18.2.22

Cos’è “Fanrivista, La Fanzina Generalista”?!?!

Sieti giunti in questa amena nicchia immersa nelle fitte ragnatele del cyberspazio, e avete trovato questa “web-zina”, benvenuti!

Questa rivista online, una sorta di “blogzina” o “rivinzina”, si sforza di coniugare il carattere artigianale e informale della galassia delle “fanzine” e dei blog[1] con gli standard giornalistici ed editoriali più tradizionali che caratterizzano la stampa generalista, posizionandosi a metà strada tra i concetti di autonomous-publishing e self-publishing.

Ancora non vi è chiaro in cosa consiste questo progetto?! Certo, ho appena iniziato a spiegarlo ed è abbastanza atipico, lo stesso titolo può risultare contraddittorio (mi riferisco all’accostamento della parola “fanzina” all’espressione “testata generalista”)… Allora entriamo nel merito della questione partendo da alcune definizioni…

Fanzine, webzine e media generalisti

Le fanzines (note anche come zines) nascono come pubblicazioni amatoriali e autoprodotte, di solito realizzate e riprodotte con mezzi ridotti e con una tiratura molto limitata (talvolta scritte pure a mano e fotocopiate o ciclostilate) destinate a un pubblico settoriale come appassionati o “fan” di un genere artistico, ai tifosi di una squadra sportiva, ai militanti di una formazione politica, agli appartenenti di una comunità “sottoculturale”, locale, scolastica o riconducibili all’espressione di singole individualità (in quest’ultimo caso si possono definire perzines, ossia personal zines). Le versioni digitali delle fanzines possono quindi strutturarsi sia come la loro trasposizione in un formato digitale (si parla in questo caso di e-zines, abbreviazione di electronic magazines) che come dei siti web veri e propri (chiamati web-zines, ossia web magazines, o anche blog-zines a seconda della forma specifica assunta). Capita anche che questo genere di pubblicazioni si professionalizzi, andando a costituire delle pro-zines, ossia dei magazine professionali, cosa che per molti andrebbe a snaturare l’intento di sganciarsi dalle logiche “mainstream” comuni ai fenomeni e movimenti contro-culturali.

In foto una serie di copertine di fanzines propriamente dette e altre pubblicazioni affini

I media generalisti invece, che siano canali televisivi, riviste, un sito o un portale web, trattano argomenti svariati, non concentrandosi dunque su una singola tematica e non essendo diretti a un pubblico specifico.

Autoproduzioni: tra Autonomous publishing e Self-publishing

La natura ibrida di questo (auto)-“prodotto” è determinata dal carattere miscellaneo che oscilla tra formale e informale, tra editoria classica e indipendente, seppure con una maggiore enfasi verso il mondo delle autoproduzioni e dei cosiddetti media alternativi.

Si parla di autoproduzioni quando uno o più autori di un libro, di una fanzine ecc., pensano a un’opera e ne curano sia la fase di editing che quella della sua diffusione. In questo ambito si può parlare di autonomous publishing quando l’intento principale è quello di creare contenuti al di fuori dei media e delle logiche del mercato dominanti con uno scopo politico, finalizzato alla <<riappropriazione intellettuale e ri-presa dei mezzi di produzione editoriale>> oltre che alla <<soddisfazione dell’urgenza narrativa e creativa dell’autore>>.

Immagine liberamente tratta dalla
copertina di un opuscolo del
BORDAfest realizzata da Federico Fabbri
Oppure si parla di self-publishing quando l’atto auto-produttivo è orientato verso la riproduzione di forme e <<contenuti riscontrabili nel mercato mainstream dell’editoria>>[2]: in altre parole quando si auto-producono contenuti pensati per il mercato editoriale “classico”, o che possono essere usati come trampolino di lancio per entrarvi.

