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13.10.24

COME FERMARE COMMERCIO E TRAFFICO DI ARMI?!

OSSERVARE PER DENUNCIARE E DISUBBIDIRE: DALLA NASCITA DELL'"OSSERVATORIO DELLE ARMI NEI PORTI EUROPEI E MEDITERRANEI, THE WEAPON WATCH" AL RUOLO DELLA NATO E DEL COMPLESSO MILITARE-INDUSTRIALE, PASSANDO PER LA TRABALLANTE "LEGALITÀ INTERNAZIONALE"

Sullo sfondo si intravedono e si affastellano delle tabelle e un digramma a torta. Su di esse si intravedono scritte evidenziate come "Israele", "bombe, munizioni, software" e "documento interno della decima legislatura. Al centro una pila di banconote da 50 euro con sullo sfondo decine di proiettili. In alto a destra e in basso a sinistra delle immagini di aerei di combattimento. In basso a destra la sagoma di un soldato. Al centro e a sinistra il disegno di un carro armato visto dall'alto.


In questi ultimi anni commerci e traffici di armi tornano prepotentemente a essere dei temi di pressante e urgente attualità. Lo sono insieme alle azioni di disobbedienza civile e alle inchieste che svelano rapporti politico-militari indecenti e indicibili, ma men che mai segreti.

Dieci giorni fa "Altreconomia" ha smentito il governo, dopo una conferma della "Leonardo SPA", la principale azienda militare italiana: la Repubblica italiana ha continuato a fornire armamenti a Israele. Lo ha fatto inviando dei pezzi di velivoli utili all'addestramento di chi potrebbe sganciare bombe in Palestina e in Libano, nonché fornendo supporto da remoto per l'addestramento

Una settimana fa l'"Unione Sindacale di Base" ha indetto una protesta presso l'aeroporto civile di Montichiari di Brescia: da Giugno alcuni lavoratori denunciano il transito di materiale bellico con tutta una serie di implicazioni etiche e di sicurezza

Intanto, anche i lavoratori portuali europei sono in allerta per gli stessi motivi proprio in queste ore. Mentre chiudiamo quest'articolo l'ultima posizione pubblica della nave "MV Kathrin", battente bandiera portoghese, risulta essere nelle vicinanze di Malta: partita dal Vietnam e diretta a Capodistria, trasporta esplosivi diretti anche in Israele. Tra i primi a denunciare il mortifero carico è stata Francesca Albanese. All'appello per non permettere le operazioni di carico e scarico si sono unite tantissime associazioni, inclusa Amnesty. La Namibia aveva revocato il permesso all'attracco, cosa che permette di evitare anche responsabilità legali legate alla Convenzione sul Genocidio. Stando a quanto riportano le cronache, pare che anche Malta abbia negato alla Kathrin il permesso di entrare nelle proprie acque territoriali, mentre altre navi gli avrebbero portato carburante in attesa di trovare un porto nell'Adriatico.

Questo genere di denunce e di atti di disobbedienza da parte della società civile assume una cruciale importanza in relazione ai crimini commessi da diversi stati, a partire dal regime di apartheid israeliano. Bisogna opporsi ai tentativi, appoggiati più o meno tacitamente dai nostri stessi governi, di riscrivere le leggi di guerra.

Sabato 28 Settembre abbiamo seguito un evento organizzato presso lo spazio autogestito partenopeo "Santa Fede Liberata". All'incontro, intitolato "La guerra comincia qui: fermiamola!", si è discusso della logistica della guerra, delle leggi che regolano trasferimenti di armi e di disobbedienza civile. Ospite era Carlo Tombola dell'"Osservatorio sulle Armi Nei Porti Europei e Mediterranei", The Weapon Watch".

Questo articolo rappresenta una sintesi di quello che si è detto ma, soprattutto, cerca di offrire degli spunti di discussione e di azione, insieme a diversi approfondimenti.

