy Now!”. I primi provengono da un’intervista a Sari Bashi del 17 Ottobre, esperta di diritti umani con cittadinanza israeliana e statunitense, “Program Director” di “Human Rights Watch”, sposata con un professore palestinese della Cisgiordania.

In un breve “reel” diffuso dall’emittente sul suo profilo Instangram, nei primi giorni della <<punizione collettiva>> senza precedenti nella storia recente palestinese come è stato senza precedenti l’attacco di Hamas, diceva: <<non va mai bene commettere impronunciabili crimini di guerra contro i civili, come è stato fatto nel sud di Israele il 7 Ottobre, e questo in nessuna maniera giustifica la commissione di crimini di guerra contro i civili di Gaza. Per gli americani che sono perplessi su quanto sta avvenendo vorrei suggerire di ricordare un principio molto basilare: i civili devono essere protetti! Inoltre spingete i rappresentanti che avete eletto per  ricordare questo principio al governo degli USA, perché quest’ultimo sta fornendo 3.8 miliardi di dollari all’anno in aiuti militari a Israele e portando ancora più armi qui, adesso, e che ha la responsabilità di porre un freno agli attacchi contro i civili, di chiedere a Israele di cancellare l’ordine di evacuazione>> (che come ha spiegato nell’intervista può essere assimilato a un trasferimento illegale e forzato della popolazione, oltre alla violazione del principio di non respingimento commessa anche dall’Egitto) <<di proteggere i civili di Gaza e di ripristinare immediatamente gli aiuti umanitari>>, inviti e condizioni che purtroppo sono stati tragicamente disattesi.


 

Parlando poi delle cause dell’odio e della violenza alimentate dalla sistematica repressione dei palestinesi anche in Cisgiordania, in meno di un minuto di un altro breve video (diffuso sul canale Youtube della stessa emittente) sintetizza cosa vuol dire abitare in un regime di “apartheid”, un regime <<invisibile ai governanti americani>> e denunciato dalla ONG di cui fa parte, partendo dalla sua stessa prospettiva: <<sono un’ebrea israeliana e americana. Il mio partner è palestinese è posso fare delle cose che lui non può fare: posso viaggiare abbastanza liberamente, e anche se sua madre è una rifugiata da un posto che ora fa parte di Israele, lui non può passare in zone che sono proibite ai palestinesi. I miei diritti sono ottimi, godo di buona salute, e ci sono città in Israele costruite solo per ebrei, così come nella Cisgiordania ci sono insediamenti per soli ebrei, mentre i palestinesi sono circondati, non hanno la facoltà di costruire città, con le loro case demolite per la mancanza di permessi praticamente impossibili da ottenere. Le autorità israeliane stanno attuando trasferimenti forzati, con la rimozione di comunità palestinesi in Cisgiordania per fare spazio agli insediamenti. Tutto ciò rientra nelle cause alla radice della violenza (...) Ci sono degli abusi terribili: bisogna solo ascoltare cosa le persone sul campo dicono e agire di conseguenza>>.


 



alcune delle parole espresse da Sari Bashi, incluse nell'articolo, che partono dalla sua esperienza personale


Chiudiamo questo primo paragrafo con le parole di Ruth Ben-Artzi, professoressa di scienze politiche negli Stati Uniti, esperta di Medio Oriente, cresciuta in Israele e nipote acquisita del primo ministro israeliano. Per anni aveva cercato di non rendere pubblica la sua parentela e di evitare di esporre le sue opinioni politiche. Mentre però il governo di suo zio portava avanti le riforme che avrebbero completato la trasformazione di Israele in una vera e propria <<teocrazia>>, negli scorsi mesi ha deciso di rompere il silenzio e di dissociarsi ufficialmente dai suoi parenti a mezzo stampa, accusandoli di <<promuovere il fascismo>>. Immaginate cosa succederebbe se lo stesso concetto, con l’associazione della parola “fascismo” a “Israele”, venisse espresso da un non ebreo: “di norma” verrebbe tacciato di essere un pericoloso anti-semita e di aver dimenticato l’orrore della Shoà.


Ai microfoni di “Democracy Now la scorsa settimana, mentre iniziavano le trattative per il rilascio degli ostaggi, ha parlato di un appello degli ebrei e israeliani residenti nello stato di Rhode Island, insieme a centinaia di scienziati politici, per chiedere un “cessate il fuoco” (espressione molto diversa dalle cosiddette “tregue umanitarie”), come unica soluzione e punto di partenza per una risoluzione del conflitto che non finisca con l’alimentare delle spirali di violenza, una soluzione che non può essere quella militare e che certamente finirebbe per rafforzare Hamas, piuttosto che eradicarla, e che è supportata da diverse organizzazioni sia palestinesi che israeliane: la soluzione politica è <<l’unica speranza per, approssimativamente, 7 milioni di palestinesi e 7 milioni di ebrei che vivono tra il fiume e il mare di raggiungere la pace>>.


Dichiarazioni rilasciate da Ruth Ben-Artzi: <<provo vergogna, tristezza e rabbia. Vergogna perché i miei parenti non hanno vergogna. Ricoprono delle posizioni di potere che promuovono e incoraggiano violenza, razzismo, nazionalismo e fascismo. Non sono i valori ebraici che ho assorbito e ai quali sono legata>>




LA DIFFERENZA TRA QUELLO CHE SAPPIAMO E QUELLO CHE NON VOGLIAMO SAPERE...


Alcune delle parole di Maté sotto riportate, che indicano la sproporzione di forza e di danni tra i due campi, oltre alle strumentalizzazioni dell'Olocausto
Foto a sinistra di "Gabor Gastonyi", fonte "Clare Day", rilasciata con licenza "creative commons"

Gabor Maté, medico e sopravvissuto all’Olocausto, inizialmente un supporter adolescenziale dell’ideale sionista di uno stato ebraico per poi diventare acceso critico del colonialismo israeliano, vive in Canada, e nove anni fa scriveva sul sito The Star” in un articolo intitolato “Il magnifico sogno di Israele è diventato un incubo: <<in Israele-Palestina la fazione più potente ha avuto successo nel descrivere se stessa come la vittima, mentre quelli che vengono ammazzati e storpiati diventano i carnefici (...) Netanyahu, tu che con precisione chirurgica massacri innocenti, giovani e anziani, tu che hai crudelmente introdotto un embargo a Gaza per anni, affamandola di necessità, tu che togli ai palestinesi sempre più la loro terra, l’acqua, i raccolti, gli alberi, te ne importa della vita?!>>.

Nell’articolo si trova anche una precisa risposta alla fallacia logica dell’"argomento fantoccio" più usata dagli estremisti sionisti e dalla folta schiera di politici e comunicatori loro "supporters": quando vengono denunciate le politiche colonialiste di Israele, questi usano la tragedia dell’Olocausto per sviare l’attenzione dai loro crimini nei territori occupati, avanzando il diritto ad avere un proprio stato ma dimenticando di dire che questo viene ottenuto a spese di un altro popolo: <<il mio cuore mi dice che “mai più” non è uno slogan tribale, che l’omicidio dei miei nonni ad Auschwitz non giustifica l’esproprio dei palestinesi in corso, che giustizia, verità e pace non sono prerogative tribali. Che il “diritto di difendere sé stessi” di Israele, inattaccabile in principio, non conferisce validità alle uccisioni di massa>>.

 

Quando il noto autore e oratore scriveva queste parole, a Luglio del 2014, Hamas aveva lanciato più di 3000 razzi in pochi giorni e Israele rispondeva con un’offensiva a Gaza, l’operazione “margine di protezione”. Prima della tregua morirono più di duemila palestinesi e una settantina di israeliani, quasi tutti militari (tra l’altro in quei giorni terminò anche la vita di un reporter italiano, Simone Camilli, che si trovava lì per un pezzo sugli ordigni inesplosi). 

