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7.4.24

THIS IS MY LAND: LA STORIA INSEGNATA IN PALESTINA

COME SI INSEGNA LA STORIA NELLE SCUOLE ISRAELIANE E IN QUELLE DEI TERRITORI OCCUPATI?!


Per la rubrica "RecenTips" parliamo di un documentario che mostra come viene insegnata la storia dei territori occupati palestinesi e della nascita di Israele nella martoriata terra di Palestina


Si intitola "This is my land" ("Questa è la mia terra") e ci offre uno sguardo diretto nel cuore di diverse istituzioni scolastiche, palestinesi e israeliane.

 
Fa comprendere come il trauma della Shoah viene strumentalizzato per costruire una società militarista che non si pone particolari dubbi etici, eccetto uno: la sopravvivenza e l'espansione della propria nazione a scapito di un altro popolo. 


Nelle scuole palestinesi si cerca invece di riaffermare la propria identità, negata e oscurata, e di lottare per i propri diritti.


Una locandina del film: all'interno della mappa della Palestina le foto di alcune bambini sui banchi di scuola. Altri mantengono dei cartelli.


UN'EX SOLDATESSA CHE HA COMINCIATO A PORSI DEI DUBBI

"This is my land" è uscito nel 2015, prodotto in Francia da "Iliade & Films - Saya". In novanta minuti sintetizza l'insegnamento di un anno scolastico della storia della nascita di Israele e dell'occupazione coloniale della Palestina, visto dalla prospettiva di insegnanti e studenti sia palestinesi che israeliani. Autrice e regista è la franco-israeliana Tamara Erde, cresciuta in Israele e soldatessa durante la Seconda Intifada (primi anni duemila).

All'inizio del documentario l'autrice spiega: <<quando ero a scuola non ho mai avuto dubbi o domande sulla storia nazionale che mi veniva insegnata. Ero patriottica e volevo prestare servizio nell'esercito. Non sapevo nulla della storia palestinese o dell'occupazione. Soltanto durante il servizio militare ho cominciato a fare domande e avere dubbi>>.

Ha perciò deciso di osservare e ascoltare studenti e insegnanti, per capire come viene insegnata la storia della terra in cui è nata in sei diversi istituti, in Israele e nei territori palestinesi occupati. Inizialmente aveva contattato una cinquantina di docenti, ma una prima scrematura di quelli che sarebbero stati inclusi nel filmato è subentrata, gioco forza, in seguito alle decisioni delle autorità occupanti. Il ministero dell'istruzione israeliano non le ha concesso di fare riprese all'interno di scuole pubbliche. La censura, come emerge dal filmato, è pervasiva: nei libri di testo la Palestina praticamente non esiste. Anche solo pronunciare la parola "Nakba", lo sfollamento forzato e la pulizia etnica dei palestinesi del 1948, è vietato ai docenti, sanzionato con una multa e il licenziamento, come ha spiegato in un'intervista.

Per questo ha dovuto "ripiegare" scegliendo alcune scuole private. Nel selezionare le classi più adatte al documentario ha privilegiato sia quelle con docenti e discenti più attivi, ma anche quelle in cui si può osservare, quasi sempre molto debolmente, una prospettiva di cambiamento.



SEI ISTITUTI, DIVERSI GRADI DI ISTRUZIONE, LIBERTÀ E INDOTTRINAMENTO

Gli istituti visitati in totale sono sei e i gradi di istruzione vanno dalle elementari al liceo. All'interno di questi si trovano diverse "gradazioni" e suddivisioni di identità arabo-palestinese ed ebrea-israeliana, diversi livelli di ricchezza, e quindi differenze di classe, ma soprattutto diversi gradi e forme di libertà, o di anelito alla libertà: si va dalla legittima istanza di ribellione e resistenza di un popolo oppresso e sotto occupazione militare, alle continue mistificazioni basate sull'interpretazione di un testo sacro per imporre la propria egemonia culturale e materiale su un pezzo di territorio.