Partiamo con una sintesi molto schematica e iper-semplificata della guerra civile yemenita, messa in relazione alle violazioni del diritto internazionale che vediamo anche in Palestina e Libano. Passiamo poi a parlare di una storica azione di disobbedienza civile dei portuali genovesi, che ha impedito l'attracco di una nave diretta in Arabia Saudita, un esempio di ribellione non violenta da attuare quando le leggi non funzionano o sono ingiusteContinuiamo parlando delle normative che dovrebbero regolare i conflitti e la vendita di armi, e in particolare della legge 185 del '90, il cui spirito originario è stato disatteso negli anni. Con l'attuale governo le cose potrebbero peggiorare, e le attuali garanzie minime di trasparenza sul commercio delle armi potrebbero essere completamente stravolte...

Concludiamo con alcune considerazioni "geopolitiche", per così dire, insieme al mutato ruolo della NATO nell'attuale contesto globale. 

Inoltre abbiamo aggiunto questo post anche nella rubrica "Dati Parziali". Infatti, come dimostra una breve ricerca inclusa nelle prossime righe, i dati pubblici, che dovrebbero aiutare parlamento e società civile a esercitare un controllo sulla vendita di armi e sull'esecutivo, sono talmente "spezzettati" da risultare praticamente incomprensibili al lettore medio, e solo parzialmente decifrabili da occhi ben più esperti, quelli di alcuni esponenti della società civile e del variegato "fronte pacifista" che da anni studiano le relazioni previste dalla 185/90.

L'articolo che vi apprestate a leggere è un esempio di giornalismo sperimentale, un articolo "long form" in stile "slow journalism", che contiene al suo interno diversi "articoletti". Difficilmente riuscirete a leggerlo tutto d'un fiato... Per questo vi consigliamo di leggerlo con calma, ritornando più volte su questa pagina o salvandola. Oppure, perché no, stampandolo, se preferite l'esperienza cartacea. Siamo sicurə che alla fine troverete molti elementi utili di "geopolitica popolare" e sulla legislazione italiana che dovrebbe regolare il commercio d'armi e impedirne il traffico (si tenga a mente che la parola "traffico" indica dei trasferimenti di armi al di fuori di ciò che è considerato legale). Se non sarà così criticateci nell'apposito spazio dedicato ai commenti. In caso contrario, potrete mostrarci apprezzamento e fornire ulteriori spunti di riflessione sempre nei commenti. Buona lettura.


I CRIMINI DI GUERRA IMPUNITI IN YEMEN, IL BLOCCO DELLA "BAHRI YANBU" E LA NASCITA DI "THE WEAPON WATCH"

Nel caotico contesto della decennale guerra civile yemenita si scontrano gli interessi di diversi attori regionali e internazionali. Tralasciando la presenza di Al-quaeda e di altre formazioni, i due schieramenti principali sono rappresentati dagli Houthi, alleati dell'Iran (nonché noti ai più per le recenti azioni di sabotaggio delle navi commerciali nel Mar Rosso) e da una coalizione militare a guida saudita ed emiratina supportata dai paesi "occidentali" (Stati Uniti e Regno Unito in prima fila). Per avere un quadro sintetico delle forze in campo va ricordato che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, alleati contro Houthi ed Iran, supportano due fazioni diverse all'interno del Consiglio di Presidenza che guida la repubblica yemenita, rispettivamente quella unionista del nord e quella separatista del sud.

La guerra civile yemenita può essere inquadrata come uno dei "conflitti per procura" (proxy wars in inglese) tra Iran e Arabia Saudita, guerre semplicisticamente rappresentate come dei conflitti tra sciiti e sunniti (le "famiglie" principali della religione islamica, storicamente rappresentate dai due paesi e che, a loro volta, contengono una serie di divisioni al proprio interno). Sicuramente ci sono dei fattori etnico-religiosi alla base di queste guerre, ma le ragioni principali risiedono nel controllo politico ed economico del Medio-Oriente e nella proiezione di influenza in altre aree del pianeta da parte di varie potenze, interessi su cui si innestano mire imperialiste di vari "imperi" (o aspiranti tali) e delle rispettive "corti".

