15.12.22

I CUCCIOLI DEL CALIFFATO

“I FIGLI DELL’ODIO”

I detenuti dell’ISIS, con mogli e figli al seguito, sono una “bomba a orologeria” non solo per le forze del Rojava, in Siria: l’“ordigno metaforico” con cui la Turchia cerca di destabilizzare l’area rappresenta un pericolo per il mondo intero, dato che nuove generazioni di estremisti islamici si “formano” in campi e strutture improvvisate di prigionia, vere e proprie “scuole di criminalità” islamica-radicale, dimenticate e abbandonate dalla comunità internazionale. Analisti, giornalisti e organizzazioni umanitarie denunciano da anni il fenomeno che, con l’operazione “Spada ad Artiglio” lanciata dal dittatore Erdogan, rischia di aggravarsi ulteriormente.

Nell'articolo che segue si trovano le denunce di diplomatici, giornalisti e ONG sulla questione, insieme a una serie di interviste riprese da diversi organi stampa.



Immagine tratta da un video di propaganda dell'ISIS, diffuso dalla PBS

Parliamo dei prigionieri dell’ISIS e in particolare dei “cuccioli del Califfato”: vengono chiamati così i figli dei miliziani del sedicente Stato islamico detenuti in diverse strutture tra la Siria e l’Iraq, e gestite insieme alla coalizione guidata dagli Stati Uniti rispettivamente dalle forze dell’Amministrazione Autonoma del Nord-Est della Siria (ossia quelle del Rojava, prevalentemente curde e ideologicamente vicine al PKK) e da quelle dei “peshmerga” del Governo Regionale del Kurdistan iracheno (governato dai clan delle famiglie Barzani e Talabani).




In totale, secondo il governo USA, i prigionieri “Daesh” sul suolo del nord-est della Siria rappresentano <<la più grande concentrazione, a livello globale di combattenti terroristi in una singola area>> e sono all’incirca quasi 70 mila, di cui 56 mila nel gigantesco campo di al-Hol. Di questi 10 mila sono di nazionalità diverse da quella siriana e irachena, e la maggioranza sono bambini con meno di 12 anni


Bambini addestrati dall'ISIS, sempre nello stesso video di propaganda

Nello stesso rapporto dell’antiterrorismo di un paio di mesi fa, trascrizione di un incontro tenutosi in Ungheria, si spiega come la strategia degli attacchi alle carceri per permettere l’evasione “paga” il terrorismo, e che <<l’unica soluzione durevole per la sfida che affrontiamo nel nord-est della Siria è che ogni paese rimpatri, riabiliti, reintegri e, nei casi appropriati, processi i suoi cittadini per i crimini commessi>>: tra questi paesi ci sono anche le democrazie occidentali, nazioni da cui in molti sono partiti per ingrossare le file del califfato. E sembra paradossale che quelle stesse nazioni “dimentichino” i “loro” terroristi, e lascino proliferare la minaccia fondamentalista, dopo anni di “crociate” contro l’eversione islamica e dopo maldestri tentativi di "esportare la democrazia". Oltre ai bambini si citano anche <<molte donne che sono vittime, non responsabili, delle atrocità da combattere per cui la nostra coalizione è stata formata. In una recente operazione ad al-Hol, per citare un esempio, sono state trovate quattro donne incatenate in un tunnel con segni di tortura>>, mentre altre <<potrebbero essere un problema per la sicurezza dei campi>>.

 


Sono molti quelli che, negli ultimi anni, hanno espresso preoccupazioni per il trattamento riservato ai cosiddetti “figli dell’odio”: insieme a loro cresce anche il rischio della minaccia jihadista globale e l’ampiezza di una crisi umanitaria e sociale immane. Da tempo si susseguono comunicati e video delle diverse forze delle FDS (le Forze Democratiche Siriane di cui fanno parte le YPG, le YPJ e altri reparti dedicati specificamente alla lotta dell’ISIS e alla sicurezza dei detenuti) in cui si documentano sequestri di armi, telefoni, uniformi nemiche, materiale di propaganda in diverse lingue oltre agli arresti di fuggitivi pronti a ritornare a combattere con l’IS oppure a entrare tra le sue file per la prima volta, nel caso dei bambini. Nei casi peggiori invece si contano i morti negli attacchi alle prigioni tra chi gestisce la sicurezza di qui campi, i civili e gli stessi miliziani. Le FDS accusano lo stato turco di fomentare quelle rivolte nei campi, con l’obiettivo di destabilizzare l’area e “tenerli impegnati” con una minaccia interna ai loro confini, come abbiamo spiegato pochi giorni fa, quando abbiamo sintetizzato un briefing delle YPJ, in cui si mostrano disegni di bambini raffiguranti armi e corpi mutilati, oltre a rivolte interne ai campi in concomitanza dei bombardamenti turchi con protagoniste le donne vestite di nero e a terribili immagini di bimbi presumibilmente trucidati da loro coetanei. Il titolo dell’incontro diffuso su YouTube è eloquente: “Il supporto ininterrotto della Turchia all’Isis”.


