FERMIAMO L’ESCALATION MILITARE
Siamo a 16 giorni dall’inizio
dell’operazione “Spada ad artiglio”
(alcuni la traducono come “Artiglio Spada”, in inglese “Sword
Claw”) con bombardamenti aerei, droni, cannoni e carri
armati da parte del governo turco nel territorio siriano del
Rojava, spacciata come vendetta per l’attentato di Istanbul e
violando per la prima volta lo spazio aereo controllato da Russia e
USA (anche se alcuni ipotizzavano una complicità della prima, in antitesi alla tesi della violazione).
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Foto di un giacimento di petrolio in fiamme tratta dal sito delle YPJ. Nel paragrafo che segue si parla anche della questione energetica in Rojava |
IL BILANCIO DELLE VITTIME E
L’INTRICATO CONTESTO DELLA GUERRA CIVILE SIRIANA
Stando
alle cifre diffuse dalle
autorità del Rojava sono
stati effettuati all’incirca almeno 4000
attacchi con
aerei,
droni e veivoli comandanti a distanza, artiglieria pesante e
carri armati (mentre
da tempo si denuncia e si indaga anche sul possibile uso di armi chimiche).
Almeno
15
le
vittime civili,
la
maggioranza morte in uno dei primi attacchi la notte del 19 Novembre,
a Derik. In quell’attacco si è usata la tattica “Double Tap”, che consiste nel lanciare un
primo bombardamento e, una volta che i soccorsi arrivano sul posto,
attuarne subito un altro, in questo caso specifico con un drone.
Secondo la testimonianza di un cittadino, Mihemed Ebddurehim, il
secondo attacco, in cui è rimasto ucciso anche un cronista, è
avvenuto <<dopo
che le forze americane erano giunte sul posto. Uno di loro è sceso
dalla macchina e ha guardato il suo telefono per poi andarsene via di
fretta>>.
I
soldati, mercenari e agenti di polizia delle forze speciali colpiti e
uccisi dalle SDF e dalle formazioni militari collegate sarebbero più
di 20. Le perdite si aggirerebbero intorno alle 20 unità, includendo
anche i soldati che gestiscono i centri di detenzione dei miliziani
dell’ISIS, quasi 30 se si includono anche le forze del governo
siriano. Svariati i feriti in circa 80 centri abitati, e 22.000
studenti hanno dovuto fermare i loro studi: in Rojava studio e
formazione sono fondamentali e difficilmente vengono interrotte
nonostante le difficoltà.
Stando invece alle dichiarazioni del
governo turco sarebbero almeno 250 i militari uccisi degli
schieramenti avversari (incluse le forze di Assad) negli attacchi e
quasi 500 gli obiettivi colpiti. Sarebbero tre i civili uccisi da un colpo di artiglieria che pare sia partito da Kobane,
secondo le autorità turche addebitabile ai “terroristi del PKK e
delle YPG”, e
caduto vicino a una scuola.
Il
governo siriano nega di aver risposto al fuoco e bisogna ricordare
che lungo tutto il fronte (circa 700 KM) -oltre
che nello
scenario più ampio della guerra civile siriana-
operano, oltre
ovviamente ai soldati
statunitensi, anche i russi e le truppe di Hezbollah filo-iraniane
(che supportano principalmente
il regime siriano e
che potrebbe
uscire rafforzato da questo conflitto),
i siriani filo-Assad schierati con le
SDF, la
forza militare del Rojava
a maggioranza curda:
l’ “avvicinamento”
tra questi due
si va
consolidando
proporzionalmente alla minaccia turca. Quella
della cooperazione con il regime di Assad, con cui esiste una sorta
di “patto di non aggressione”, rappresenta un
“scelta obbligata”, il
“male minore” rispetto
a quella che
sarebbe una vera
e propria pulizia etnica dei curdi da parte turca.
Per questo il partito “barzaniano” KNC,
opposto al PYD nel Consiglio Democratico Siriano
-il
“parlamentino”della regione autogovernata-
all’accusa
di dispotismo del Partito
dell’Unione Democratica
aggiunge quella di essere pro-Assad. A
sua volta il PYD accusa il Consiglio Nazionale Curdo di essere in
combutta con la Turchia e con le forze ribelli siriane a essa
vicine).
La strategia militare del
regime turco è chiara (così come quella mediatica): si
inizia con bombardamenti aerei e via terra per “indebolire” la
resistenza e la popolazione del Rojava (che non è formata solo da
curdi, come spieghiamo e ribadiamo più avanti): bombe vengono
lanciate contro ospedali, impianti per la produzione di grano,
centrali a gas e idroelettriche (in una zona in cui l’elettricità
c’è solo per poche ore al giorno) e anche i giacimenti di petrolio
strettamente essenziali alla sussistenza e gestiti con un sistema
economico cooperativo anti-monopolista: la maggioranza dell’energia
nel Nord-est della Siria è idroelettrica e una parte minore è
generata dal diesel, un tipo di cherosene altamente inquinante ma
purtroppo anche l’unica risorsa per riscaldare appartamenti e
mettere in moto veicoli, dato che la costruzione di nuove dighe
(fondamentale anche per l’approvvigionamento d’acqua da bere e da
usare in agricoltura, nonché uno dei “fronti energetici” del
conflitto) e di componenti per i pannelli solari, così come di
quelli per sviluppare raffinerie proprie per “emanciparsi”
maggiormente dal regime siriano (che importa petrolio dal Rojava), è
ostacolata da un embargo “de facto” dei paesi confinanti.
Gli attacchi alle infrastrutture
sono quindi preparatori a una più vasta offensiva via terra
(sarebbe le quarta a
partire dal 2016): erano mesi che la popolazione
dell’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria
(AANES) sentiva letteralmente “nell’aria” i preparativi
militari attuati con diversi voli di ricognizione e posizionamenti
lungo il confine. Ma il pretesto dell’attacco è stato servito su
un piatto d’argento (se non addirittura “creato ad arte”) con
l’attentato di Istanbul del 14 Novembre.
Infine il Comando centrale delle
forse statunitensi ha confermato che un attacco con un drone ha messo
in pericolo perfino le sue truppe.