Dopo questa non esaustiva ma necessaria premessa andiamo all'oggetto principale di questo post. Nella nostra epoca, dominata dalla cultura consumista e capitalista, il nocciolo del problema dei traffici di armi risiede in un ordine mondiale e in un sistema socio-economico fondato sull'accumulazione di potere. Imbracciare le armi, e più in generale ricorrere alla violenza, dovrebbe essere una scelta estrema, da attuare solo per difendersi, non per imporre la propria egemonia. E nemmeno per far alzare il "PIL", il volume d'affari, con fruttuosi e mortiferi commerci in armamenti, finalizzati a "risolvere" le crisi generate dallo stesso sistema economico conquistando nuovi "mercati" e ampliando la schiera degli sfruttati. Per questo la nostra Costituzione ripudia la guerra come risoluzione dei conflitti, per questo il diritto internazionale dovrebbe imporre dei limiti a come vengono condotte le guerre, proteggendo in particolare i civili, oltre che porre argini a un sistema capitalista senza freni, ispirato dalla religione del profitto. Un sistema guidato dal cosiddetto "complesso militare industriale" di cui i governi nazionali sono dei meri burattini. I principi nazionali (l'Italia ripudia la guerra) e sovranazionali (le leggi che regolano la conduzione delle guerre, incluse quelle sulle forniture di armamenti), non sono stati rispettati in Yemen.

Nella guerra civile yemenita tutte le parti in conflitto si sono macchiate di palesi violazioni delle leggi internazionali. Abitando però nella parte "occidentale" del pianeta abbiamo il dovere primario di occuparci di quelle commesse dalla nostra "parte"Da anni svariate ONG internazionali, supportate da indagini delle Nazioni Unite, denunciano la commissione di diversi crimini in Yemen da parte della coalizione a guida saudita, commessi con supporto e armi forniti da noi, dalle nostre energie intellettuali ed economiche, dalle nostre menti, dai nostri portafogli e, quindi, con la nostra complicità. Da anni queste denunce sono rimaste sostanzialmente inascoltate, così come gli appelli a smettere di inviare armi usate in palese contrasto delle più elementari norme giuridiche (distinguere i combattenti dai civili, colpire un obiettivo militare solo se strettamente necessario e facendo il possibile per limitare i cosiddetti "danni collaterali", non affamare la popolazione civile, non attaccare personale umanitario, ospedali, scuole, ecc.) oltre che quelle del comune senso di umanità perduto. Tantissime uccisioni di persone innocenti potevano e dovevano essere evitate, tantissime persone dovrebbero prendersi la responsabilità e rendere conto di questi crimini affinché non si ripetano. Invece vige un sostanziale regime di impunità che ha raggiunto il suo apice con la guerra genocida a Gaza e in Cisgiordania, con violazione brutali e grossolane delle leggi di guerra -il cosiddetto "diritto umanitario internazionale". Leggi che vengono riscritte in favore dei nostri "alleati economici" con un'ipocrisia e un livello di mistificazione parossistico e tragicomico, supportato da una schiera di colleghi giornalisti pennivendoli (quando non direttamente coinvolti in delle campagne di propaganda, magari supportate da reparti militari e di intelligence, appositamente dedicati alla guerra tramite la comunicazione). Putin ha invaso uno stato sovrano ed è sbagliato, ma perché non si dice che è sbagliato invadere e mantenere una dittatura militare, un regime di apartheid (definizione legale dell'occupazione israeliana, stabilita dalla traballante legalità internazionale) in piedi in Palestina almeno dal 1967?! Forse perché ci sono delle persone che disgustosamente accusano di antisemitismo chiunque osi mettere in dubbio la presunta legittima difesa israeliana, che in realtà è una decennale punizione collettiva e sproporzionata, che ha prodotto il crimine efferato del 7 Ottobre, sfruttato come pretesto per legittimare un'altra serie di stragi. Così strumentalizzano la tragedia degli ebrei senza terra per legittimare una politica coloniale iniziata con la dichiarazione unilaterale della nascita di uno stato, oggi teocratico ed etnocratico, in violazione del diritto internazionale, fondato sullo sfollamento forzato, sullo stupro e sui massacri della popolazione nativa?! Forse si può dire che Putin è un "pazzo", ma non Netanyahu, anche perché diverse "aziende-vassalle" traggono profitto da questo caos (si pensi agli accordi che l'ENI ha stipulato con il governo israeliano per cercare e sfruttare i giacimenti di gas a largo delle coste di Gaza, poco dopo l'inizio della guerra genocida).

