18.9.22

Percentuale di vittime civili delle guerre nel Mondo e fake-news "a fin di bene"

La fake news "a fin di bene" del 90% di vittime civili, la definizione di civile e la violenza strutturale, ossia l'ineguaglianza e i soprusi alla base di tutte le guerre 





Spesso viene riportata la statistica della percentuale delle vittime civili delle guerre, quantificata nel 90%. In questo post si cerca di verificarla. Spieghiamo infatti che la diffusione di questo dato, stando agli studi che citiamo di seguito, sembra essere una cosiddetta “fake news a fin di bene”. Infine, dopo aver chiarito alcune questioni metodologiche come la definizione stessa di civile e di conflitto, chi scrive quest'articolo spiega perché conoscere la percentuale esatta delle vittime civili non è la principale questione da un punto di vista etico-teorico

Questo è il primo post della rubrica “Dati Parziali”, ma è incluso anche in quella denominata “Chekka il Fatto”, dato che proviamo a verificare l’esattezza di questo dato, e in quella pseudo-enciclopedica “Define”, siccome proviamo a spiegare (seppur sbrigativamente) chi è considerato “civile” in una guerra (prossimamente ci dedicheremo anche alla definizione stessa di “guerra”, per quest’ultima rubrica).

 


LA PERCENTUALE MEDIA DELLE VITTIME CIVILI NEGLI SCORSI TRE SECOLI SI AGGIREREBBE INTORNO AL 50%

Spesso, quando ci si occupa di guerre e conflitti, si sente parlare di un dato: il 90 percento delle vittime delle guerre sono civili, sono persone che non indossano una divisa e non collaborano direttamente alle operazioni militari imbracciando delle armi.

Il dato si ritrova, per esempio, nella trascrizione di un incontro dell’ONU dello scorso Maggio, dove si specifica che questa percentuale si raggiunge <<quando si usano armi esplosive in aree popolate>>.

Gino Strada, fondatore di Emergency  ha ripetuto più volte questo dato, e nel 2015 scriveva: <<Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più “conflitti rilevanti” che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano.>>.



Screenshot della pagina di Emergency in cui Gino Strada parla del 90% di vittime civili




Anche chi scrive questo post ha cominciato a ragionare sulla proporzione delle vittime di un conflitto dopo aver sentito le parole di Strada in un evento dal titolo “La Guerra è il mio Nemico” (evento recensito nella rubrica RecenTips)

Alla voce "Civilian casualty ratio" (rapporto vittime civili e militari) dell’edizione in inglese di Wikipedia si spiega che questo dato comincia a essere menzionato a partire dagli anni ’80 e ripetuto in pubblicazioni accademiche almeno fino al 2014. Un esempio dell’uso di questo dato in ambito accademico lo troviamo anche in questo video del prof. Eduardo Missoni della Bocconi.





Sempre alla stessa voce di Wikipedia si spiega che, mediamente, secondo la stima fatta da William Eckhardt –professore di diritto statunitense, avvocato ed ex ufficiale militare- <<metà delle morti causate dalla guerra si verificano tra i civili, e di queste solo alcune sono riconducibili alle carestie associate alla guerra. La quota percentuale di morti civili e militari collegate alle guerre resta all’incirca intorno al 50% per tutti i secoli>>.

Il saggio in cui si trova questo dato, e da cui è estratta la tabella (in foto), si intitola “Civilian Deaths in Wartime” (morti tra i civili in tempo di guerra) e risale al 1989: la stima totale delle morti in guerra avvenute nel secolo scorso, fino al 1987, ammontava a 85 milioni e mezzo di vittime. Si hanno dati specifici della proporzione di vittime civili e militari  per 79 milioni di quelle morti, ed è del 50%: una vittima su due era un civile. Un’altra tendenza riscontrabile è l’aumento di conflitti in relazione a quello della popolazione mondiale (numero degli abitanti totali che nella tabella e nello studio considerati si riferisce alla metà del secolo studiato).



Tabella dello studio di William Eckhardt




LA GENERALIZZAZIONE DEL “9 SU 10” (OSSIA DEL 90% DI VITTIME CIVILI): UNA FAKE NEWS "A FIN DI BENE"

Facendo una ricerca su Google Scholar tra i primi risultati si trova uno studio del 2010 dello storico e professore emerito di relazioni internazionali ad Oxford Adam Roberts, usato come fonte anche nella pagina citata dell’enciclopedia partecipativa e intitolato “Lives and statistics: Are 90%of war victims civilians? (Vite e statistiche: il 90% delle vittime di guerre sono civili?).