Il progetto di questa rivista online rifugge schemi, consuetudini e preclusioni di ogni sorta, non escludendo a priori contenuti “conformi” a quelli delle pubblicazioni tradizionali, ma nemmeno privilegiandoli o favorendoli a scapito della libertà comunicativa dei suoi creatori e della loro indipendenza “materiale” ed economica: anche per questo Fanrivista si situa a metà strada tra i concetti di Autonomous e Self Publishing.


Pubblicazione fluida e indefinita

La tendenza editorialmente ibrida e, per così dire, “publishing  fluid”[3] de “La Fanzina Generalista” si ricollega anche al rapporto tra pubblicazioni cartacee, digitali e multimediali, al desiderio di non fossilizzarsi solo su un tipo di pubblicazione, contenuto o argomento. L’indeterminatezza del progetto, dal punto di vista contenutistico e del formato, è voluta e permette di essere sempre aperti a nuovi partecipanti e spunti, aspirando a una libertà massima nel campo giornalistico, artistico e mediatico in generale. La Fanzina generalista cerca di non appiccicarsi etichette omologanti  e cerca di sfuggire a logiche potenzialmente negative per la possibilità di esprimersi in maniera libera, sincera, trasparente e indipendente … A cominciare dalla logica del profitto economico fine a sé stesso e da quella della crescita “infinita” del volume di vendite in ambito pubblicistico ed editoriale, collegate a loro volta a una serie di dinamiche che si cercherà di escludere da queste pagine virtuali … Come, per l’appunto, la creazione di un contenuto “ingabbiato” dai canoni e dai limiti imposti da un tipo specifico di media o di pubblicazione; oppure la preoccupazione di pubblicare qualcosa prima di altri o comunque troppo in fretta, a scapito dell’accuratezza di un contenuto; e ancora come la lunghezza minima o massima di un contenuto, che sia un articolo, una poesia o un video (e dunque sui tempi medi di lettura da rispettare, prendendo come riferimento articoli e scritti).

Tra le varie norme più o meno implicite dell’ambito comunicativo-editoriale, la preoccupazione maggiore è probabilmente quella  di raggiungere il maggiore numero di “utenti”, di “consumatori” possibile. Personalmente preferisco invece concentrarmi sul problema dell’effettiva “interazione sociale” (e non tanto, o comunque non solo, nel senso di quella sui“social network”), sulla possibilità di costruire una “comunità” effettiva, e quindi sulla partecipazione attiva e sul coinvolgimento reale di altre persone, non solo virtuale e limitato alla fruizione di un “prodotto”.


           

Da giornalista precario ho sempre avuto fisso un obiettivo comunicativo in mente: per me una comunicazione di successo non significa necessariamente arrivare a quante più persone possibile: magari è meglio arrivare a pochi, ma con questi pochi condividere affinità e costruire qualcosa insieme. Un messaggio contenuto in  uno scritto o in un video potrebbe arrivare solo a poche persone, ma per quelle poche persone potrebbe essere essenziale, originale, prezioso o più apprezzato quando confrontato con quello di ad altri oggetti mediatici mainstream, convenzionali o virali.

Senza voler cedere a inclinazioni settarie, intransigenti e auto emarginanti, le interazioni  di cui tenere conto non sono dunque solamente, o comunque principalmente, quelle che intercorrono tra le pagine web e immortalate nelle statistiche (tanto care e preziose per chi si occupa di marketing e di SEO[4]) .

L’obiettivo principale è cercare quindi di lasciare i contenuti (testuali, grafici, ecc.) quanto più possibile liberi, originali, non omologati e anche atipici, con l’unico limite dell’onestà intellettuale e dell’anelito all’obiettività, cercando di usare questo media per delle relazioni più autentiche e “vissute”, anche se su una scala numerica immensamente inferiore a confronto di quella di media generalisti “veri e propri”, quelli convenzionali. I contributi più importanti che ciascuno di voi possono dare sono quelli di commentare (anche negativamente, ma cortesemente sempre in maniera educata e senza insultare), di mandare segnalazioni, correzioni, nuove idee e richieste di partecipazione al progetto a qualunque titolo (oltre a leggere ovviamente, e intanto grazie di essere arrivati fino a qui, in questo post introduttivo).