17.1.24

IL “GIORNALICIDIO” IN PALESTINA

GENOCIDIO A MEZZO STAMPA E MANIPOLAZIONI MEDIATICHE

 

 

Foto di un giornalista palestinese: in mano ha una fotocamera con teleobiettivo. Indossa un casco con la scritta "tv" e giubbotto con la scritta "press". Sullo sfondo il deserto e alcuni ragazzi.


Mentre sono almeno più di 20mila le vittime, quasi tutte civili, della punizione collettiva dei gazawi e dei palestinesi in tutti i territori occupati, la guerra di sterminio attuata grazie al “pretesto” offerto dai nazionalisti islamici di Hamas (che potrebbe evolvere in una soluzione della questione palestinese, in una “soluzione finale” di Israele per completare la pulizia etnica dei palestinesi o in un conflitto sempre più esteso e diretto tra i vari “imperi" o aspiranti tali) è senza precedenti: oltre alla vastità dell’attacco dell’entità sionista e alla catastrofe umanitaria in corso, mai prima erano morti così tanti membri del personale delle Nazioni Unite (si contano almeno 148 vittime tra gli operatori ONU, quasi tutti tra le fila dell’UNRWA, l’Agenzia per i rifugiati palestinesi), delle persone che offrono assistenza sanitaria (quasi 340 tra medici e infermieri) e mai prima erano morti così tanti cronisti e operatori dell’informazione in così poco tempo (tra gli 80 e i 120), anche se lo stato teocratico israeliano non è nuovo all’eliminazione di “voci mediatiche”, come testimonia l’omicidio di Shireen Abu Akleh nel 2022.

 

L’etno-crazia cliente di NATO/USA in medio-oriente riscrive le leggi di guerra, incluse quelle che dovrebbero tutelare gli operatori dei media, violando in maniera palese e grossolana le principali regole del diritto internazionale, attuando una rozza propaganda pedissequamente replicata dalla maggioranza dei media mainstream occidentali. Per questo nell’articolo che segue ci focalizziamo su una serie di considerazioni meta-mediatiche di questi cento e passa giorni di massacri, e quindi sulla strategia e sulle tattiche propagandiste sioniste, sulla “scorta mediatica” che troppi organi di informazione stanno fornendo loro e ai paesi complici del “caso da manuale di genocidio”, come lo ha definito Craig Mokhiber prima di lasciare l’ufficio newyorkese dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

 


TATTICHE E STRATEGIA DELLA GUERRA MEDIATICA ISRAELIANA: L’AUTODIFESA INVOCATA A SPROPOSITO

Una delle principali tattiche della macchina da guerra mediale israeliana consiste nel minimizzare le perdite sul campo affermando al contempo di essere ancora in grado di difendere il “focolare coloniale ebraico” dopo aver miseramente fallito, prima militarmente e poi umanamente. Sono partiti con il de-umanizzare il popolo palestinese, identificando tout-court questo con Hamas, e dipingendo la principale fazione del variegato fronte della resistenza come affine ai tagliagole dell’ISIS (mentre Netanyahu e i fascio-sionisti sostenevano occultamente Hamas, anche in funzione anti-ISIS, oltre a fungere da "nemico di comodo"), enfatizzando gli aspetti dell’eccidio commesso da una singola componente della legittima resistenza in armi di un popolo occupato, raccontando una storia che inizia e finisce nel 7 Ottobre del 2023, nascondendo decenni di occupazione illegale e il “peccato originale-colonialista” che ha portato alla nascita dello stato sionista (definizione più corretta di “stato ebraico”, come sostengono pure molti rabbini) e anche manipolando quello che è effettivamente accaduto a cominciare da quel tragico giorno (ricordate la fake-news dei bambini decapitati?!). Tragico e orrendo per le vittime civili di ambo le parti, anche se quelle di una parte sono molte di più e dovevano essere evitate.