Nello stesso periodo rilasciò anche una lunga intervista a Russel Brand per il podcast “Under the Skin”, e alcuni stralci sono pubblicati sul suo canale YouTube. Nell’intervista va subito al nocciolo della questione palestinese partendo cronologicamente dalla Nakba” nel ‘48, quando terminava il mandato britannico della Palestina e più di 700mila arabi-palestinesi furono espulsi dalla loro terra:

<<non c’era altro modo per creare uno stato ebraico senza opprimere ed espellere la popolazione locale, cosa che hanno fatto nel 1947 con la protezione dell’impero britannico. Storici israeliani ed ebrei hanno dimostrato, al di sopra di ogni dubbio, che nel 1948 che l’espulsione dei palestinesi è stata deliberata, persistente, pervasiva, omicida e crudele. Questo è ciò che viene chiamato “Nakba” in arabo, la “catastrofe”. Oggi in Canada (paese in cui vive Maté ndr) c’è un legge che non permette la negazione dell’Olocausto (anche se non credo in questo tipo di legge), ma in Israele ce ne è un’altra che non permette di parlare della Nakba, anche se è alla base della fondazione di Israele>>.

Dopo aver visitato i territori occupati ha visto di persona la crudeltà del colonialismo sionista e di matrice europea, <<il diniego dei diritti all’accesso dell’acqua, gli incendi e la distruzione degli olivi>> e le altre brutalità alla base della <<più lunga operazione di pulizia etnica del XX e del XXI secolo (...) In quanto ebreo potrei atterrare con un aereo a Tel Aviv domani e chiedere la cittadinanza secondo la legge del diritto al ritorno, ma il mio amico palestinese a Vancouver, nato a Gerusalemme, non può nemmeno visitare la città: se io ho il diritto di ritornare dopo duemila anni, assumendo che la storia non sia opinabile, perché il mio amico non può tornare dopo 70 anni?>>.

 

Poi parla dell’immensa povertà di Gaza, <<la più grande prigione del mondo a cielo aperto>> e di Hamas, <<un’organizzazione islamica, inizialmente incoraggiata e supportata da Israele come contrappeso alla secolarizzataOrganizzazione per la Liberazione della Palestina con cui non voleva avere a che fare. Era naturale, date le condizioni, che le persone avrebbero seguito una leadership estremista, questo fa la gente quando viene resa miserabile, senza speranza, deprivata di qualunque diritto. Non c’è bisogno di supportare le politiche di Hamas per difendere i diritti dei palestinesi, è una falsità assoluta... Ma ci sono state delle libere elezioni a Gaza, monitorate dalla comunità internazionale e definite come le più libere nel mondo arabo, e Hamas ha vinto, e immediatamente gli USA e Israele organizzarono un golpe, che Hamas sconfisse e per cui fu iniziato un embargo che priva Gaza di cibo, medicinali e acqua a sufficienza. Ogni volta che c’è un conflitto Israele “falcia il prato”, un’espressione che si traduce nell’uccisione di massa di civili. Allora, è vero che da Gaza si lanciano razzi verso Israele uccidendo persone innocenti?! Sì è vero! Sono in favore di questo?! No! Ma quando si discute della morte di civili innocenti, Israele uccise 20mila civili libanesi nel 1982, usando armi illegali come le bombe a grappolo, in una guerra che non aveva alcuna giustificazione, e potrei andare avanti per ore. La sproporzione di potere, di responsabilità, di oppressione è così marcata da un lato, che basta pensare alla peggiore cosa che si può dire di Hamas moltiplicata per mille, e quella cosa non sarà paragonabile alla repressione israeliana, alle uccisioni e alle espropriazioni dei palestinesi>>, e come vedremo questo punto di vista non è cambiato in questi ultimi giorni.

 

Maté, come altri “ebrei dissidenti”, deve poi difendersi dall’accusa di non essere un praticante, una critica “parallela” a quella di essere antisemita o ebreo che odia sé stesso: <<A quelli che argomentano che non siamo degli ebrei praticanti, dico che possono venire a visitare la mia famiglia alla Pasqua Ebraica ogni anno, quando parliamo di come la liberazione degli ebrei dall’Egitto non deve essere un simbolo ebraico ma internazionale: se dopo 2000 anni possiamo cercare liberazione e libertà, perché non possono farlo i palestinesi? Quelli che confondono il sionismo con il giudaismo provocano un grande danno. C’era un filosofo ebreo che già nel 1895 disse che se avessimo continuato a trattare in quel modo il mondo arabo, avremmo ottenuto un disastro. Per questo combinare il giudaismo e l’ebraicità con il sionismo è assolutamente falso; così come è una calunnia dire che gli ebrei che si oppongono a Israele non sono ebrei; così come dire che chiunque critica Israele è un’antisemita è un oltraggioso tentativo di intimidire delle brave persone non ebree che vogliono lottare per la verità>>.

 

Ritorniamo poi al punto della narrazione mediatica mainstream tesa a giustificare qualunque crimine di Israele e a dipingere chiunque vi si opponga come terrorista: <<se guardiamo i media occidentali e americani, quando chi protesta a Hong Kong lancia delle pietre alla polizia vengono considerati degli eroi, così come quelli che nel Myanmar usano delle fionde contro l’esercito oppressivo, ma quando i bambini palestinesi lanciano delle pietre ai soldati israeliani questi vengono chiamati “terroristi”. Israele la fa franca con molto di più e con molte meno critiche sui media occidentali di qualunque altro paese>>.

 

Un altro concetto molto potente e spiazzante espresso nell’intervista riguarda non solo quello che si sa, ma quello che non si vuole sapere, quelle domande che non ci poniamo anche perché siamo bombardati da fatti frivoli che diventano “notizie” mentre la “terza guerra mondiale a pezzetti” imperversa, o siamo sviati da narrazioni distorte: ad Albert Speer, ministro del regime nazista, architetto personale di Hitler, e criminale di guerra, fu posta una domanda topica: “cosa sapevi?”, cosa sapeva della “Soluzione finale”, e cioè del piano di sterminio degli ebrei, dei romanì, dei diversamente abili, dei gay (si parla di “Omocausto” oltre che di “Olocausti” al plurale, a tal proposito) e delle svariate atrocità naziste.

Maté, leggendo l’autobiografia dell’architetto nazista, resta particolarmente impressionato dalla risposta e argomenta che anche per la questione palestinese dovremmo impegnarci a conoscere e a contrastare i disegni degli estremisti sionisti in maniera proattiva: <<Speer disse che “cosa sapevo?” non era la giusta domanda. La domanda corretta sarebbe stata “cosa potevo sapere se avessi voluto?!”. Aveva tantissimi indizi, come quando in una fabbrica di armamenti incontrò dei prigionieri di un campo di concentramento e chiese loro se avessero preferito stare lì o nel campo, notando subito dopo lo shock sulle loro facce. Non chiese mai il perché di quella espressione sul loro volto. Oppure quando disse a un generale tedesco di voler visitare la parte orientale del Terzo Reich si sentì rispondere che era meglio non vedere cosa succedeva lì. Non chiese mai il perché. La domanda quindi non era cosa sapeva, ma cosa avrebbe potuto sapere se lo avesse voluto>>, e quindi ognuno di noi, non vivendo sotto la censura di un regime come quello nazista, potrebbe cercare gli scritti o i video di storici israeliani che da tempo denunciano il regime sionista, come Norman Frichneshtain, anche lui figlio di ebrei scampati all’Olocausto, ma anche degli ex soldati israeliani che si sono pentiti delle brutalità commesse da Israele tramite le loro azioni militari: <<si può accedere a tutta l’informazione che si vuole, per questo se qualcuno oggigiorno “non conosce”, non è perché le informazioni non sono a disposizione... Non è cosa conosci, ma cosa potresti conoscere>> ciò che davvero conta! Il nostro disinteresse può tramutarsi in una indifferente colpevolezza, se non addirittura in una complicità più o meno indiretta, come nel caso dell’architetto di Hitler...