24.12.22

ATTENTATO AL CENTRO CURDO “AHMET KAYA” DI PARIGI

I PRECEDENTI DELL’ATTENTATORE, I SOSPETTI SUL MOVENTE E IL PROIBIZIONISMO SULLE ARMI

 

Una foto del centro curdo dedicato all'artista Ahmet Kaya, dove è avvenuto il codardo gesto. La foto è tratta dal profilo Facebook dell'associazione

 

LUOGO E DINAMICA DELL’ATTACCO

Il 23 Dicembre, poco prima di mezzogiorno, un uomo di quasi 70 anni ha aperto il fuoco in rue d’Enghien, nella decima circoscrizione di Parigi: il centro culturale dedicato al cantante Ahmet Kaya è considerato un’ambasciata “informale”, dato che il popolo curdo è il più numeroso al Mondo senza una nazione “ufficiale”, e dove si tengono diverse attività tra cui il supporto per le pratiche burocratiche di chi migra.

Diversi colpi di pistola sono stati esplosi uccidendo un’attivista, un cantante (anche la persona a cui è intitolato il centro lo era) e un altro attivista e rifugiato che si trovavano nel centro. Una delle vittime ha provato a rifugiarsi, invano, in un ristorante di fronte. Almeno quattro sono i feriti gravi. Per fortuna alcuni astanti in un parrucchiere, dove sarebbero stati esplosi altri colpi, sono riusciti a disarmarlo: l’esito  poteva essere ancora più tragico dato che era in possesso di altre munizioni calibro 45 custodite in una valigia. Pare che la Colt 1911 usata, dall’aspetto consumato,  provenga da un poligono di tiro.

In queste ore continuano le manifestazioni di protesta e gli scontri con la polizia a Parigi e Marsiglia, iniziate dopo che le forze dell’ordine hanno bloccato l’accesso alla zona durante la contestuale visita del ministro Gérald Darmanin: nelle immagini diffuse si notano diversi appartenenti al servizio d’ordine “interno” alle manifestazioni che cercano di placare gli animi. Alcuni agenti di polizia risultano feriti. L’istanza dei manifestanti è quella della mancata, o perlomeno insufficiente, difesa della comunità curda: in questi giorni continua l’attacco turco alla regione del Nord-Est della Siria (nota come Rojava), insieme al contestuale embargo mediatico” sulla vicenda e agli attacchi interni alla Turchia contro gli oppositori in preparazione per le prossime elezioni




 

L’IDENTITÀ  DELL’ATTENTATORE E I PRECEDENTI PER VIOLENZE A SFONDO RAZZISTA

All’interrogatorio l’attentatore, William Malet, avrebbe dichiarato di essere razzista e di odiare i curdi, e per questo avrebbe perpetrato il vile atto. Stando a quanto riportano le cronache già nel 2016 l’uomo si ribellò a un furto colpendo il ladro con un martello. Quel processo pare che si sia "arenato", ma l’8 Dicembre del 2021 aveva messo a segno un altro attacco contro un campo-tendopoli per migranti a Bercy, ferendo almeno due persone gravemente con una sciabola e lacerando alcune delle circa venti tende, popolate principalmente da rifugiati africani che non sono riusciti a procurarsi un alloggio.

Una delle vittime di quel precedente attacco, ferita con la spada alla schiena e alla gamba e di nome Osman, ha espresso una timorosa sorpresa nel rivederlo sui media: <<come è possibile che sia fuori?! Se lo avessi saputo avrei avuto paura di ritorsioni>> ha dichiarato in un’intervista.