Questo progetto vuole e potrà essere (anche a seconda del tipo di contenuto, della volontà degli autori e degli sviluppi futuri del progetto) una rivista multimediale, una rivista online, una fanzine, una “valvola di sfogo” creativa e politica, un luogo cyber spaziale di recensione e critica artistica e di saggistica più o meno inconsueta, un portale per la pubblicazione di notizie “alternative” a quelle dei media tradizionali (o a commenti ed approfondimenti atipici delle notizie mainstream), oltre che a una fusione dei vari tipi di pubblicazioni e quindi un “prodotto” editoriale meticcio.

Media alternativi, inclusivi e resistenti

Spesso si usano espressioni come media indipendenti, media liberi, media radicali, media autonomi, stampa o informazione alternativa e contro-informazione: per ragioni di sintesi, facendo una semplificazione che potrebbe risultare una forzatura, userò l’espressione “media alternativi[5] ”, tentando di enunciarne i caratteri costitutivi e di darne una definizione[6] che, però, non è da intendersi in maniera rigida: non potrebbe esserlo perché questo concetto, come altri legati all’attività creativa, sfugge a una precisa delimitazione semantica ed è legata a fattori soggettivi; inoltre la difficoltà nel tentativo di fornire una definizione univoca è intrinsecamente connessa alla potenziale relatività di ciò che si considera “alternativo” e di conseguenza opposto a quanto ritenuto dominante (o per dirla all’inglese, mainstream). Il concetto di alternativo, per quanto concerne la fede politica e l’identità sociale, si oppone a ciò che è egemonico. Per questo i media alternativi si possono distinguere da quelli predominanti sia sul piano contenutistico che su quello delle modalità della produzione dei contenuti e della sua organizzazione. Considerando i concetti di egemonico e alternativo (o contro-egemonico) non come due blocchi monolitici, è anche possibile che i primi condividano o riprendano strategie comunicative o medesime visioni e argomenti dei secondi, e viceversa, mirando a costruire o consolidare una nuova egemonia mediatica sincretica e perciò potenzialmente contraddittoria. Fatta questa precisazione sulla possibile labilità del confine “alternativo-egemonico”, consideriamo adesso i due campi come semplicemente contrapposti, per esigenze esplicative: i media alternativi  sono tali, sul versante dei contenuti, perché questi ultimi sono trascurati (se non addirittura censurati e oscurati) da quelli maggiormente commerciali, tradizionali e affermati. Rappresentano la voce degli ostracizzati, delle minoranze, fanno da megafono alle loro istanze e forniscono uno spazio per discussioni che altrimenti non esisterebbero o sarebbero ancora più minoritarie: questo perché certi temi (o alcuni aspetti di questi) non sono presenti nell’agenda di entità come governi, aziende, partiti, ecc., in quanto ritenuti“scomodi”… Oppure perché non vengono considerati redditizi per il mercato mediale, dato che richiedono maggiori sforzi di riflessione e tendono ad attirare l’attenzione del “pubblico-consumatore” in misura minore o in maniera non immediata: perciò sono meno “commerciabili” e, di riflesso, solitamente questo tipo di argomenti (così come la forma con cui sono esposti) risultano meno consueti, senza filtri altri da quelli intrinsecamente connessi all’attività diretta degli autori.

In maniera analoga a quanto esposto nel precedente paragrafo sulle “autoproduzioni”, l’urgenza che i mezzi di comunicazione alternativi vogliono soddisfare è legata alla voglia di impegnarsi in una comunicazione che si concretizza in forme di partecipazione attiva alla vita sociale. Fare informazione, arte o intrattenimento, redigere contenuti saggistici, produrre podcast o video e così via, si configurano come forme di attivismo dal basso, contrapposte alle attività politiche ed economiche del ceto dirigente: non a caso si parla a tal proposito di mediattivismo, pratica di impegno politico-sociale che non mira al ritorno economico se non per la sussistenza degli stessi progetti e degli attori che li portano avanti.