Quando l’intervista si avvia alla conclusione Maté unisce le legittime istanze degli ebrei che avevano vissuto la Shoah usate strumentalmente a danno di un altro popolo, sintetizzando efficacemente e con una semplicità disarmante la questione palestinese:

<<posso comprendere che dopo gli orrori del genocidio nazista abbiamo disperatamente voglia di protezione, ma niente di ciò può essere usato come una giustificazione per quello che stiamo facendo, oppure come una scusa per non conoscere la verità, insieme al deliberato tentativo di mettere a tacere chiunque provi a parlare, che sia ebreo o meno: non ci sono due visioni, anche se è comunque una questione complicata, dato che in termini di potere e controllo è abbastanza semplice... C’era una terra con delle persone, e altre persone la volevano, se la sono presa e continuano a prendersela, continuano a discriminare, opprimere ed espropriare: questo è quanto. Spero che i non ebrei fronteggino il colonialismo senza aver paura di essere tacciati di antisemitismo. Non è questione di essere “pro-palestinesi”, non sono pro-palestinese, sono “pro-verità”, e penso che si verificherà un disastro per gli israeliani sul lungo termine perché questo stato di cose non può essere sostenuto. Penso che ci sono un sacco di brave persone in Israele che la pensano esattamente come me. Quindi non è questione di essere pro-palestinesi, ma di essere in favore di giustizia, libertà e verità>>.

 


ISRAELE HA VISSUTO PER POCHI GIORNI QUELLO CHE I PALESTINESI VIVONO DA DECENNI DI ROUTINE

In un video più recente, pubblicato sul suo canale, osserviamo che nonostante sia estremamente provato da quanto successo, le sue posizioni non sono cambiate dopo l’evento del 7 Ottobre, dopo l’attacco a dei <<non combattenti>> che porta alla mente delle reminiscenze degli assalti che hanno vissuto le comunità ebraiche nella storia: per questo, argomenta l’esperto in psicologia, anche un sentimento come la vendetta è <<completamente comprensibile, da un punto di vista emotivo. Cosa è difficile ricordare in tempi come questi è che c’è un’altra parte, che ci sono altre persone che hanno le loro esperienze, basate sulla loro storia>>, e questa storia la sintetizza citando le parole della giornalista israeliana Amira Hass in un articolo pubblicato sul quotidiano israeliano e progressista Haaretz:<<in pochi giorni gli Israeliani hanno sperimentato quello che passano i palestinesi da decenni e di routine -e che stanno ancora passando- incursioni militari, morte, crudeltà, bambini ammazzati, corpi ammucchiati per le strade, assedio, paura, ansia per i propri cari, prigionia, essere gli obiettivi di vendette>>.

Le violenze commesse da Hamas vengono decontestualizzate sui canali mediali mainstream, mentre ossessivamente si chiede a chi si batte per i diritti del popolo palestinese di prendere le distanze dal gruppo di combattenti nazionalisti-islamici: <<La storia non è iniziata il 7 ottobre>> ricorda ovviamente Maté, e <<se vogliamo voltare pagina e avviare in qualche maniera un processo di pace, dobbiamo essere in grado di capire le esperienze degli altri>>. Non si può dimenticare che <<decine di migliaia di palestinesi, migliaia di bambini, sono stati uccisi negli ultimi 80 anni, che dal ‘47-’48 sono stati espulsi dalla loro terra, che è stata occupata. Pregando per la sicurezza dei circa 220 ostaggi, bisogna ricordare che ci sono migliaia di ostaggi nelle prigioni israeliane, torturati in maniera professionale (...) che cosa ha nutrito un odio così grande, un desiderio di vendetta cos grande>>, quello che succede a Gaza, una striscia di terra che si può definire <<il più grande campo di concentramento al mondo (...) in cui sono stati massacrati e oppressi ripetutamente>>. Non si può scollegare un evento dalla storia e dal contesto, e chi lo fa riesce a nascondere sia i problemi che le soluzioni... E anche questa volta facciamo notare che se a usare l’espressione “campo di concentramento” fosse stato un non ebreo, possiamo facilmente immaginare che gli sarebbe stato addebitato di essere insensibile nei riguardi dell’orribile trattamento dei nazisti riservato agli ebrei. Questa volta però lo ha detto un sopravvissuto all’Olocausto: avrà questo diritto senza essere bollato come antisemita?!

 

Nel video, dove viene intervistato da sua figlia, ritorna anche sulla definizione di anti-semitismo e sulle declinazioni di vari tipi di razzismo: <<ci sono persone che odiano gli ebrei non per qualcosa che hanno o che non hanno fatto, ma solo perché ebrei, così come alcune persone odiano i neri o i musulmani. Queste persone prenderanno un’azione fatta da ebrei, neri o musulmani, e la useranno per infiammare l’odio che alberga già dentro loro stessi>>. L’odio verso gli ebrei è culminato nel più <<orribile evento della storia, e cioè il meccanizzato e scientificamente pianificato tentativo di eliminare un intero popolo, e di cui i miei nonni furono vittime, e di cui io stesso da bambino sono quasi stato una vittima>>. Per questo qualunque critica a Israele alimenta quel genere di sentimento negli anti-semiti, <<ma questo fenomeno non mi pare che sia quello maggioritario. La maggiorparte delle persone che critica Israele lo fa con dolore, loro in realtà vogliono giustizia per tutti (...) ciò che Israele compie è stato definito da circa 2mila israeliani, ricercatori, rabbini e storici come “apartheid”. Il precedente vice-capo delle forze di difesa israeliane ha definito ciò che Israele compie come simile alla situazione degli ebrei nella Germania nazista: questo è un soldato israeliano, non un antisemita. Ha detto che come i teppisti nazisti riuscivano ad attaccare gli ebrei impunemente, e con il supporto della polizia, così i coloni nei territori occupati attaccano, ammazzano, distruggono le proprietà palestinesi, ammazzano i bambini, e quando si ribellano l’esercito arriva a sostenere i coloni>>. Scatta quindi un meccanismo per il quale <<se sei un sostenitore del sionismo e identifichi l’ebraicità con il sionismo in Israele, allora chi critica Israele per te sarà naturalmente antisemita o un ebreo che odia sé stesso, ma in realtà questa percezione è frutto della credenza che l’essere ebreo si identifichi con Israele>>.

Dopo aver specificato più volte che l’atto di Hamas non è giustificabile, così come non sono giustificabili i crimini di guerra compiuti da Israele a partire dal 7 Ottobre, ci tiene a <<ricordare, quando valutiamo la portata delle sofferenze, imposte da una parte sull’altra, che c’è a malapena paragone>>.


 

SCARDINARE MEDIATICAMENTE L’ANTI-SIONISMO: NON VUOL DIRE ANTI-EBRAISMO


Nella foto, scattata a "L'Asilo" di Napoli, si riportano alcune delle dichiarazioni di Ovadia incluse nell'articolo



La disarmante semplicità con cui Maté riassume più di sette decenni di esproprio delle terre di Palestina la ritroviamo anche nelle sofferenti invettive del noto artista e attivista ebreo-italiano. Moni Ovadia, in un dibattito a “La Bolla” sul canale “Ottolina TV, trasmesso il giorno dopo l’inizio dell’operazione “alluvione Al-Aqsa”, parte descrivendo le ipocrisie più evidenti delle democrazie liberali-liberiste “occidentali”:

<<C’è una cosa molto semplice e sempre sottaciuta: le cosiddette democrazie occidentali dicono sempre di stare con Israele rivendicando il diritto a difendersi... Ma i palestinesi che diritto hanno?! A subire persecuzioni, colonizzazione, vessazioni, distruzione delle abitazioni, espropriazioni di ulivi ecc. Questo è il diritto dei palestinesi?! Se avete notato, nelle comunicazioni di politici come Blinken, Macron e Biden, nessuno dice almeno un “però”>> riguardo alla condizione in cui versano i palestinesi. <<Sono convinto che questa situazione sia stata creata dai governi israeliani, in particolare quest’ultimo che è un coacervo di reazionari incapaci: è ovvio che se crei situazioni incendiarie poi scoppia l’incendio. Gaza è come una scatola di sardine sigillata, nessuno può entrare o uscire senza l’autorizzazione israeliana che controlla gli spazi aerei, marittimi e sotterranei. L’energia e l’acqua sono forniti da Israele, e l’ONU ha definito Gaza “inabitabile”. Invece quelli della Cisgiordania vivono in un prigione a cielo aperto>>.