3.12.22

"EMBARGO MEDIATICO” IN ROJAVA

FERMIAMO L’ESCALATION MILITARE

Siamo a 16 giorni dall’inizio dell’operazione “Spada ad artiglio (alcuni la traducono come “Artiglio Spada”, in inglese “Sword Claw”) con bombardamenti aerei, droni, cannoni e carri armati da parte del governo turco nel territorio siriano del Rojava, spacciata come vendetta per l’attentato di Istanbul e violando per la prima volta lo spazio aereo controllato da Russia e USA (anche se alcuni ipotizzavano una complicità della prima, in antitesi alla tesi della violazione).




Foto di un giacimento di petrolio in fiamme tratta dal sito delle YPJ. Nel paragrafo che segue si parla anche della questione energetica in Rojava



IL BILANCIO DELLE VITTIME E L’INTRICATO CONTESTO DELLA GUERRA CIVILE SIRIANA

Stando alle cifre diffuse dalle autorità del Rojava sono stati effettuati all’incirca almeno 4000 attacchi con aerei, droni e veivoli comandanti a distanza, artiglieria pesante e carri armati (mentre da tempo si denuncia e si indaga anche sul possibile uso di armi chimiche). Almeno 15 le vittime civili, la maggioranza morte in uno dei primi attacchi la notte del 19 Novembre, a Derik. In quell’attacco si è usata la tattica “Double Tap”, che consiste nel lanciare un primo bombardamento e, una volta che i soccorsi arrivano sul posto, attuarne subito un altro, in questo caso specifico con un drone. Secondo la testimonianza di un cittadino, Mihemed Ebddurehim, il secondo attacco, in cui è rimasto ucciso anche un cronista, è avvenuto <<dopo che le forze americane erano giunte sul posto. Uno di loro è sceso dalla macchina e ha guardato il suo telefono per poi andarsene via di fretta>>. I soldati, mercenari e agenti di polizia delle forze speciali colpiti e uccisi dalle SDF e dalle formazioni militari collegate sarebbero più di 20. Le perdite si aggirerebbero intorno alle 20 unità, includendo anche i soldati che gestiscono i centri di detenzione dei miliziani dell’ISIS, quasi 30 se si includono anche le forze del governo siriano. Svariati i feriti in circa 80 centri abitati, e 22.000 studenti hanno dovuto fermare i loro studi: in Rojava studio e formazione sono fondamentali e difficilmente vengono interrotte nonostante le difficoltà.

Stando invece alle dichiarazioni del governo turco sarebbero almeno 250 i militari uccisi degli schieramenti avversari (incluse le forze di Assad) negli attacchi e quasi 500 gli obiettivi colpiti. Sarebbero tre i civili uccisi da un colpo di artiglieria che pare sia partito da Kobane, secondo le autorità turche addebitabile ai “terroristi del PKK e delle YPG”, e caduto vicino a una scuola.

Il governo siriano nega di aver risposto al fuoco e bisogna ricordare che lungo tutto il fronte (circa 700 KM) -oltre che nello scenario più ampio della guerra civile siriana- operano, oltre ovviamente ai soldati statunitensi, anche i russi e le truppe di Hezbollah filo-iraniane (che supportano principalmente il regime siriano e che potrebbe uscire rafforzato da questo conflitto), i siriani filo-Assad schierati con le SDF, la forza militare del Rojava a maggioranza curda: l’ “avvicinamento” tra questi due si va consolidando proporzionalmente alla minaccia turca. Quella della cooperazione con il regime di Assad, con cui esiste una sorta di “patto di non aggressione”, rappresenta un “scelta obbligata”, il “male minore” rispetto a quella che sarebbe una vera e propria pulizia etnica dei curdi da parte turca. Per questo il partito “barzaniano” KNC, opposto al PYD nel Consiglio Democratico Siriano -il “parlamentino”della regione autogovernata- all’accusa di dispotismo del Partito dell’Unione Democratica aggiunge quella di essere pro-Assad. A sua volta il PYD accusa il Consiglio Nazionale Curdo di essere in combutta con la Turchia e con le forze ribelli siriane a essa vicine).