16.1.24

IL LINGUAGGIO GENOCIDA DI ISRAELE

LA CAUSA LEGALE INTENTATA DAL SUDAFRICA

 

Secondo il Sudafrica Israele sta commettendo un genocidio, e per questo lo ha denunciato alla Corte Internazionale di Giustizia: uccisioni di massa, distruzioni calcolate e indiscriminate che hanno reso Gaza invivibile e colpito ogni tipo di infrastruttura a cominciare dagli ospedali, danni psico-fisici ampliati dall’assedio cui era già sottoposta la popolazione (non facendo entrare risorse basilari come acqua e cibo) e attualmente incrementato, sfollamento di persone (anche verso aree definite “sicure” che poi vengono bombardate) e perfino gli ostacoli per impedire le nascite di infanti, con donne incinta che se sopravvivono hanno difficoltà enormi a partorire e con la mancanza di corrente elettrica che fa spegnere le incubatrici, senza la possibilità di poter fornire aiuti alle quasi 200 donne che ogni giorno hanno difficoltà relative alla gravità (dati dell’OMS).


Nel disegno un elicottero sgancia un missile verso un bimbo palestinese, rivolto di spalle, con una kefiah e un orsacchiotto. Sull'elicottero c'è scritto Israel, e l'ombra proiettata dal bambino diventa la scritta "Gaza". Ai lati le mura che circondano Gaza
Disegno di Carlos Latuff rilasciato con licenza creative commons


Sono dunque 4 su 5 i tipi azioni commesse dalla forza occupante che, secondo il Sudafrica, ricadono nel II articolo della Convenzione per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio, e basta che anche solo una di queste azioni sia commessa per configurare “il crimine dei crimini”, che consiste nell’intenzione di distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso anche solo in parte.

 

Ma, secondo il team di legali del Sudafrica, Israele sta fallendo anche nel punire chi lo incita, quando non sono le stesse alte cariche dello stato a farlo direttamente. In questo post ci concentriamo dunque sul linguaggio genocidiario usato nei confini dello stato teocratico israeliano, linguaggio che costituirebbe la prova delle intenzioni genocide che, per l’appunto, precedono le azioni.


Lo facciamo a partire dal dossier presentato dal Sudafrica, dalle argomentazioni esposte nella prima udienza la scorsa settimana (in particolare quelle del legale Tembeka Ngcukaitobi che si è occupato di illustrare le evidenze che dimostrano le intenzioni e le relative dichiarazioni di governanti, militari e società civile) e analizzando anche altre fonti stampa.

 

Precisiamo che a questo stadio del procedimento non è ancora necessario provare “nel merito” che il crimine di genocidio si sia consumato (eventuali responsabilità individuali dovrebbero essere accertate da un Tribunale ad hoc e dalla Corte Penale Internazionale), ma basta dimostrare che le accuse siano plausibili per fare applicare le misure cautelari e imporre la fine dell’invasione (o perlomeno un suo forte ridimensionamento), un provvedimento che la parte dell’umanità non indifferente allo sterminio chiede a gran voce. Inoltre va specificato anche che, nel momento in cui le misure venissero applicate e Israele non le rispettasse, verrebbe coinvolto il Consiglio di sicurezza ONU. 

Le misure per fermare il massacro, inviare più aiuti umanitari e prevenire il compimento del genocidio verrebbero “allargate” ai paesi alleati di Israele (Italia inclusa). La difesa israeliana ha invece ribaltato le accuse, dicendo che Hamas si è macchiata di un genocidio e che gli stati che hanno avallato la sua condotta sono altrettanto responsabili. Di sicuro un genocidio non ne giustifica un altro, così come la Shoah non giustifica la Nakba del ‘48 (letteralmente “La Catastrofe”, e cioè lo sfollamento forzato e la pulizia etnica dei palestinesi) e quella del 2023!