Con questa acuta descrizione l’intellettuale disegna una situazione ancora più grave per la “striscia” che si affaccia sul Mediterraneo: di solito questa viene descritta come la più grande prigione a cielo aperto del Mondo mentre per Ovadia è una, per così dire, prigione estremamente sovrappopolata, al punto di poter essere definita come una “scatola di sardine” invivibile. La situazione dei palestinesi in Cisgiordania non è migliore: rinchiusi tra vari muri e checkpoint fissi o “volanti”, sono sottoposti <<a ogni forma di vessazione, ad arresti amministrativi, apartheid, stillicidio di provocazioni ininterrotte verso bambini, donne e adulti. Io credo, come ho sempre espresso, che un popolo oppresso ha diritto a ribellarsi, come sancito dalle convenzioni internazionali, con i mezzi che ritengono appropriati... Certo, la morte di cittadini israeliani e il loro sequestro provoca ovviamente sofferenza e dolore, ma è il risultato dell’arroganza e delle politiche dei governi israeliani, che hanno lasciato marcire questa situazione, con la complicità della comunità internazionale.

Tutti dicono che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ma davvero? Una democrazia non colonizza terre non sue, non arresta con leggi di carattere razzista esseri umani che in realtà non fanno niente di criminale, non li depreda delle risorse agricole, idriche e via dicendo>>, nell’immobilità effettiva della comunità internazionale che non si attiva per <<porre fine a questa situazione scellerata che per Gaza dura da 75 anni, e per la Cisgiordania sicuramente da 56 e forse di più: è così semplice da vedere, e non c’è uno di questi soloni che dice che Israele ha sbagliato, perché un governo che occupa è responsabile dei cittadini di quel territorio>>.

L’intellettuale che dirige anche il teatro di Ferrara (mentre i reazionari italiani ne chiedevano le dimissioni per le sue coraggiose e schiette prese di posizione), a due giorni di distanza dall’attacco dei fondamentalisti islamici veniva intervistato da Alessandro di Battista sul suo canale Youtube. In quell’occasione ripeteva dei concetti chiave espressi nell’altra intervista. Tra questi c’è l’immobilità, se non la complicità, della comunità internazionale nei riguardi dello “Stato ebraico”, stato che a oggi discrimina le minoranze non ebree non solo di fatto, ma anche di diritto, dopo la svolta autoritaria avviata nel 2018 con una delle cosiddette “leggi fondamentali”, quella dello “stato-nazione del popolo ebraico” in cui si sancisce che, formalmente, i diritti individuali di tutti i cittadini sono uguali, ma non lo sono quelli dei gruppi etnici non ebrei, all’incirca un quinto della popolazione:

 <<perché la comunità internazionale non ha detto che c’è bisogno di rispettare le risoluzioni internazionali, che se fossero state rispettate avrebbero risolto il problema (...) Perché non si dice di mettere in pratica gli accordi di Oslo? Nemmeno quello si mette in pratica>>.

L’attivista ebreo passa a parlare dello stato di assedio, e cioè dell’embargo condannato dalle Nazioni Unite, attuato dal 2007 insieme all’Egitto nel territorio abitato dai gazawi e della “favola” del ritiro degli israeliani da quella parte di territorio: <<alle medie, mentre studiavo l’Iliade, mi hanno insegnato che l’assedio è un atto di guerra. I governi israeliani raccontano una favola quando dicono di essersi ritirati da Gaza, ma dopo aver ritirato quei pochi coloni cos’hanno fatto? Hanno sigillato i confini>> creando una <<trappola per topi. Come si fa a stupirsi della violenza quando ci sono persone che non hanno un minimo di speranza. I palestinesi devono vivere come dei topi, come degli schiavi, devono vivere nelle situazioni più atroci, e questa la chiamano “civiltà occidentale” (...) se smetti di pensare criticamente vuol dire che sei complice della distruzione di questo Mondo (...) io ho dedicato la mia vita a una cultura di minoranza, la cultura ebraica del centro-est europeo, e io dalla vicenda degli ebrei ho imparato una cosa principale: si sta con gli oppressi e mai con gli oppressori>>.

Lo scorso 12 Giugno, quattro mesi prima dell’inizio degli ultimi scontri, eravamo andati a un convegno intitolato “La Palestina oggi e le prospettive future”, inserito all’interno della otto-giorni di eventi “Masarat Al-Funun, percorsi artistici”, organizzata dalla Comunità Palestinese della Campania e che si è tenuta presso lo spazio liberato de “L’Asilo”.

 

Già in quell’incontro  Moni Ovadia parlava delle narrazioni mediali e del “pensiero unico” pro-occupazione israeliana, nonché del corto-circuito psicologico e mediatico che confonde l’antisionismo con l’antisemitismo:

<<ogni volta che ascolto notizie sulla Palestina sono sempre più sgomento... noi che cerchiamo di mobilitare un’attenzione e una coscienza nei confronti del popolo palestinese siamo pochissimi: molti sono disposti a parlare di altre battaglie, come per esempio quelli che partecipano alle assemblee dei “No Tav” e così via, ma non appena si parla di Palestina si vede l’imbarazzo, perché c’è una specie di cortocircuito “finto-psicologico” per cui Israele sarebbe (mi riferisco al Governo di Israele) in una posizione di impunità, e questo è di una gravità senza precedenti nella storia. Nessuno può essere impunito, nessuno, neanche se ha avuto precedenti tragici… Vedo tante persone di livello, anche intellettuali e filosofi,  ma quando si parla di Palestina sono pochissimi disposti a metterci la faccia e il nome, e continuo a riflettere e cerco di capire come si può scardinare  questa cosa.

 

C’è una situazione molto strana: tutte le volte che cerco di smascherare questo occidente, che oramai è marcio e fradicio con la sua finta democrazia, con un mainstream veramente ripugnante e schifoso, quando parlo di Palestina in un teatro tutte le persone applaudono, perché sentono questa tematica. Però, non appena ci si sposta verso un “livello” che chiede la partecipazione per fare delle mobilitazioni (ripeto ad artisti e intellettuali) allora si vede che il numero si riduce. C’è un enorme equivoco su questa questione: per qualche ragione, essendo il governo israeliano composto di ebrei>> quando si attaccano le politiche sioniste dei nazionalisti israeliani, si viene tacciati di essere antisemiti, confondendo le denunce contro le occupazioni illegali attuate negli ultimi decenni dallo stato israeliano con una generica avversione verso gli ebrei. Alla platea rivolge <<una piccola raccomandazione: fottetevene se vi danno dell’antisemita, ridetegli in faccia a questi mascalzoni. È una vigliaccheria usare la cenere di morti indifesi nell’indifferenza generale per opprimere un popolo, io non riesco a pensare a niente di più schifoso! Io continuo a dire che non me frega e non ho assolutamente paura di nulla e mi viene da dire “ebrei a che titolo”?! E qualche volta, un po’ come una boutade e un po’ seriamente, ho detto a qualche amico ebreo in Israele: “Ma perché siete ancora ebrei voi israeliani?! A che titolo?!". Come fanno a ergersi a paladini di un governo fascista, segregazionista, colonialista e persecutorio, un governo che ce le ha tutte! Qualcuno poi comincia a dire: “ah sì, sono i discendenti delle vittime della Shoah”, ma quelli sterminati erano ebrei senza terra, non c’è stato un genocidio di israeliani, c’è stato un genocidio di ebrei della diaspora, proprio perché erano senza nazione! Quindi questo assumerne l’eredità è un’operazione falsa, strumentale e disgustosa! Non si può legittimare una politica terrificante contro delle persone indifese, contro un popolo per di più solo. Io credo che questo sia oggi, e dal dopoguerra, il più grande scandalo a cui stiamo assistendo, legittimato dalla comunità internazionale: non è vero che esiste la legalità internazionale. Le risoluzioni dell’ONU quando sono riferite alla situazione del popolo palestinese scompaiono: la 194, il diritto dei profughi al ritorno nelle terre da cui sono stati cacciati da guerre; e poi le famose 242 e 338: sono stracci di carta. Però i governanti israeliani sono i primi a strillare se secondo loro si violano le risoluzioni dell’Onu. Ma come? Le violano tutti i giorni, tutte le ore, tutti i minuti. E poi sulla base della violazione delle risoluzioni dell’ONU sono stati assassinati 500 mila iracheni, altrettanti afghani, non parliamo della Libia... adesso dicono “c’è un invasore e c’è un invaso” (riferendosi al conflitto in Ucraina ndr) <<ma io ogni volta che mi lasciano dire tre parole in televisione dico: “e i palestinesi?!”. Poi si sente l’imbarazzo per un paio di secondi e poi ritornano a parlare come prima, come se niente fosse, nessuno risponde...>>