La strategia militare del regime turco è chiara (così come quella mediatica): si inizia con bombardamenti aerei e via terra per “indebolire” la resistenza e la popolazione del Rojava (che non è formata solo da curdi, come spieghiamo e ribadiamo più avanti): bombe vengono lanciate contro ospedali, impianti per la produzione di grano, centrali a gas e idroelettriche (in una zona in cui l’elettricità c’è solo per poche ore al giorno) e anche i giacimenti di petrolio strettamente essenziali alla sussistenza e gestiti con un sistema economico cooperativo anti-monopolista: la maggioranza dell’energia nel Nord-est della Siria è idroelettrica e una parte minore è generata dal diesel, un tipo di cherosene altamente inquinante ma purtroppo anche l’unica risorsa per riscaldare appartamenti e mettere in moto veicoli, dato che la costruzione di nuove dighe (fondamentale anche per l’approvvigionamento d’acqua da bere e da usare in agricoltura, nonché uno dei “fronti energetici” del conflitto) e di componenti per i pannelli solari, così come di quelli per sviluppare raffinerie proprie per “emanciparsi” maggiormente dal regime siriano (che importa petrolio dal Rojava), è ostacolata da un embargo “de facto” dei paesi confinanti.

Gli attacchi alle infrastrutture sono quindi preparatori a una più vasta offensiva via terra (sarebbe le quarta a partire dal 2016): erano mesi che la popolazione dell’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria (AANES) sentiva letteralmente “nell’aria” i preparativi militari attuati con diversi voli di ricognizione e posizionamenti lungo il confine. Ma il pretesto dell’attacco è stato servito su un piatto d’argento (se non addirittura “creato ad arte”) con l’attentato di Istanbul del 14 Novembre.

Infine il Comando centrale delle forse statunitensi ha confermato che un attacco con un drone ha messo in pericolo perfino le sue truppe.



26.11.22

IL PAPA HA DETTO CHE MINNITI È UN CRIMINALE DI GUERRA?

 In questo fact-checking “lampo” parliamo di una frase su Minniti attribuita al Papa: l’abbiamo sentita poco fa mentre guardavamo distrattamente il programma di La7 “Propaganda Live”, ma questa news è apparsa la prima volta a Giugno.







Sabina Guzzanti, nel monologo satirico andato in onda poche ore fa a “Propaganda Live”, afferma che il Papa avrebbe detto che Marco Minniti è <<un criminale di guerra>>.

Ricordiamo che Minniti è l’ex Ministro dell’Interno del primo governo Gentiloni, fautore dello scellerato Memorandum Italia-Libia e dunque “degno” predecessore di Salvini, nonché presidente di una fondazione di Leonardo (avete mai sentito parlare di “porte girevoli”?!) da quando ha lasciato il PD.

L’attrice poi specifica che i “giornaloni”, in quanto vicini al PD, non hanno riportato la notizia. In effetti un tale affermazione ci sembra tanto “provocatoria” quanto “sensazionale” se proferita davvero da Papa Francesco  (provocatoria nel senso che, ovviamente, tecnicamente Minniti non è certo un criminale di guerra, e certamente non verrà processato dalla Corte penale internazionale dell’Aja...). 

Allora proviamo a fare un fact-checking “lampo” di questa notizia…

Tra i primi degli svariati risultati che il motore di ricerca ci propone c’è un articolo de “Il Fatto Quotidiano”, del due Giugno (firmato da Stefano Baudino e intitolato "Papa Francesco e la frase sull'ex ministro Minniti, 'criminale di guerra'". Si spiega che la frase sarebbe stata detta quando il sovrano del Vaticano ha spiegato ad altri prelati, in maniera informale, la sua mancata partecipazione a un convegno di Firenze sul Mediterraneo. L'assenza era dovuta principalmente alla partecipazione di Minniti all'incontro, insieme a quella di altri industriali nel settore delle armi (la Leonardo Spa è attiva nel settore della difesa e lo Stato italiano ne possiede il 30%): <<mi hanno fatto vedere quando erano al ministero che leggi hanno fatto. Sono dei criminali di guerra. Ho visto anche i campi di concentramento in Libia dove tenevano questa gente>>.