Probabilmente il punto maggiormente debole di questo attivismo mediatico è proprio il modello economico che, nel mercato della competizione esasperata, ne mette a rischio la sua stabilità e il suo perdurare: i media alternativi si reggono solitamente su modelli “zero-base-budgeting” o tendenti allo zero che garantiscono l’indipendenza dai potentati poltico-economici. Sono portati avanti da enti no-profit o da attivisti che lavorano gratis o quasi (lavoro che talvolta è potenzialmente sfruttabile dalle grandi imprese mediali), contando principalmente sull’apporto di donazioni e raccolte fondi. I sussidi statali e le pubblicità, quando potenzialmente disponibili, sono visti con sospetto in quanto potrebbero minacciarne l’autonomia e la credibilità nei confronti del pubblico: oltre al supporto strettamente economico che questo può dare tramite le donazioni, il suo coinvolgimento dal punto di vista delle “energie”(quelle da impiegare per la produzione di contenuti e per attivare un confronto), costituisce un asset fondamentale e proprio di un modello economico “alternativo”, quello dell’economia del dono (oltre che della partecipazione attiva, di cui si parlerà meglio fra poche righe). Generalmente le iniziative promozionali, se presenti, sono sostenute da attori appartenenti al circuito mediale o sociale alternativo. L’assetto proprietario (quando è formalizzato) è principalmente di tipo collettivo (per esempio nella forma di cooperative), in linea con una visione collettivizzata dei mezzi di produzione intellettuali, e con maggiori garanzie di indipendenza e democratizzazione della creazione e del controllo dei contenuti (dunque in contrasto con impostazioni monopolistiche, oligopolistiche e verticali). Anche i canali di distribuzione e di diffusione sono per lo più “di nicchia”, come librerie indipendenti di modeste dimensioni, le fiere delle autoproduzioni, siti web e canali social solitamente sconosciuti al grande pubblico...

Non meno importante nel definire l’alterità dei media “non egemonici” è l’aspetto organizzativo: questo è improntato su modelli di vita e lavorativi anticonformisti, su modelli gerarchici inesistenti oppure orizzontali in cui il potere è meno accentrato e più diffuso, e dunque fondato sul paradigma dell’ autogestione (l’acronimo DIY, ossia Do It Yourself è uno slogan molto diffuso di questo modello). I produttori di contenuti possono essere persone con una formazione professionale tradizionale così come da autodidatta e amatoriale. Di norma il confine tra i ruoli diventa sfumato, comportando la sovrapposizione o un netto capovolgimento di essi: non è detto che siano delineati i compiti di produttori e consumatori[7] e comunque il coinvolgimento dell’”audience” nella fase produttiva, a diversi livelli, diventa cruciale e tendenzialmente non verticistico. Ovviamente, a proposito dei compiti all’interno di una struttura editoriale “informale” più “delineati”, è possibile (se non auspicabile) che ci sia una rotazione di questi, in maniera affine al principio di rotazione delle cariche e a paradigmi autogestionari.

Bisogna inoltra considerare anche casi eccezionali come i media indipendenti prodotti da singoli per obiettivi principalmente personali (come alcune “single-person zine” e i contenuti realizzati con un’impostazione politico-programmatica individualista) , oppure i media considerabili “alternativi” nei contenuti ma che si configurano come “tradizionali” nella struttura organizzativa.