Il disegno di un "figlio dell'odio"



Il 3 Dicembre un portavoce delle FDS annunciava che le operazioni in coordinamento con la coalizione internazionale a guida USA erano sospese proprio per gli intensificati attacchi turchi, attacchi per cui molti denunciano le responsabilità sia degli Stati Uniti che della Russia, dato che controllerebbero gli spazi aerei “invasi” dalla Turchia, e date anche le “timide” reazioni degli USA, alleati contemporaneamente con il secondo esercito più numeroso della NATO (quello turco) e con le milizie di difesa popolare del Rojava contro l’ISIS: per questo sono tanti quelli che richiedono una “No Fly Zone” in Rojava. L’altro-ieri è arrivata la comunicazione ufficiale che le operazioni congiunte sono state riprese: un emiro arrestato e diversi nascondigli delle “cellule dormienti” colpiti è il bilancio di tre “blitz”.


Immagini di alcuni degli svariati "blitz" all'interno di al-Hol diffuse su Telegram: sopra un miliziano dell'ISIS tenta di fuggire travestito da donna; sotto alcune armi sequestrate all'interno del campo.


LA DENUNCIA DI MEDICI SENZA FRONTIERE

 

L’organizzazione non governativa Medici Senza Frontiere ha pubblicato un mese fa un rapporto proprio sul campo di al-Hol (inizialmente concepito come un “normale” campo profughi) dove si riportano le condizioni inumane cui sono sottoposti diversi minori, e le difficoltà che si affrontano nel prestare operazioni di soccorso, con conseguenze letali: <<A maggio del 2021 un bambino di 5 anni è stato investito da un camion all’interno del centro e portato d’urgenza alla nostra clinica dove il team ha chiesto il trasferimento in ospedale per un intervento chirurgico d’urgenza. Nonostante l’emergenza, ci sono volute ore prima che il suo trasferimento fosse approvato ed è morto durante il tragitto verso l’ospedale, da solo e privo di sensi. Inoltre, ci sono molte segnalazioni di ragazzi che raggiunta l’età adolescenziale vengono separati forzatamente dalle loro madri o tutrici e non si sa nulla o quasi nulla sulla loro sorte (…) Spesso l’accesso alle cure mediche, per chi ottiene il permesso, si trasforma in un calvario. I bambini che necessitano di cure presso l’ospedale principale, che dista circa un’ora di macchina dal campo, vengono accompagnati da guardie armate e nella maggior parte dei casi viene negato ai genitori il permesso di accompagnarli. Al-Hol è di fatto un’enorme prigione a cielo aperto, dove vivono soprattutto bambini, molti dei quali sono nati lì. Vengono privati della loro infanzia e sono condannati a una vita esposta a violenza e sfruttamento, senza istruzione, con assistenza medica limitata e senza alcuna prospettiva per il futuro>>.

 

Nel rapporto non vengono risparmiate critiche alla comunità internazionale: <<I membri della Coalizione Globale contro l’ISIS, così come gli altri paesi i cui cittadini rimangono trattenuti ad Al-Hol e in altre strutture e campi di detenzione nel nord-est della Siria, hanno abbandonato i loro cittadini. Questi paesi devono assumersi le proprie responsabilità e individuare soluzioni alternative per le persone trattenute nel campo e invece, non solo hanno ritardato o rifiutato di rimpatriare i loro cittadini, ma in alcuni casi sono arrivati a privarli della loro cittadinanza, rendendoli apolidi (…) Non ci sono ancora alternative a lungo termine per porre fine a questa detenzione arbitraria e indefinita. La situazione non potrà che peggiorare fintanto che le persone saranno trattenute ad Al-Hol, lasciando una nuova generazione a rischio di sfruttamento e senza alcuna speranza per un’infanzia senza violenz>>

 


Nella versione in inglese del documento si specifica che: <<le nostre ripetute richieste di permesso per operare nelle aeree controllate dal Governo siriano non sono state accettate. In aree dove l’accesso può essere negoziato, come il nordovest e il nordest della Siria, gestiamo e supportiamo ospedali e centri di cura, oltre a fornire servizi sanitari tramite cliniche mobili>>.

