17.1.24

IL “GIORNALICIDIO” IN PALESTINA

GENOCIDIO A MEZZO STAMPA E MANIPOLAZIONI MEDIATICHE

 

 

Foto di un giornalista palestinese: in mano ha una fotocamera con teleobiettivo. Indossa un casco con la scritta "tv" e giubbotto con la scritta "press". Sullo sfondo il deserto e alcuni ragazzi.


Mentre sono almeno più di 20mila le vittime, quasi tutte civili, della punizione collettiva dei gazawi e dei palestinesi in tutti i territori occupati, la guerra di sterminio attuata grazie al “pretesto” offerto dai nazionalisti islamici di Hamas (che potrebbe evolvere in una soluzione della questione palestinese, in una “soluzione finale” di Israele per completare la pulizia etnica dei palestinesi o in un conflitto sempre più esteso e diretto tra i vari “imperi" o aspiranti tali) è senza precedenti: oltre alla vastità dell’attacco dell’entità sionista e alla catastrofe umanitaria in corso, mai prima erano morti così tanti membri del personale delle Nazioni Unite (si contano almeno 148 vittime tra gli operatori ONU, quasi tutti tra le fila dell’UNRWA, l’Agenzia per i rifugiati palestinesi), delle persone che offrono assistenza sanitaria (quasi 340 tra medici e infermieri) e mai prima erano morti così tanti cronisti e operatori dell’informazione in così poco tempo (tra gli 80 e i 120), anche se lo stato teocratico israeliano non è nuovo all’eliminazione di “voci mediatiche”, come testimonia l’omicidio di Shireen Abu Akleh nel 2022.

 

L’etno-crazia cliente di NATO/USA in medio-oriente riscrive le leggi di guerra, incluse quelle che dovrebbero tutelare gli operatori dei media, violando in maniera palese e grossolana le principali regole del diritto internazionale, attuando una rozza propaganda pedissequamente replicata dalla maggioranza dei media mainstream occidentali. Per questo nell’articolo che segue ci focalizziamo su una serie di considerazioni meta-mediatiche di questi cento e passa giorni di massacri, e quindi sulla strategia e sulle tattiche propagandiste sioniste, sulla “scorta mediatica” che troppi organi di informazione stanno fornendo loro e ai paesi complici del “caso da manuale di genocidio”, come lo ha definito Craig Mokhiber prima di lasciare l’ufficio newyorkese dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani.

 


TATTICHE E STRATEGIA DELLA GUERRA MEDIATICA ISRAELIANA: L’AUTODIFESA INVOCATA A SPROPOSITO

Una delle principali tattiche della macchina da guerra mediale israeliana consiste nel minimizzare le perdite sul campo affermando al contempo di essere ancora in grado di difendere il “focolare coloniale ebraico” dopo aver miseramente fallito, prima militarmente e poi umanamente. Sono partiti con il de-umanizzare il popolo palestinese, identificando tout-court questo con Hamas, e dipingendo la principale fazione del variegato fronte della resistenza come affine ai tagliagole dell’ISIS (mentre Netanyahu e i fascio-sionisti sostenevano occultamente Hamas, anche in funzione anti-ISIS, oltre a fungere da "nemico di comodo"), enfatizzando gli aspetti dell’eccidio commesso da una singola componente della legittima resistenza in armi di un popolo occupato, raccontando una storia che inizia e finisce nel 7 Ottobre del 2023, nascondendo decenni di occupazione illegale e il “peccato originale-colonialista” che ha portato alla nascita dello stato sionista (definizione più corretta di “stato ebraico”, come sostengono pure molti rabbini) e anche manipolando quello che è effettivamente accaduto a cominciare da quel tragico giorno (ricordate la fake-news dei bambini decapitati?!). Tragico e orrendo per le vittime civili di ambo le parti, anche se quelle di una parte sono molte di più e dovevano essere evitate.

 

Altro macabro “ritornello” manipolatorio dei governanti e dei militari è quello che i miliziani di Hamas usano la popolazione civile come scudi umani: anche se non ci fosse l’intenzione di usarli come scudi umani, in una striscia di terra tra le più densamente popolate della terra, nonché prigione a cielo aperto più grande del Mondo creata da Israele, sarebbe logisticamente impossibile non usarli come tali, a meno che non si desse alla popolazione civile la possibilità di evacuare. Inoltre, tramite la “poderosa” macchina di intelligence militare sionista, si potrebbero individuare i “terroristi” con delle operazioni “chirurgiche”, come avvenuto quando è stato eliminato il “numero 2” di Hamas (e altri funzionari dell’organizzazione) in Libano. Ma la popolazione civile non può essere evacuata perché gli unici punti di uscita sono chiusi! Presumibilmente con l’eccezione dei punti di uscita e di entrata sottoterra, e cioè i tunnel “clandestini” usati per il contrabbando dagli stessi miliziani (Israele pianifica di chiudere anche quelli). E in più, considerando anche che Hamas usa effettivamente la popolazione come scudi umani, e pure credendo che ogni ospedale bombardato, ogni luogo di culto, ogni scuola, ogni infrastruttura sia stata usata dai miliziani, ciò non giustifica assolutamente i bombardamenti indiscriminati (nemmeno per il diritto internazionale), non può avallare i quintali di esplosivi lanciati in zone che venivano indicate dalle forze di offesa israeliane come sicuri luoghi per la popolazione, tramite i famosi lanci aerei di volantini, mezzo usato da quando esiste la storia dell’aviazione... Ma ci sono stati anche i meno noti e più inquietanti avvisi telefonici da numeri privati fatti da voci sconosciute a specifici cittadini palestinesi, le voci di qualcuno che li chiamava per nome intimandogli di avvisare quante più persone possibile prima di un imminente raid, e così facendo scatenando il panico. Una sinistra “gentilezza” di cui solo qualcuno è riuscito a godere salvandosi la pelle, e che è stata usata davanti alla Corte internazionale di giustizia come pretesto per affermare che è stato fatto il possibile per limitare i "danni collaterali".