Concludendo questo paragrafo è importante menzionare due obiettivi ambiziosi di Fanrivista connessi al tema del “capovolgimento dei ruoli” tra produttori e fruitori (si pensi a titolo esemplificativo al “citizen journalism”) di contenuti (in particolare le notizie di stretta attualità) e dunque della “de-professionalizzazione” di certe figure (come quella del giornalista): il primo è il desiderio di creare una “comunità” di lettori-produttori-attivisti ed è legato al tema della partecipazione attiva; il secondo proposito, non meno significativo e impegnativo, riguarda il lato prettamente giornalistico (di cui si parla più ampiamente nel prossimo paragrafo), e consiste nel porre l’attenzione sui meccanismi “professionali” della creazione e divulgazione di contenuti di cronaca, cercando di “emancipare” maggiormente chi legge una notizia o guarda un video, oppure si cimenta a sua volta nella loro creazione… 
















In poche parole: si vuole rendere più indipendenti tutti, sia nella ricezione di contenuti sia, eventualmente, nella produzione di essi. Partendo da un esempio pratico, pensiamo al tema delle “fake news”: molte di queste divengono particolarmente diffuse proprio perché le capacità di verifica e di lettura critica delle fonti sono insufficienti (cosa meno logica e perdonabile per me e i miei colleghi giornalisti). Anche per questo è importante non solo non “de-professionalizzare” i giornalisti, ma fornire un’adeguata preparazione sulla verifica dell’attendibilità di un fatto, su come usare i motori di ricerca, e così via, a quante più persone possibile, e quindi diffondere più sapere a chi è meno “addetto ai lavori”, e “professionalizzarlo” almeno a un livello minimo. Così si crea anche un maggiore e fruttuoso coinvolgimento, fondamentale anche per chi è formalmente incaricato di svolgere professioni nel campo esteso della comunicazione, oltre a un maggiore livello di controllo collettivo sulle informazioni.

Giornalismo indipendente o militante?!

La linea editoriale di Fanrivista si focalizza sul dare sempre preminenza al contenuto rispetto che alla forma. Nella cronaca ciò si attua concentrandosi sulla verità sostanziale dei fatti, separandola dalle opinioni e convinzioni personali. Esprimerle, a mio dire, è però segno di obiettività perché si da la possibilità di far formare al pubblico il proprio giudizio non solo sui fatti raccontati, ma anche su chi li racconta e sul suo punto di vista. Sono fortemente convinto che il giornalista deve essere militante, senza nascondere le proprie idee, facendo scelte più o meno “faziose” e consapevoli (a cominciare dalla selezione di notizie o contenuti da pubblicare a scapito di altri) che riflettono la propria visione del mondo, filtrata attraverso le sue esperienze e convinzioni. Al contempo il giornalismo (così come l’attività editoriale in senso più ampio) deve essere indipendente da logiche meramente commerciali, potentati economici o entità politiche, e deve essere inoltre connotato dalla capacità di mettere in discussione anche sé stessi e dall’apertura al dubbio, rifiutando dogmi e verità precostituite … A mio avviso è, non solo possibile, ma anche auspicabile una “fusione” tra giornalismo indipendente e militante, e non contraddittoria come pure si pensa, anzi: il giornalismo per essere indipendente deve “mettere a nudo” non solo le proprie opinioni, preferenze e pregiudizi, ma anche i propri limiti, il proprio essere fallibile, il fatto di mettersi in discussione: fare informazione in questa maniera, oltre ad assolvere il compito primario e “asettico” di  narrare dei fatti nella maniera più oggettiva possibile (o di provare a ricostruirli), permette anche di agire in maniera consapevole e aperta sul contesto sociale. Il giornalista (e più in generale il “comunicatore”) deve essere indipendente perché è “cane da guardia” del potere, ma deve guardarsi bene anche da come usa il suo potere (anche se talvolta molto ristretto) e a come lo usano i singoli e i gruppi sociali (e alle interazioni che intercorrono tra i due). Mettersi in dubbio, essere critici anche di sé stessi, tendere sempre quanto più possibile verso l’obiettività, essere aperti alla possibilità di dire che ci si era sbagliati, garantire massima disponibilità per il confronto (anche duro ma mai sleale) con posizioni divergenti o in qualche modo “diverse” ed essere intellettualmente onesti verso la collettività: sono tutte prerogative imprescindibili per chi fa informazione!