 

 

LE INTERVISTE ALLE VITTIME E AI CARNEFICI: RUOLI CHE SI CONFONDONO QUANDO I BAMBINI SONO COSTRETTI AD ARRUOLARSI

 

Quando il sedicente stato islamico era al suo apice, circa sette anni fa, anche l’attenzione dei media internazionali -inclusi quelli italiani- era altissima. Oggi, mentre vige una sorta di “embargo mediatico” in Rojava e l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale è focalizzata sul conflitto ucraino, l’interesse verso le barbarie dell’ISIS, verso il pericolo “dormiente” che rappresenta e verso quelle persone che hanno dato la loro vita per scongiurarlo passano in secondo piano.

 

Restano però una serie di interviste e servizi giornalistici di quel periodo, girati principalmente in Iraq. Il primo che segnaliamo è il documentario (in inglese) dell’emittente statunitense PBS: oltre a diversi filmati di propaganda in cui si mostrano le scene di addestramento della “scuola” per i cuccioli del califfato viene intervistato un minore, reo di non aver voluto cedere alla coscrizione forzata: un boia gli ha amputato una mano e un piede come monito per tutti gli altri.

 



Ci sono poi diversi servizi della trasmissione Piazzapulita: il primo è stato girato nel 2016 a Raqqa, allora capitale del califfato; un anno dopo veniva intervistato un “soldato” di soli 13 anni e due “mogli dell’Isis” .

C’è poi un video diffuso dalle SDF 9 mesi fa in cui viene intervistato un miliziano dell’ISIS adulto e un altro minorenne, dove spiega anche che quest'ultimo si preparava per un attacco a un centro di detenzione finalizzato a “liberare i fratelli”; risale invece al 2016 il video diffuso da Le Iene in cui si intervistano quattro miliziani dell’ISIS, di cui due giovanissimi, detenuti però dai peshmerga iracheni. 

 


 

Concludiamo con le parole della giornalista Francesca Mannocchi, autrice insieme ad Alessio Romenzi del documentario “ISIS, domani: Le anime perse di Mosul”, realizzato tra il 2016 e il 2018:

 

In questi estratti dal documentario di Mannocchi si intervistano un orfano di genitori uccisi dall’ISIS, un figlio e le mogli di due “Daesh”



 

<<Sia i figli dei carnefici sia i figli dei civili in senso stretto (anche questa è una definizione nebbiosa) sono l’arsenale che lo Stato Islamico si è lasciato alle spalle, perché i bambini nella struttura di costruzione del califfato sono il mattone più potente: sono puri, sono ideologizzati, hanno vissuto e masticato solo violenza e ciò li rende il vero arsenale. I figli dei miliziani vivono una condizione particolarmente dolorosa perché sono stigmatizzati, sono marginalizzati, rifiutati dalla società e dai loro stessi coetanei, e rappresentano l’occasione perduta della comunità internazionale: non saper leggere l’eredità delle guerre ha favorito la condizione per creare le radici delle guerre successive (…) si contano circa mezzo milioni di minori cresciuti sotto lo stato islamico>>.

In un altro post in cui recensivamo gli incontri con le scuole organizzati da Emergency, intitolati “La guerra è il mio nemico”, sempre Mannocchi parlava del ruolo dei media in relazione alla tragedia dei “figli dell’odio”: <<negli ultimi anni è stato fatto un maquillage dell’informazione a un’opinione pubblica intorpidita: solo manipolando i media possiamo giustificare il fatto che alla violenza si risponda con la violenza (…) se accettiamo che vengano sterminate le famiglie dei miliziani dell’ISIS perché non sappiamo come reintegrare i loro figli nella società questo è un fallimento>>.

 

 

Anarco-pacifista

 

 

Come di consueto in calce al post aggiungiamo due citazioni musicali: la prima è la canzone contro la guerra dei Rolling Stones, “Gimme Shelter”, il cui ritornello dice <<La guerra, bimbi, dista solo uno sparo>>. La seconda è degli Assalti Frontali, Er Tempesta e Nummiriun, dedicata al “partigiano contemporaneo” Lorenzo Orsetti, morto nel 2019 combattendo l’ISIS con le YPG, dal titolo “Compagno Orso”.

 


 


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