 

<<Ho paura che, vi spiego la mia angoscia, che finché la posizione internazionale degli Stati Uniti non verrà ridimensionata da una prospettiva multipolare, loro eserciteranno la loro nefasta influenza per impedire che i governi israeliani vengano giudicati per i loro crimini contro l’umanità, per i loro crimini di guerra, per i loro “crimini di pace”>>. Tra l’altro critica anche il partito democratico USA, che insieme ai vari governi italiani, <<sulla Palestina non è meglio di quello Repubblicano (…) Credo che siamo di fronte a qualcosa che mostra che ogni logica del diritto è stata violata. Fanno le leggi apposta per violare i principi più elementari del rispetto dei diritti dei popoli e degli esseri umani. Hanno fatto una legge terrificante che è la legge dello stato-nazione, e quei pochi giornalisti israeliani coraggiosi come Gideon Levy hanno scritto su un giornale israeliano, pubblicato da un editore israeliano: “e adesso anche Israele ha le sue leggi di Norimberga(e cioè le leggi per la “protezione” del sangue e dell’onore tedesco varate nella Germania nazista nel ‘35 ndr). Allora che differenza c’è con il Sud Africa, con quell’apartheid?>>. A questo proposito vi invitiamo a leggere un altro articolo, pubblicato su queste pagine lo scorso Giugno in cui abbiamo analizzato l’uso della parola apartheid associato alla questione palestinese, utilizzo del termine che si trova in alcune relazioni delle Nazioni Unite e nelle denunce di diverse ONG indipendenti, e che rappresenta la caduta, perlomeno parziale, di un altro “tabù mediatico”: non è più eccessivo paragonare le politiche segregazioniste sud-africane a quelle dello stato ebraico. Tuttavia c’è una differenza, individuata dal noto artista, e consiste nel fatto che <<la violazione è commessa da governi a cui la sedicente comunità internazionale (che poi è la parte occidentale) ha attribuito l’impunità a priori. Io ho invitato BDS (un movimento internazionale che attua strategie di lotta non violenta contro Israele, tramite “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni”) e gli ho detto, se volete, fatemi presidente pro-tempore, così affronto io l’accusa di antisemitismo, voglio vedere... Noi dobbiamo capire come dobbiamo rompere questa omertà che non ha precedenti! Io da anni mi sto impegnando ma purtroppo non ho la forza...>>.

A questo punto suggerisce di organizzare un <<grandissimo concerto>> come fu fatto per denunciare e contrastare l’apartheid in Sud-Africa, coinvolgendo star di livello internazionale come Roger Waters (anche lui più volte accusato di antisemitismo, non possiamo dire se a torto o a ragione ma, viste le fondamenta fragili di molte di queste accuse, siamo propensi a dargli quantomeno il beneficio del dubbio): <<bisogna rompere con un evento che chiami in causa, bisogna provocare affinché strillino all’antisemitismo per rispondere a muso duro. Io considero oggi l’accusa che mi fanno, di essere un ebreo antisemita, una medaglia all’onore! Com’è possibile chiudere gli occhi di fronte a tanto schifo?

Siamo veramente molto pochi a criticare senza paura le posizioni della oramai linea criminale della politica israeliana. L’opposizione parlamentare è inesistente, sono pochissime le voci in Israele che si contrappongono in maniera autentica. Bisogna che ci sia una protezione internazionale del popolo palestinese. Noi dobbiamo ingegnarci tutti quanti di dare vita a un evento che scardini questa omertà ripugnante (...) Ci vuole un elemento di rottura molto forte: non so se riusciamo a unire le forze per organizzare un evento di fronte al quale la comunità internazionale non possa tacere. Tutti gli eventi che abbiamo fatto, e io ne ho partecipato a decine, non bastano: ci vuole qualcosa che abbia un effetto mediatico molto, molto potente, e che risvegli le coscienze di tanti che magari sono pronti ad essere risvegliati, ma che non vengono raggiunti perché la censura mediatica sulla situazione del popolo palestinese è di una perversione senza limiti. Io mi rendo disponibile, non cambierò di una virgola il mio atteggiamento: né le minacce né l’isolamento mi interessano, continuando con le mie forze che purtroppo sono piccole, soprattutto in un paese con un tasso di vigliaccheria che non ha riscontro nel resto dell’occidente (mi dispiace doverlo dire perché l’Italia è il mio paese). È pura vigliaccheria non riuscire a vedere le sofferenze di bambini, di donne, di uomini, di vecchi, di un intero popolo continuamente vessato>>.

 


LE ORIGINI DEL SIONISMO: I PALESTINESI PAGANO LA “BANCAROTTA FRAUDOLENTA” DELL’OCCIDENTE

Rispondendo alla domanda di un’astante, sul ruolo degli ebrei che combattono il fanatismo messianico sionista, l’intellettuale ripercorre la storia della nascita di Israele, con annesse colpe “occidentali”, fino ad arrivare a parlare della cosiddetta “Lobby Sionista-Cristiana”:

<<Ci sono una rete di Ebrei Contro l’Occupazione con cui abbiamo fatto diverse cose, ma non sono sufficienti>>, non si riesce a ricevere abbastanza attenzione a livello mediatico. Gli ebrei che sposano la causa palestinese <<sono pochi e non sono in posizioni di potere. Ce ne sono negli Stati Uniti, in Francia, e anche in Italia che però sono quattro gatti, anche perché gli ebrei in Italia sono circa 30 mila>> e tra queste stima che solo tra le 200 e le 400 persone sono particolarmente attive per la causa palestinese. <<Ci sono anche delle associazioni che criticano, ma non hanno strappato una sorta di falso cordone ombelicale>> che collega la nascita di Israele al dramma della Shoah, e che non hanno <<il coraggio di dire: “il governo israeliano è guidato da criminali fascisti”, perché questo è! Qualcuno in Israele lo dice, ma fuori ci sono ancora delle prudenze. Conosco anche delle persone autorevoli che hanno fatto critiche, ma si fermano sempre a un certo punto, si fermano a un “sì, però”. Non c’è nessun “sì, però”, questa è la conseguenza di quello che il sionismo è dall’origine. Alle origini del sionismo c’è uno slogan che manifesta la sua tara colonialista. Non è un movimento colonialista classico, ma trae legittimazione del colonialismo, perché l’establishment israeliano sionista si ripara dietro la famosa dichiarazione Balfour, una lettera scritta da un ministro del paese più colonialista del tempo, l’Inghilterra, per dire che l’Inghilterra era favorevole allo stabilirsi di una “National Home”, e cioè di un focolare nazionale ebraico in quella terra, nella Palestina mandataria (...) perché avevano interessi anche con i governi arabi, non con i palestinesi. Lo slogan sionista che nasce dietro questa dichiarazione è: “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, e cioè il sionismo non ha mai visto i palestinesi, mai! (...) Se poi declini il nazionalismo con un delirio religioso (cioè questa terra ce l’ha data Dio) qualsiasi altra gente o popolo avesse fatto questo, sarebbe scoppiato uno scandalo in occidente. Ma di fronte a questo obbrobrio, cioè la legittimazione religiosa di un nazionalismo (e già i nazionalismi fanno totalmente schifo, siamo di fronte alla follia) (...) il vero problema è che, secondo la mia opinione, l’occidente fa bancarotta fraudolenta della questione dello sterminio degli ebrei, facendo pagare a qualcun altro il prezzo: questo è stato il gioco portato a dei livelli così ripugnanti>> con delle tattiche che riflettono un altissimo <<livello di perversione>> comunicativa, come <<quando Netanyahu dice che è stato il gran Mufti a convincere Hitler di voler uccidere gli ebrei. Il problema è che l’occidente sa che ha fatto bancarotta fraudolenta e deve venirne fuori con la coscienza pulita, e allora noi in cambio diamo una terra a “quei tre” che ci vogliono andare e siamo pari... ma siamo pari un corno perché il prezzo lo hanno pagato i palestinesi, con la Nakba prima e poi è andando avanti... Quando c’è stato un momento in cui, con gli accordi di Oslo si poteva pensare almeno qualcosa di decedente>>, dato che con gli accordi che portano il nome della capitale norvegese, siglati tra il ‘93 e il ‘95, si sarebbe potuto avviare un processo di pacificazione, anche se secondo alcuni si trattava in realtà di una resa dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che, paradossalmente, ha incentivato e legittimato l’espansione degli insediamenti israeliani. Il processo di pace, sia che lo si voglia considerare come concreto o solo di facciata, subì un arresto con una serie di attentati terroristici culminati nell’omicidio del presidente laburista israeliano Yitzhak Rabin, da parte di Yigal Amir, “battezzando” un processo politico ed elettorale che vedrà trionfare l’estrema destra israeliana e porterà alla presidenza Netanyahu. Moni Ovadia ha un’opinione molto chiara sull’estremista di destra che sparò a Rabin alla fine di una manifestazione della pace a Tel Aviv: <<voi credete che sia stato un ebreo fanatico ad uccidere Rabin?! Certo, lui aveva la mano armata, ma dietro chi c’era? Noi in Italia lo sappiamo bene: i servizi segreti deviati. Lo hanno fatto fuori, e subito dopo hanno architettato tutto in modo che Oslo venisse dimenticata>>. Che l’idea di Ovadia sia complottista” o meno, sta di fatto che dopo la morte di Rabin ogni prospettiva di pace è stata pericolosamente accantonata. Gli israeliani avrebbero dovuto ritirarsi dalla Cisgiordania ma invece hanno continuato a inviare coloni...