Nello studio si citano diversi casi in cui la percentuale viene menzionata, a partire dal 1991, come quando nel 2003 il Consiglio Europeo affermava: <<dal 1990, quasi 4 milioni di persone sono morte nelle guerre, 90% di queste erano civili>>. Nel saggio si spiega che, effettivamente, in alcune guerre ci si è avvicinati a una tale allarmante proporzione, ma anche che generalizzare questo dato porta al consolidamento di <<una ‘leggenda urbana’ della guerra contemporanea>>. Ciò, spiega l'autore, paradossalmente non rende onore alle organizzazioni che cercano di limitare i danni delle popolazioni civili, contribuendo poi all’ “assuefazione” verso i dati (e alle relative diatribe che non si concentrano su questioni <<sostanziali>> ma su <<numeri e metodologie>>) che rappresentano vite spezzate e non asettici numeri, e infine anche a considerare le guerre studiate in maniera omogenea mentre, in realtà, ogni guerra ha le sue tragiche particolarità (per esempio si spiega che il rapporto di 9 civili morti per ogni militare deceduto viene quasi raggiunto in quei conflitti dove un governo supporta omicidi di massa, e quindi che quegli specifici conflitti -come il genocidio ruandese e cambogiano- hanno un impatto ancora più devastante).

In altre parole la critica fatta da Roberts (da giovane era anche un’attivista che si batteva contro il nucleare) riguarda le cosiddette “fake news a fin di bene”… Ma che, come lui argomenta in questo frangente, “a fin di bene” in realtà non sono!

L’autore mette in guardia dall’estendere questa percentuale a tutte le guerre anche perché potrebbe condurre a una mancanza di credibilità verso gli organi internazionali... Ma il rischio maggiore è che <<anche se usate per sostenere>> le argomentazioni a difesa del preoccupante coinvolgimento dei civili, <<le vaghe approssimazioni possono involontariamente e in maniera deleteria re-orientare i dibattiti dalla sostanza alla credibilità>>, e quindi favorire paradossalmente idee e politiche guerrafondaie. <<Nel 1991 la generalizzazione del “9 su 10” mirava ad allertare il mondo sull’importanza di proteggere i civili. Il problema è che, rafforzando lo scetticismo sugli sforzi per limitare i costi umani della guerra, si potrebbe avere l’effetto opposto>>!



LA DEFINIZIONE DI CIVILE

Oltre a questo il saggio affronta lo spinoso tema della definizione di “civile” che appare semplice solo superficialmente: si definisce civile <<chiunque non appartiene alle forze armate e non rientra tra le categorie che hanno diritto allo status di prigionieri di guerra>> e, dunque, secondo la Convenzione di Ginevra, anche chi non fa parte di milizie e altri corpi di volontari armati e pure chi, abitante di un territorio non occupato, non prende spontaneamente le armi in pugno per resistere a un’invasione. Oltre questa definizione, che si ricava “per esclusione” dalle categorie non considerabili come combattenti dalla convenzione, ci sono da valutare altre questioni più spinose per chi approccia il tema della quantificazione di vittime civili: Roberts infatti dice che esistono diatribe sul considerare civili anche individui come <<imprenditori che lavorano con l’esercito, terroristi o partecipanti part-time in una guerra civile>>...

Inoltre, sforzandosi di essere un minimo rigorosi dal punto di vista metodologico, bisogna prendere in considerazione che le vittime civili non sono solo quelle più “immediate”, e quindi quelle che muoiono perché “direttamente” e “istantaneamente” coinvolte in esplosioni, per esempio…  Ma anche quelle che magari periscono dopo la conclusione di uno scontro armato per le ferite riportate, per le carestie, per le mine antiuomo che restano interrate dopo i trattati di pace, per l’aumento di violenze e crimini determinati dai “vuoti di potere”, per le conseguenze psicologiche che magari spingono qualcuno a togliersi la vita dopo un conflitto, per quelle persone che muoiono mentre fuggono da un territorio dove una guerra è in atto, e anche per quella che viene definita “violenza strutturale”, di cui si parla nelle righe conclusive di questo scritto…  Quando dunque vengono menzionate percentuali riguardanti i civili in guerra, sarebbe anche utile capire cosa si intende per “civile” per chi ha elaborato quei "numeri" in quella particolare ricerca.

Infine, non di secondaria importanza per chi deve raccogliere i dati, c’è per l’appunto il problema della raccolta di dati e delle fonti disponibili.

Quindi, concludendo la parte meramente statistica e di fact-checking di questo post, si può affermare che in alcuni conflitti armati la percentuale di vittime tra la popolazione civile, nello scorso secolo, si è forse avvicinata al 90% in alcune guerre, ma stando agli studi citati sembra difficile dire che il 90% sia effettivamente la cifra assoluta per tutte le guerre messe insieme.

