È arrivato l'accordo di cui si è vociferato negli ultimi mesi: Assange sarà libero a breve, ma la libertà di stampa è ancora in pericolo...
Julian Assange è quasi libero.
Julian Assange è quasi libero.
Torniamo a parlare di Julian Assange dopo aver
incontrato Stella Moris a “Imbavagliati, Festival Internazionale del
Giornalismo Civile”, dove ha ricevuto il Premio Pimentel Fonseca.
Dopo aver seguito una serie di festival di auto-produzioni grafiche ed editoriali (“Ué Underground Eccetera”, “Raise Your Zine”, “Crack! Vudu” e “Santa Feira”) oltre a quello organizzato da Mediterranea Saving Humans, “A Bordo!”, il nostro auto-inviato per nulla speciale, il difficilmente gestibile Cronista Autogestito, si è recato a un evento più “formale” e “istituzionale”, ma non per questo meno valido e denso di spunti di riflessione sul ruolo del giornalismo, sulla censura e sulla ricerca della Verità.
Nel post che segue ci focalizziamo principalmente sulla vicenda dell’hack-tivista australiano, sugli aspetti della sua attività che alcuni considerano controversi mentre, a nostro dire, di controverso c’è solo il tentativo di incarcerare chi si batte per un’informazione libera, senza la quale non ci può essere una società giusta ed equa.
Nella parte conclusiva troverete alcune considerazioni che ci sono rimaste particolarmente impresse della tre giorni, che si è conclusa Sabato, su diversi temi che ci sono particolarmente a cuore: dalle "persone in movimento" al tema della detenzione, passando per la guerra e le mistificazioni di certi meccanismi mediali.
L’informazione e le conoscenze corrispondono a un potere, un potere tanto vasto quanto basilare, dato che siamo l’unica specie sulla Terra che può tramandare conoscenze complesse ai posteri.
Il potere del sapere dovrebbe essere distribuito equamente fra tutti, così come ogni altra risorsa, materiale e non.
Julian Assange è tra i fondatori della piattaforma Wikileaks il cui scopo era quella di prendere informazioni, e dunque potere, da chi ne aveva molto, per poi “redistribuirlo” e restituirlo alla collettività, proteggendo al contempo chi forniva quelle informazioni tramite sistemi di cifratura. La mole di documenti era immensa e per questo alla stessa collettività, oltre che al suo team, spettava il compito di controllare quelle notizie, prevenendo la pubblicazione di notizie deliberatamente false o pericolose: questo concetto è a nostra detta cruciale, perché implica un controllo collettivo dell’informazione, un protagonismo auto-gestionario nelle verifica delle fonti che non dovrebbe essere delegato solo agli specialisti della comunicazione e della politica.
Come abbiamo già argomentato, chiedere la liberazione di Assange è un dovere morale di tutti quelli che hanno a cuore la libertà di parola, e il suo caso è preminentemente politico, più che mediatico e giudiziario: hanno prima imbastito contro di lui uno scandalo sessuale in Svezia, si è poi rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador londinese “auto-recludendosi” per 7 anni, e da 4 anni è in un carcere di massima sicurezza britannico, dove vive in un isolamento totale e barbaro per 22 ore al giorno in attesa che venga esaminata la richiesta di estradizione verso gli USA, dove rischia 175 anni di prigione per spionaggio o, addirittura, la pena di morte, se l'accusa formulata nei suoi confronti fosse quella di cospirazione. Negli Stati Uniti è accusato in base al cosiddetto “Espionage Act”, una legge promulgata nel 1917, quando la tecnologia che fa funzionare le nostre radio era ancora agli albori, quando la concezione della libertà di stampa era molto diversa da quella attuale, quando non esistevano ancora le potenzialità della rete di favorire sia la comunicazione libera sia un controllo repressivo e capillare vagamente immaginato da scrittori come Orwell.
Dopo aver provato a macchiare indelebilmente la sua immagine con l’accusa (caduta e infondata) di stupro, chi lo incolpa sostiene che l’attivista, giornalista e programmatore sia un terrorista o una spia al servizio di qualche oscura potenza statale. Secondo chi scrive queste accuse sono delle fandonie campate in aria: la piattaforma Wikileaks infatti ha ospitato migliaia di documenti non facendo sconti a nessuno, né agli USA, né alla Russia, né alla Cina, né ai potentati delle multinazionali private, ed è anche per questo che è molto complicato valutare in maniera precisa l’estensione del “raggio” di “nemici” che Assange e il suo team, oltre alle diverse testate internazionali che hanno collaborato con loro, si sono fatti, ed è per questo che non bisogna smettere di indagare e parlare di questa immensa vicenda.
E comunque, se pure volessimo ammettere per assurdo che Assange fosse uno dei peggiori terroristi di tutti i tempi e non uno dei giornalisti più coraggiosi e preparati della storia, se pure volessimo additarlo come “il nemico pubblico numero 1” del “disordine” mondiale costituito, bisognerebbe come minimo assicurargli delle condizioni detentive che siano il più umane possibile (abbiamo scritto diversi articoli sul tema della detenzione in merito, come questo dedicato al caso Cospito).
Oltre all’accusa di essere al soldo di qualche agenzia di intelligence molti imputano ad Assange l’avere le mani “sporche di sangue” per le conseguenze delle sue rivelazioni, come accaduto in Kenya quando, in occasione delle elezioni del 2007, delle rivelazioni di Wikileaks innescarono un’ondata di violenza.
In merito alla vicenda Assange dichiarò a Carole Cadwalladr del The Guardian nel 2010: <<in quel frangente morirono circa 1300 persone e 350 mila dovettero fuggire. Fu un risultato della nostra nostra fuga di notizie. D’altra parte gli abitanti del Kenya avevano diritto a sapere che 40 mila bambini morivano di malaria, e che molti altri morivano per il denaro portato al di fuori del Kenya e della conseguente svalutazione dello scellino (…) Bisogna iniziare con la verità. La verità e l’unica maniera per arrivare da qualche parte, perché ogni decisione basata su bugie o ignoranza non può condurre a buone conclusioni>>. Altre accuse affini a questa riguarderebbero il presunto pericolo di vita di diversi giornalisti, politici, diplomatici ed esponenti di ONG, a causa delle rivelazioni di Wikileaks.
Un giornalista dovrebbe cercare di essere “scomodo” anche verso le proprie convinzioni (e, come si sostiene nel manifesto programmatico di questa Zina/Rivista, manifestarle è in realtà un passo necessario per tendere verso la massima obiettività), e per questo abbiamo vestito i panni dell’“avvocato del diavolo” e abbiamo fatto questa domanda a Stella Moris:
<<Alcuni sostengono che la pubblicazione di certe notizie ha messo diverse vite a rischio: ammesso che sia vero, lei pensa che sia un prezzo necessario da pagare per avere una società e un mondo migliore?!>>.