 


DUE STATI E DUE POPOLI, UN UNICO STATO DEMOCRATICO O UN UNICO STATO SUPREMATISTA ETNO-CENTRICO?

Le negoziazioni avviate con gli accordi di Oslo avrebbero dovuto condurre alla creazione di due entità statali. Le trattative avrebbero previsto il ritiro di Israele dai territori definitivamente occupati dal ‘67, l’anno della “guerra dei sei giorni”, occupazioni non riconosciute dalle risoluzioni ONU. Quando si sente parlare della soluzione dei “due popoli due stati” ci si riferisce a questo: tale soluzione sembrerebbe più pratica e più facile da realizzare. Tuttavia molte personalità della società civile e della politica (incluso Ovadia, ma anche lo scomparso Vittorio Arrigoni per esempio) credono che si possa costruire una pace duratura solo con la cosiddetta “soluzione di uno stato unico”, nota anche come “soluzione bi-nazionale”, in cui tutti i gruppi etnici di Israele, Gerusalemme, Striscia di Gaza e Cisgiordania convivano godendo di uguali diritti: <<Quando oggi qualcuno mi parla di “due popoli due stati”, lo trovo di un’ipocrisia senza limite. C’è una soluzione: lo stato binazionale, punto. E ci sono degli ebrei ortodossi che sono ancora più radicali di questo, ebrei di quelli che stanno tutto il giorno chini sul Talmud e sulla Torah, che dicono che Israele è uno stato crudele sul piano umanitario e blasfemo su quello della Torah. Qualsiasi ipotesi relativa alla soluzione dei due stati, è stata distrutta dai governi che si sono succeduti dopo Rabin. Poi si sente dire “noi dobbiamo avere la sicurezza” (lo sapete che hanno il piglio della sicurezza), e per avere la sicurezza tu metti 700 mila coloni nelle terre legittime dei palestinesi (anche secondo questo schifo di legalità internazionale)?! È chiaro che si vuole altro>>. E questo “altro” evocato da Ovadia, allo stato attuale delle cose, purtroppo si traduce nella “soluzione di uno stato unico”, che però è quello suprematista, etnocentrico e colonialista, dove le varie minoranze etniche non godono gli stessi diritti della maggioranza ebraica.

 


LA “LOBBY CRISTIANA-SIONISTA”

Gli ebrei antisionisti non sono sufficienti a fermare le politiche di annessione e di apartheid anche perché, dalla parte dei fanatici messianici, ci sono dei potentissimi alleati che leggono e usano la Bibbia in maniera strumentale, e che per questo non si distinguono dalla loro controparte dei musulmani estremisti (anche se le letture della “guerra santa” islamica affini a quelle dei crociati cristiani vengono ampiamente pubblicizzate, mentre l’interpretazione della “jihad” come guerra metaforica contro egoismo ed egocentrismo e, secondariamente, come guerra attuata per autodifesa, non viene nemmeno considerata sui principali media generalisti): <<Purtroppo gli ebrei antisionisti non bastano. Ci vuole qualcosa che arrivi ai grandi numeri. Vi dico una cosa: nel 2014 trecento ebrei statunitensi sopravvissuti alla Shoah hanno comprato una pagina del New York Times. C’era scritto che il governo israeliano stava commettendo un genocidio (immaginate sempre cosa succede quando, in questi giorni, un non ebreo usa la parola “genocidio” associandola a Israele ndr) nei confronti del popolo palestinese: è passato in cavalleria perché la parte dell’ebraismo sionista è quella più potente, più dotata di mezzi e per giunta sostenuta da una forza micidiale che non è ebraica: sono gli evangelici degli Stati Uniti che hanno fondi smisurati. Sono settanta milioni e per loro, siccome sono pazzi fanatici, la loro teoria è che tutti gli ebrei devono tornare in Israele, che ci sarà una guerra fra bene e male e tornerà Cristo. Credono anche che gli ebrei che si convertiranno saranno salvi, mentre gli altri si fotteranno nelle fiamme dell’inferno, e per questo sono ultra-filosionisti e antisemiti>>, un paradosso di proporzioni “bibliche”. Il blocco di potere mediatico ed economico principale, secondo Ovadia, non è dunque quello della cosiddetta <<lobby ebraica, ma della lobby sionista che è potentissima e collabora con i cristiani-sionisti... Mentre noi siamo fragili>>, il che rende ancora più arduo sfondare <<questo muro ipocrita di silenzio>>.

 

Oltre alla miriade di predicatori sparsi nel continente americano, tra le figure di maggiore spicco della galassia degli ultra-conservatori cristiani c’è sicuramente Mike Evans, che si descrive come <<un devoto leader Americano Cristiano e Sionista>>. Tra le fila di milioni di “amici”, ossia di seguaci, ci sono politici del calibro Bolsonaro, Mike Pompeo e Mike Pence (nato da genitori cattolici, dopo essere <<rinato evangelico>> ha riferito alla Knesset, il parlamento di Israele, di provare <<meraviglia nella terra promessa di Abramo. Siamo con Israele perché crediamo nel bene e nel male, nella libertà contro la tirannia>>). La rete di seguaci ha anche appoggiato Trump, che prima di salire alla Casa Bianca aveva promesso di far diventare la Gerusalemme “divisa” sede dell’ambasciata degli Stati Uniti, riconoscendola come capitale legittima del “regno divino-coloniale” (promessa mantenuta).



ROMPERE IL MURO DEL SILENZIO

Josh Drill, ex soldato israeliano di “Breaking the silence”, organizzazione di veterani con lo scopo di <<aumentare la consapevolezza sulle tragiche conseguenze di un’occupazione militare prolungata>> ha dichiarato il 5 Ottobre, due giorni prima dell’attacco di Hamas: <<le Nazioni Unite hanno pubblicato un documento dove si spiega che più di mille palestinesi sono fuggiti dalle loro case per le violenze coordinate dei coloni. Questo tipo di violenza è ai massimi storici grazie all’estrema influenza del governo. Da ex militare che ha prestato servizio nel cuore di Hebron, in Cisgiordania, ho assistito a molti di questi attacchi dei coloni che non sono diretti soltanto ai civili palestinesi, ma anche contro gli attivisti israeliani che si battono per i diritti umani e contro di me e i miei soldati. Diverse volte i coloni mi hanno chiamato nazista” per non averli lasciati entrare in territorio palestinese. Questi attacchi provocano danni ingenti alle proprietà, causano severe infermità e perfinoala morte di palestinesi. Quando ero un ufficiale ad Hebron mi chiedevo sempre perché qualcuno dovrebbe attaccare civili?”, specialmente quando queste azioni contribuiscono ad alimentare sempre più spargimento di sangue?