E sempre sforzandoci di essere il più precisi possibile, bisogna sottolineare che non tutti i conflitti armati sono considerate “vere e proprie” guerre dai diversi organismi e dalle diverse organizzazioni internazionali, così come il conteggio totale delle guerre in atto varia a seconda di chi le classifica e dei criteri che usa. Promettiamo che torneremo a parlare di questi argomenti più nello specifico tra queste pagine elettroniche, cominciando proprio dalla definizione di “guerra” (e se state trovando utile questo post incoraggiateci condividendolo, commentandolo oppure, perché no, provando a partecipare in qualunque maniera, dato che la redazione e il progetto di questa "fanzina generalista" sono “aperti”, e in un certo senso indefiniti).

Ancora più complicato sarebbe cercare di ottenere statistiche sulle guerre avvenute nella contemporaneità e, addirittura, in tutta la storia umana: se tali stime esistono chi scrive questo post non ne è a conoscenza, fatta eccezione per la prima che è stata citata. Questa parte dal 1700 e arriva al 1987 ed è basata su 234 guerre -la metà di tutte le guerre considerate in quel periodo storico, che includono l’87% delle vittime totali- in cui sia i dati specifici sui morti civili che su quelli militari erano disponibili, e non solo quelli sulle vittime in assoluto.



VIOLENZA STRUTTURALE E “ASSUEFAZIONE” ALLE STATISTICHE

Il concetto che però vogliamo sottolineare in questo atipico post “Data-Journalistico”/”statistico” è un altro: non importa se le vittime civili delle guerre sono lo 0,0000001% o il 90% del totale... Non dobbiamo più assuefarci ai dati e abituarci alle fredde statistiche e alle notizie che riportano tristi dipartite… Dovremmo invece sforzarci di capire che ognuna di quelle vittime, incluse nei “gelidi” bollettini, potremmo essere noi, potrebbe essere un parente, un’amica, un compagno… E poi, a seconda delle nostre idee e dei nostri ideali, cercare di agire di conseguenza in qualche maniera…

Forse, per colpa della nostra stessa natura o magari delle strutture del sistema mediatico, stiamo cominciando a non riuscire a immedesimarci, a non sviluppare empatia… Per questo possono essere utili due, forse banali ma efficaci, “esperimenti” di immedesimazione, proposti in altrettanti post pubblicati su queste pagine virtuali.

Il primo, suggerito da Gino Strada di Emergency, è incluso nel già citato articolo intitolato "La guerra è il mio nemico": prendete la foto di una vittima della guerra, ritagliate via il volto e incollateci sopra (anche solo mentalmente) quello di un vostro caro.

Il secondo è incluso nel post in cui abbiamo parlato di una manifestazione contro il memorandum Italia-Libia durante il primo festival di Mediterranea, ed è proposto da David Yambio, rifugiato e attivista di Refugees in Libya<<immaginate di essere voi a dover fuggire dall’Italia e a dover prendere un gommone per attraversare la Manica. Immaginate di dover lasciare tutto per scampare alla morte: come vi sentireste ad essere accusati di invadere un altro paese come l’Inghilterra?!>>

Forse, cominciando ad identificarci con “l’altro/a” riusciremo ad avvicinarci sia a lui/lei sia all’utopia di un Mondo senza guerra (ammesso che possiamo solo avvicinarci a quest’utopia e che non sia in realtà una realtà attuabile). Forse potremmo cominciare a vedere in quel rapporto tra vittime civili e militari non solo dei numeri sui “danni collaterali” oppure su delle persone sapientemente oppresse e  colpite, ma potenzialmente noi stessi.

Alcune grandi linee da seguire per avvicinarsi almeno all’utopia-realizzabile di un mondo senza guerra, le troviamo proprio nel primo degli studi citati, quello di Eckhardt, quando parla del concetto di “violenza strutturale”: <<significa semplicemente quelle morti causate dalla maniera in cui ricchezza e potere sono distribuite in ogni società o mondo, in modo tale da ridurre le scelte di vita di quelli con meno soldi e potere>>. 

Nella conclusione critica una frase dell’allora presidente Reagan, rilasciata nel 1983, sei anni prima della pubblicazione dello scritto. Il presidente repubblicano –con un passato da democratico- rimpiangeva i tempi in cui la guerra sarebbe consistita <<“semplicemente” in combattimenti tra guerrieri armati egualmente>>: <<c’era un tempo in cui esistevano delle regole per combattere in guerra (…) in cui si faceva in modo che i soldati combattevano i soldati e non vittimizzavano i civili>>. Eckhardt, sarcasticamente, nota che una tale epoca, se pure è esistita, quantomeno  ha preceduto il periodo da lui analizzato, e quindi quello precedente al XVIII secolo. 

Nella conclusione dello studio l’autore, ed ex militare, invita all’<<abolizione della guerra>> e a praticare la non-violenza cambiando i nostri paradigmi, dirigendoli <<dalla dominazione e dallo sfruttamento verso più eguaglianza. Prendendoci cura gli uni degli altri e condividendo (…) In breve, la non-violenza strutturale sembra essere la conditio sine qua non per un’autentica ed efficace non-violenza comportamentale>>.


Anarco-pacifista










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