Per adempiere al comandamento del rispetto della verità sostanziale dei fatti è necessaria la devozione verso la sincerità e la Verità, con la consapevolezza che a volte la verità non è “unica” e con il conseguente rispetto incondizionato delle sfumature che essa può assumere.


Meglio molti media decentralizzati che pochi centralizzati e omologati … Meglio ancora cercare di federarsi in network di informazione indipendente!



Qualcuno di voi potrebbe pensare che questa sia l’ennesima webzine di controinformazione, di matrice “anarcoide”, o più genericamente “di sinistra”, che finirà per alimentare l’overloading informativo e la frammentazione all’interno dell’editoria alternativa (e in senso più ampio anche la disorganicità di quei soggetti che hanno obbiettivi e visioni comuni su determinati aspetti sociali, anche se non completamente allineati)… Probabilmente in un certo senso è anche ciò, ma il punto è proprio questo: non credo sia un male l’esistenza di tante “nicchie” (informative e anche “sociali” in senso lato) che garantiscono il pluralismo dell’informazione e che invece di accentrare il potere (in questo caso informativo e comunicativo ma, in generale e in senso lato, “sociale”) tendono a diffonderlo più equamente … Tuttavia ritengo necessario che le varie “nicchie” debbano collaborare tra loro “facendo rete”, vivendo liberamente i propri spazi fisici e comunicativi, ma non concentrandosi sulla “coltivazione del proprio orto” o sulla costruzione di una chimerica “isola felice”, ricercando l’unione nella diversità. È fondamentale cercare di evitare il rischio di auto-isolarsi e rinchiudersi in un ghetto culturale alternativo (o peggio ancora percepito come tale ma che alternativo in realtà non è): per questo devono essere combattute le tendenze settarie e si deve migliorare non solo la capacità di produrre contenuti ma anche quella di ascoltarsi a vicenda, espandendo le possibilità di confronto e di processi dialettici. Se così non fosse si correrebbe anche il rischio di <<sviluppare iniziative psicologiche “fai da te” senza una rilevanza politica che assomigliano più a espressioni personali borghesi e individualiste invece che a progetti per un cambiamento politico>>[8].

Altri intenti programmatici di questo progetto

Per quanto riguarda l’attualità e la cronaca, Fanrivista vuole concentrarsi su argomenti tralasciati o meno “coperti” dai principali mezzi di comunicazione: sarebbe inutile riportare fatti già ampiamente trattati da altri o, peggio, notizie riprodotte in maniera acritica e quasi “fotocopiate” partendo da comunicati e lanci delle agenzie di stampa … A meno che non si senta il bisogno di raccontarli da prospettive diverse o si voglia porre l’attenzione su aspetti specifici che non trovano spazio altrove. Uno di questi aspetti, al quale si è già fatto cenno nel paragrafo sui media alternativi, è quello riguardante i processi espositivi delle notizie e l’uso critico delle fonti.

La preoccupazione di fare “grandi” numeri, ossia di raggiungere quanti più lettori possibili a scapito di indipendenza e di un approccio critico alla complessità della realtà, è assente … E comunque, se pure si volessero accettare le restrizioni imposte dall’onnipresente entità del “Mercato”, l’epilogo sarebbe quello di venirne schiacciati o fagocitati (senza nulla togliere a chi può ottenere un vastissimo pubblico non accettando “compromessi” o senza rivolgersi “alla pancia” del pubblico, magari con toni senzazionalistici: beati loro e complimenti!). Per quanto riguarda le rubriche di altri argomenti e diversi tipi di contenuti sarà lasciata la massima apertura: indefinito non vuol dire necessariamente caos o dispersione, ma può significare eclettismo, visioni più ampie e libertà di affrontare tutti i campi del sapere e puntare al coinvolgimento attivo e al dialogo con diverse realtà sociali ... Questa “fanzina” è generalista non per “acchiappare” quanti più utenti possibili, non è “acchiappa tutto”: è “generalista” perché è versatile e si sforza di capire “il tutto” di cui fa parte, cercando di includere “tutti” quelli che vorranno farne parte …