Questi incidenti non avvengono casualmente, ma sono una strategia coordinata dall’ “impresa” dei coloni radicali. I ministri Itamar Ben-Gvir e Smortich sono i loro comandanti nel governo. Hanno un obiettivo chiaro: far avanzare l’ideologia e le politiche dei suprematisti ebrei per scacciare i palestinesi dalle loro terre e costruire nuovi insediamenti illegali. Questa versione pericolosa e violenta dell’ebraismo è un giudaismo che né io né voi avete imparato crescendo>>, diceva rivolgendosi ai follower del suo profilo su “X-Twitter: <<Solo pochi giorni fa uno dei leader dei coloni, Elisha Vered, ha dichiarato che sputare sui cristiani è un’antica tradizione ebraica. Questa violenta e razzista versione dell’ebraismo è esattamente la stessa promossa da questo governo pericoloso, e non ci si può sorprendere se sotto il suo comando questo genere di attacchi sono cresciuti di dieci volte, portando a maggiore distruzione e morte. Se voi, come me, non ne potete più di questi attacchi, dovete stare dalla nostra parte a protestare per mandare via questo governo fascista>>.

 

Le sue posizioni, espresse sempre sul suo account “X” (attuale nome ufficiale di “Twitter”) sono radicalmente cambiate dopo l’attacco di Hamas, ringraziando per esempio il presidente Biden per l’appoggio incondizionato alla sua nazione. Probabilmente la sua posizione, un riflesso della recente ondata di proteste contro le limitazioni al potere giudiziario, è molto meno radicale di quanto possa sembrare a una prima lettura, e non ci sembra mettere veramente in discussione l’essenza colonialista di quella che molti definiscono una “vibrante democrazia”, ma soltanto l’ultima deriva ancora più autoritaria e a destra della sua storia.



 

Tuttavia le posizioni manifestate il giorno dopo l’attacco dall’organizzazione di cui fa parte, la citata “Breaking the silence”, risultano decisamente meno equivocabili: <<l’attacco di Hamas e gli eventi che si stanno succedendo da ieri non si possono descrivere a parole. Potremmo parlare delle loro azioni crudeli e criminali, oppure focalizzarci su come gli ebrei-suprematisti al governo ci hanno condotto fino a questo punto. Ma, come ex soldati israeliani, il nostro lavoro è parlare di quello che ci hanno mandato a fare>>, rompendo il silenzio, per l’appunto. <<Il nostro paese decise, decenni fa, che era disposto a rinunciare alla sicurezza dei suoi cittadini nei nostri villaggi e nelle nostre città, per mantenere il controllo su una popolazione di milioni di civili soggiogata, e tutto ciò per favorire un programma colonialista-messianico. L’idea di poter “gestire il conflitto” senza doverlo risolvere, ancora una volta, sta collassando davanti ai nostri occhi. Ha retto fino ad adesso perché solo pochi hanno osato metterla in discussione. Questi eventi dolorosissimi potrebbero portare un cambiamento. Devono portarlo. Per tutti noi dal fiume al mare>>, e cioè tra il fiume Giordano e il Mediterraneo.

 



L’APARTHEID GIUDIZIARIO: DUE SISTEMI PARALLELI


Dopo aver evidenziato la posizione di alcuni militari israeliani, fulcro di una società radicalmente fondata su guerra e colonizzazione più che sulla protezione, concludiamo con le parole di un attivista anarchico e antisionista israeliano.


Si chiama Jonathan Pollak ed ha animato “Anarchici contro il muro”, gruppo noto anche come “Ebrei contro i ghetti”, una formazione di libertari israeliani che si opponeva alla costruzione di barriere e alle strategie di apartheid, oltre a lavorare per il noto giornale “Haaretz”. Per la sua attività politica si è guadagnato le antipatie e le ire di governanti e fanatici, subendo attentati, carcerazioni che hanno danneggiato gravemente il suo stato di salute, e un’epilessia da trauma procuratagli da un proiettile di gas lacrimogeno a una manifestazione.

 

In un’intervista per il sito anti-autoritario Crimethinc” (pubblicata l’8 di Ottobre e intitolata “Una super-potenza nucleare e un popolo espropriato”), come premessa chiarisce l’accezione di alcuni termini che usa in quel contesto e che ricorrono quando ci si occupa della questione palestinese:

definisce Israele <<un progetto di insediamento colonialista>> e il sionismo come <<un movimento coloniale finalizzato alla supremazia ebraica>>, oltre ad affermare che <<sarebbe negligente ignorare la lunga storia della pulizia etnica di Israele, a partire da quelle attuata nel 1948 nota come Nakba>>. Anche Pollak, come Maté e altri storici israeliani, non ha remore a definire i processi di conquista israeliani come una “pulizia etnica (cogliamo l’occasione per segnalarvi nuovamente questo post in cui analizziamo la definizione affine a quest’ultima, e cioè quella di “sostituzione etnica”, tra l’altro usata dai tempi del nazismo fino ai contemporanei governanti italiani per evocare dei fantomatici complotti che sarebbero guidati da facoltosi ebrei, definizione confusa, anche grazie a delle traduzioni errate, con quella di “ricambio migratorio” usato in documento dell’ONU).

 

Nel primo giorno dell’attacco di Hamas, quando ha rilasciato l’intervista, spiegava che <<nel “mainstream” della società e dei media israeliani si è aperta una discussione sul compiere un genocidio a Gaza. Se questo non verrà prevenuto potrebbe infatti realizzarsi>>. Sempre nel preambolo dell’intervista continua a contestualizzare il ciclo ininterrotto di violenza collegandolo alla storia della lotta armata nel contesto dell’apartheid sudafricano: <<se chiediamo a palestinesi di non cedere alla violenza, non dobbiamo dimenticare la realtà che affrontano. Quando i palestinesi protestarono davanti alla barriera che li imprigiona a Gaza, nel 2017-2018, furono sparati e uccisi a centinaia. Le immagini che circolano adesso>>, ribadiamo che erano le prime ore dell’attacco di Hamas, <<sono raccapriccianti e scioccanti: non intendo minimizzarle, giustificarle o perdonarle, ma nel corso delle lotte, la via per la liberazione si apre quasi sempre verso delle svolte grottesche. L’African National Congress>>, il partito in cui Mandela ha militato prima di essere eletto , <<viene spesso celebrato come punto di riferimento, in maniera errata, da chi vuole argomentare che la violenza non ha nessun ruolo nelle lotte politiche. Ma dopo la creazione della sua ala militare, l’MK>>, noto anche come “Lancia della Nazione”, <<l’ANC non ha mai rinunciato alla violenza. Nelson Mandela rifiutò ciò anche dopo decenni di prigionia>>, e dopo l’offerta di essere scarcerato se lo avesse fatto. <<Il contesto di lotta qui è tra una superpotenza militare e nucleare e un popolo diseredato. Il colonialismo non cede e non farà un passo indietro di sua iniziativa, nemmeno se lo chiedi gentilmente. Il de-colonialismo è una causa nobile, ma nel percorso che porta a raggiungerlo è spesso brutto e macchiato di violenza. Nell’assenza di ogni realistica alternativa per ottenere la libertà le persone sono forzate a compiere azioni ingiustificabili. È una realtà fondamentale della disparità di forze. Chiedere agli oppressi di agire sempre nella maniera più pura è come chiedere loro di restare per sempre schiavi>>. Inoltre non è di secondaria importanza ricordare, a tal proposito, che anche Mandela era considerato dagli Stati Uniti come un terrorista.


L’ultimo calvario giudiziario che Pollak sta affrontando scaturisce da un presunto lancio di pietre contro una jeep militare in Beita, nella Cisgiordania, città <<che ha una lunga tradizione di resistenza al colonialismo israeliano. Era un centro di resistenza durante la Prima Intifada (1987-1993). Agli inizi del 1988, circa venti uomini da Beita e dai villaggi vicini furono identificati dallo Shin Bet, l’infame polizia segreta, e raggruppati dall’esercito. Vennero ammanettati ed ebbero le ossa spaccate dai soldati, usando pietre e bastoni. I soldati eseguirono un ordine diretto dell’allora Ministro della Difesa Yitzhak Rabin, che pubblicamente annunciò la politica di “spezzare loro armi e gambe”>>. Sempre quell’anno nello stesso villaggio la violenza di un colono fanatico condurrà alla morte alcuni palestinesi e anche una giovane adolescente israeliana, uccisa per errore, e per la cui morte fu diffusa la fake-news che ad ammazzarla erano stati dei palestinesi con delle pietre.