 

 

foto di Netanyahu con una sua dichiarazione:<<non ci fermeremo fino a quando la nostra missione non sarà completa, fino a quando la luce sovrasterà l’oscurità, fino a quando il bene sconfiggerà il diavolo assoluto che minaccia noi e l’intero pianeta>>
Foto originale rilasciata con licenza creative commons. Clicca o "schiaccia" le immagini per vederle in maniera nitida

 

IL CRIMINE DEI CRIMINI E LA “PISTOLA FUMANTE”

Il genocidio è “il crimine dei crimini”, l’atto illegale più atroce dal punto di vista umano e dalla prospettiva del diritto penale e internazionale, ed è anche un “processo”, qualcosa che si sviluppa malignamente nel tempo, utilizzando la macchina della propaganda per disumanizzare il gruppo che si vuole colpire e, così facendo, rimuovendo l’empatia nei confronti di propri simili...

16.12.22

SCRIVIAMO QUELLO CHE NON VORREMMO LEGGERE!

Partendo da un aforisma sul giornalismo (e dalle sue “varianti”) arriviamo a riflettere sui “massimi sistemi” della comunicazione e sul perché “scriviamo quello che non vorremmo leggere”!

 


<<La vera libertà di stampa è dire alle persone quello che non vorrebbero sentirsi dire>>

<<Giornalismo  è parlare di qualcosa che qualcuno non vuole sia scritto. Il resto è fare pubbliche relazioni>>

<<Dire una verità che qualcuno vuole non che sia pubblica è giornalismo, il resto è marketing>>

<<Le notizie sono cose che qualcuno non vuole siano pubblicate. Il resto è pubblicità>>

<<Qualunque cosa gli sponsor e la proprietà vogliono pubblicare è pubblicità, il resto sono notizie>>

<<Se qualcuno ti chiama dicendo che ha una storia da raccontare è pubblicità. Il resto è una notizia>>

<<Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che tu conosca. Il resto è propaganda>>


Per la rubrica “Valvola” pubblichiamo un commento di un aforisma e delle sue “varianti”, la cui attribuzione è incerta: la paternità della prima “versione” di questa “frase-concetto” (tra quelle scritte sopra) , viene fatta risalire da molti a George Orwell, così come le tre versioni successive che alcuni invece attribuiscono rispettivamente a Oscar Wilde, Alfred Harmsworth, William Randolph Earst, Katharine Graham e Harold Harmsworth . La quinta e la sesta sembrano essere anonime. Secondo altri queste attribuzioni sarebbero apocrife (e cioè ascritte agli autori menzionati in maniera errata) mentre la settima pare l’unica di attribuzione certa: l’autore è Horacio Verbitsky[1].

Nel titolo c’è la “rivisitazione” di queste massime pensata da Cronissa Nolletta, autrice di questo post, che la fa “propria” rileggendola e aggiungendo un’interpretazione meno immediata e diversa da quella che sarà già balzata alla vostra attenzione... Cominciamo, come di consueto tra le righe digitali di questa rubrica, a “svalvolare” facendo un po’ di filosofia e psicologia “spicciola”! E diciamo spicciola per il tono informale con cui l’affrontiamo ma, a nostra detta, profonda e intensa…

 

 

LA COMUNICAZIONE UMANA E IL COMPITO PIÙ IMPORTANTE DEL GIORNALISMO

La capacità di comunicare e di tramandare conoscenze è probabilmente quello che ci distingue di più dagli altri animali, nel bene e nel male! La nostra società, la tecnologia e la complessità delle nostre relazioni ci hanno fatto “avanzare” a tal punto che siamo “talmente intelligenti da essere stupidi/e”, talmente complicati/e e articolati/e da non riuscire più a essere compatibili con l’ambiente circostante, essendo l’unico animale che inquina e modifica il suo habitat con una tale incisività e consapevolezza (forse quest’ultima non è comunque sufficiente). Il giornalismo fa parte della dimensione comunicativa moderna: chiunque si occupa di informazione ha il compito di raccontare “le cose” che non sono “finzione” e non sono classificabili come “narrativa pura”, dopo averle “selezionate” tra una marea di vicende -in prima istanza- e sforzandosi di essere il più accurati/e e onesti/e possibile…