In termini materialisti-economici, l’approccio utilizzato si caratterizzerà per un’offerta di contenuti artigianali e “slow-news”, che riflette la visione di un mercato non “industrializzato” e omologato, basato su esigenze di “piccola scala”.

Per mantenere la propria coerenza bisognerà sempre accettare il rischio di essere “marginali”, senza tradire la propria fede politico-sociale in nome di un potenziale successo “numerico” (dal punto di vista dell’audience) potenzialmente raggiungibile, ma effimero se si cerca un costante miglioramento e cambiamento di sé stessi e del Mondo … In altre parole: se c’è il bisogno di coinvolgere nuovi lettori-attivisti o simpatizzanti, bisogna farlo senza mai accettare i compromessi che in cuor nostro riteniamo ingiusti e sviluppando logiche alternative a quelle che attualmente dominano la produzione e distribuzione dei “prodotti” editoriali.

Il motto è (parafrasando Marx): guadagnare scrivendo per sopravvivere, ma non vivere per guadagnare scrivendo. Ciò significa puntare alla sopravvivenza del progetto e dei suoi partecipanti piuttosto che a “espandersi” commercialmente: l’ “espansione” deve avvenire a livello ideologico, morale, spirituale e sociale, non l’espansione di capitale “infinita” propinata dal modello capitalista. I modelli a cui guardare sono quelli dell’economia del dono (non principalmente donazioni economiche, ma soprattutto donazione delle proprie energie e del proprio tempo nel creare contenuti o nel confronto dialettico-critico su questi), dell’economia collaborativa, della “decrescita”, del mutualismo…

Inoltre il passaparola, il contatto “faccia a faccia” (anche a distanza quando non è possibile “in presenza”) con lettori e collaboratori (o lettori-collaboratori e attivisti) verrà privilegiato rispetto ad altri strumenti come i social network tradizionali.

Anche la possibilità di includere contenuti pubblicitari o altri tipi di finanziamenti dovrà essere valutata attentamente, e considerando solo ipotetici sponsor o partner che non precludano l’indipendenza e che siano affini o compatibili con l’universo “alternativo” (in maniera analoga a quanto già espresso nel paragrafo sui media indipendenti).

Per adesso il modello organizzativo di Fanrivista è tendenzialmente quello di una “single-person zine”, dato che è portata avanti dal suo fondatore e proprietario (nonché redattore, webmaster, grafico ecc.) ma, via via che altri si uniranno attivamente, tutte le decisioni (incluse quelle su cambiamenti della forma amministrativa del progetto oltre che quelle sui contenuti e sulla linea editoriale) saranno prese tramite lo svolgimento di assemblee/riunioni che dovranno tendere al raggiungimento dell’unanimità e all’inclusione, con una suddivisione del lavoro equa e con incarichi a rotazione.

C’è qualcosa che non vi è chiaro in questo post di presentazione? C’è qualcosa di interessante o ritenete che alcuni concetti siano solo baggianate senza senso? Considerazioni sui massimi sistemi della comunicazione e della società o qualunque altra cosa? Suggerimenti? Interagiamo tramite commenti o sui social che vi hanno fatto giungere qui o mettiamoci d’accordo per incontrarci di persona (o via video-chat se la distanza fisica ce lo impedisce), sarà un vero piacere, oltre che aspirazione tanto fondamentale quanto ambiziosa del “La Fanzina generalista”! Potete anche scrivere alla casella di posta elettronica: redazione@KIOCCIOLA@fanrivista.it