 

L’ondata di repressione sull’area è continuata per decenni, fino a una mattina di Gennaio, giorno dell’arresto di Pollack con l’accusa di assalto aggravato (il presunto lancio di pietre), resistenza e rissa. Dopo tre settimane di arresto preventivo viene rilasciato ai domiciliari per il suo stato di salute. Pollack, avendo passaporto israeliano, dovrebbe essere processato da un tribunale civile, e invece ha optato per essere processato da un tribunale militare: <<un meccanismo unico dell’apartheid israeliano, che non esisteva nemmeno in quello del Sud-Africa, consiste nella coesistenza di due sistemi legali paralleli: uno per i palestinesi e uno per i coloni ebrei. Quando si è accusati degli stessi reati, anche se avvenuti  nello stesso posto, allo stesso momento, e nelle medesime circostanze, si verrà processati secondo il sistema penale israeliano, mentre i miei compagni palestinesi si troveranno a fronteggiare il sistema penale militare israeliano, che riflette la realtà di una dittatura militare a tutti gli effetti. (...) Si sente spesso dire che il sistema è cattivo, ma non razzista, dato che la distinzione avviene sulla base della cittadinanza. Quest’affermazione è falsa. C’è una minoranza di palestinesi, il 20% di quelli che vivono nelle aree occupate da Israele nel 1948 e che hanno la cittadinanza israeliana (a differenza dei palestinesi nella Cisgiordania e di Gaza, che vivono sotto il suo controllo come cittadini senza cittadinanza): un fatto poco conosciuto sulle corti militari è che pure i palestinesi che hanno cittadinanza israeliana a volte vengono processati da corti militari della Cisgiordania. Il nocciolo della questione è semplice: sono stato incriminato da una corte di civili perché lo stato mi considera ebreo, ma se fossi stato un palestinese con la cittadinanza israeliana, probabilmente sarei stato processato da militari. Il sistema è basato su fondamenti etnici e religiosi. Le stesse leggi sono diverse, in fatti la legge militare è un insieme di decreti diramati dal comandante militare dell’area. Uno di questi, per esempio, vieta ogni assemblea di 10 o più persone che abbia natura politica, anche in una proprietà privata, con una pena che arriva a 10 anni>>.

 

Pollak, che rischia un massimo di 10 anni (sarebbero stati 5 se giudicato dalla corte di civili), oltre a dichiararsi innocente e vittima di accuse inventate, non riconosce la legittimità del tribunale che lo giudica in quanto espressione diretta di un sistema etnocentrico.

 

Da anarchico convinto ha scelto di pagare un prezzo, <<non paragonabile>> a quello dei suoi compagni palestinesi, ha scelto di rinunciare ai suoi “privilegi” per dedicarsi a una causa più nobile, quella di un popolo oppresso, e crede che ovviamente le istanze di questo vanno appoggiate ma non dirette vestendo i panni dei <<salvatori bianchi>>.

 

GLI EBREI E IL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE PALESTINESE, GLI “OCCIDENTALI” E LA DECOLONIZZAZIONE CULTURALE

 

In un’altra intervista, rilasciata a Febbraio a +972 Magazine” (realizzata da Oren Ziv e intitolata “La trama per mettere dietro le sbarre un israeliano anti-sionista”), parlava ancora della lotta contro l’apartheid in Sud-Africa e del ruolo che gli ebrei dovrebbero avere in quella palestinese: <<quando i bianchi sud-africani si opposero all’apartheid, da minoranza si unirono all’ANC -e alcuni impugnarono pure le armi- nella lotta per rovesciare il regime e il colonialismo. La stessa cosa avviene in Palestina: per unirci alla lotta davvero e per rovesciare l’apartheid, i pochi ebrei coloni che sono interessati in ciò dovranno uscire allo scoperto contro il regime coloniale, e non solo contro questo o quel sintomo di esso. Dobbiamo cercare una via all’interno del movimento di liberazione palestinese, sapendo che gli ebrei devono essere una minoranza al suo interno, e che solo così, tramite un capovolgimento degli equilibri di potere, possiamo lavorare per una vera eguaglianza e per la liberazione>>.

 

In sostanza, la lezione che credo di aver imparato e “fatto mia” dall’esempio e dalle parole di Pollak, consiste nel fatto che noi “privilegiati” e “occidentali” dobbiamo diventare i migliori alleati di tutti gli oppressi del pianeta cominciando dal denunciare e a contrastare le diverse forme di colonialismo che esportiamo da secoli. Dobbiamo lottare insieme, senza guidare nessuno ma assecondando le istanze dei popoli oppressi, e pareggiando così gli squilibri di potere che derivano dai nostri “privilegi”, imparando insieme e sperimentando processi auto-gestionari e orizzontali, non gerarchici. Dobbiamo rinunciare a quei “privilegi” che non sono strettamente necessari a una sopravvivenza decente, a partire dal nostro tempo, ridistribuendoli e continuando a lottare insieme a tutte le genti oppresse, a mettere in crisi le dinamiche socio-economiche alla base dei vari tipi di sfruttamento, creando e ingaggiando vari tipi di “conflitto” (che fortunatamente non è sempre e necessariamente un conflitto “armato” o violento, che dovrebbe essere solo un’ultima e inevitabile risorsa), non accontentandoci mai di quello che si ottiene perché <<l’imperfezione è una costante, ma noi continuiamo a lottare, trasformando ogni vittoria in sconfitta e poi ancora in lotta, ogni volta>>, tendendo perennemente verso “l’utopia” e costruendo concretamente un esistenza degna di essere vissuta per tutt*.

 

Foto di un corteo in favore della Palestina. Sullo striscione si legge: non c'è pace sotto occupazione, Palestina libera

Paolo Maria Addabbo aka Anarcopacifista

 

Vi ringraziamo per lo sforzo che avete fatto ad arrivare fin qui: non è secondario nell'epoca dei contenuti mediatici e giornalistici da consumare in fretta e voracemente, come se fossero "cibi spazzatura" sfornati in serie dal "fast-food" delle notizie. Anche l'impegno "artigianale" richiesto per scrivere approfondimenti e articoli in stile "slow journalism" richiede molte energie, oltre alla vostra preziosissima attenzione: per questo vi invitiamo a seguire i vari canali "alternativi" come il nostro e come quelli citati e linkati nell'articolo, a dedicare più tempo a essi che ai classici media mainstream, e vi chiediamo di supportarci chiedendoci delucidazioni su quanto scritto, commentandoci, criticandoci, apprezzandoci e avviando dibattiti nei commenti qui sotto, sui "social asociali" e sui social alternativi (siamo anche nel "fediverso" con un profilo Mastodon), e idealmente anche di persona...

Vi salutiamo allegando, come di consueto, una citazione musicale in linea con quanto scritto: si tratta di "Palestine" del giovanissimo rapper di Gaza "MC Abdul", che fonde il suono del rap old-school statunitense con le istanze, la rabbia e il dolore del popolo palestinese, mentre sullo sfondo del video non ci sono grattacieli e città avveniristiche, ma rovine...


foto di una manifestazione per la Palestina: un manifestante sventola una "doppia bandiera", quella arcobaleno della pace e quella palestinese

foto di una manifestazione della Palestina: i manifestanti espongono una gigantesca bandiera palestinese

una manifestante a un corteo per la Palestina mantiene un cartello che recita: "un olocausto non ne giustifica un altro"


Oltre a questo alleghiamo anche due delle varie (e comunque troppo rare a nostra detta) "intrusioni" di Moni Ovadia nel panorama televisivo italiano (rispettivamente a "L'aria che tira" un anno fa e a "Piazzapulita" un mese fa) in cui parla in maniera molto accesa e schietta delle guerre più note in corso e, più in generale, dell'ipocrisia del cosiddetto ordine internazionale. 

Infine "incorporiamo" anche il suo lungo intervento a "L'Asilo" dello scorso Giugno.

 

 












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