Grazie di essere arrivati fino a qui e di avermi donato la vostra preziosissima attenzione!!! 💚


[1] A proposito dei blog mi riferisco al carattere artigianale e più personale che caratterizzavano particolarmente i blog delle origini. Per approfondire il tema della differenza tra blog e fanzines consiglio la lettura degli articoli: Zines Are Not Blogs: A Not Unbiased Analysis, Jenna Freedman, 2005;  Are Zines Blogs?, Jenna Freedman, 2005

[2] Cfr. e cit. Autonomous Publishing To Fight Capitalism presente sul sito del festival BORDA!Fest, 2019

[3] Si parla di “gender fluid” a proposito dell’identità di genere non statica di alcune persone; l’espressione “publishing fluid” è quindi usata, in questo contesto, per indicare che questo progetto non deve essere identificato in maniera rigida come un portale web di informazione generalista, né come un magazine online, né come una fanzine cartacea ecc., ma piuttosto come un insieme di vari tipi di pubblicazione, come un qualcosa a sé o come qualcosa che cambia a seconda del contenuto pubblicato.

[4] Ritengo che l’attenzione spasmodica per la strategie SEO (acronimo di Search Engine Optimization, ossia le pratiche da adottare per piazzare i contenuti del proprio sito in cima alla lista dei risultati dei motori di ricerca) sia deleteria per l’informazione quando l’importanza di essere nei primi risultati diventa preminente rispetto all’argomento trattato. Del resto anche la guida del più noto motore di ricerca, Google, afferma che la cosa principale da tenere in considerazione, insieme all’importanza di creare contenuti originali, è l’utente: <<sforzarsi eccessivamente di realizzare modifiche per raggiungere determinati posizionamenti nei motori di ricerca potrebbe non portare ai risultati sperati. L’ottimizzazione per i motori di ricerca consiste fondamentalmente nel presentare il proprio sito nel miglior modo possibile tenendo conto della sua visibilità nei motori stessi, ma ricordate che i vostri clienti finali sono gli utenti, non i motori di ricerca>> cfr. e cit. Guida introduttiva di Google all’ottimizzazione per i motori di ricerca (SEO), consultata il 16 Febbraio 2022.

[5] A titolo esemplificativo, sono considerabili media alternativi le piattaforme di giornalismo partecipativo, le piattaforme di whistleblowing , i siti web di teorici del complotto e professionisti delle fake news, i siti web e i canali social (in particolare i social del cosiddetto Fediverso, che a sua volta è una rete comunicativa alternativa) di attivisti o dissidenti, le radio libere, le pubblicazioni delle case editrici “di nicchia”, i giornali murali, le già menzionate fanzines (ovviamente!) e così via … Le forme in cui possono declinarsi sono dunque svariate oltre che potenzialmente contraddittorie e controverse.

[6] Bibliografia di riferimento e approfondimento di questo paragrafo:

Approaching alternative media: theory and methodology, Chris Atton, 2001, SAGE Publications ;

Alternative Media, Chris Atton, 2002, SAGE Publications;

Alternative Media as Critical Media, Christian Fuchs, 2010, European Journal of Social Theory;

Radical Media in Democracy, Social Movements, and Dance as Radical Media, Mary Kenefake, 2011, MIT Center for Civic Media;

Media alternativi nell’era digitale: istanze di alterità tra mediazione e spettacolo, 2013, Maria Francesca Murru, Mediascapes journal.

[7] Si usano infatti espressioni come “prosumers”, “produsers”, “prosumption” e “produsage” che riflettono tendenze in via di affermazione anche nei mezzi di comunicazione tradizionali (con modalità meno inclusive e su diversa scala) legate ai meccanismi di disintermediazione.

[8] Cit. Fuchs, 2010, p.189 (trad. mia)

 

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