 

La strategia mediatica è sostanzialmente tutta incentrata su un diritto all’autodifesa invocato a sproposito perché, ai sensi dell’art. 51 della Carta dell’ONU, non può essere invocato nei confronti di un territorio occupato illegalmente. Peggio ancora spacciando un’invasione sproporzionata come “legittima difesa” ed evocando la lotta della presunta “civiltà occidentale” contro la “barbarie islamica”. La stessa strategia è stata sostanzialmente impiegata anche dal team israeliano di legali davanti alla Corte.

 

 

NON BISOGNA RACCONTARE QUELLO CHE SUCCEDE A GAZA: TANTO VA RASA AL SUOLO E I PALESTINESI SONO TUTTI “TERRORISTI” SUB-UMANI...

Perché la guerra di propaganda funzioni c’è bisogno di censurare quello che sta avvenendo nella striscia di Gaza, un fazzoletto di terra con ammassati esseri umani come se fossero sardine, dove già da prima dell’escalation tutto era razionato e controllato dagli occupanti. Ufficialmente dicevano di essersi ritirati da lì, ma di fatto avevano imposto un assedio e spostato militari e coloni per colonizzare meglio la Cisgiordania: controllavano tutto quello che entrava e usciva dalla striscia, dall’acqua all’elettricità, dalla valuta alle connessioni internet, dalle calorie giornaliere assegnate a un singolo abitante al registro delle nascite.

 

La mancanza di elettricità per far funzionare perfino le incubatrici di inermi infanti serve anche a questo, serve a far funzionare il meno possibile smartphone e connessioni dei “citizen journalists”, delle persone che riescono a far trapelare delle informazioni... Informazioni che comunque non sono sufficienti, nonostante l’importanza cruciale rivestita dal loro preziosissimo lavoro mediatico “improvvisato”. 


Invece i giornalisti “di professione” sul campo sono tutti palestinesi. Quelli stranieri o non vengono fatti entrare, sia dall’Egitto sia da Israele, o viene permesso loro l’accesso in modalità “embedded” (letteralmente “incorporata”), ossia scortati dalle forze di offesa israeliane con il permesso di riprendere e riportare solo quello che vogliono loro: principalmente in questi giorni vediamo filmati propagandistici di soldati israeliani che sparano al vuoto, mentre sui canali alternativi al mainstream vediamo molte azioni portate a termine contro di loro, oppure nelle quali loro stessi attaccano in maniera brutale e illegale obiettivi civili, sia umani che infrastrutture, facendo detonare tonnellate di esplosivi. Le immagini in cui coloni (milizie paramilitari de facto) e soldati reprimono illegalmente e immoralmente civili provengono da chi riesce a documentare qualcosa in Cisgiordania, sempre se non viene attaccato o arrestato. Mentre l’attenzione è dirottata verso la striscia di Gaza, nell’altra parte dei territori occupati si continua a opprimere con maggiore veemenza di prima, continuando a distruggere i possedimenti palestinesi per espandere gli insediamenti e “mangiare” altri preziosi pezzi di terra.

 

I giornalisti internazionali non possono quindi entrare a Gaza, mentre quelli locali vengono sterminati impunemente: eventuali vittime di paesi terzi, forse, farebbero molto più scalpore, mentre i poveri colleghi palestinesi per gli invasori sono solo “selvaggi terroristi” o “colpevoli” di vivere insieme ai “terroristi”, come l’intera popolazione dei territori occupati del resto, secondo i “terroristi di stato” israeliani.

 

I militari e i governanti fascio-sionisti dicono di non poter distinguere tra militari e giornalisti, che sono dei civili come gli altri... Dei civili che svolgono un ruolo fondamentale per la società, quello di "comunicare", di "tramandare", uno dei compiti che caratterizza la specie umana ed è tra i più importanti: la nostra vita si basa su informazioni, e viziando le informazioni si distorce il senso stesso della nostra esistenza. Ma i fascio-sionisti, che sminuiscono l’Olocausto paragonando il tragico eccidio commesso da Hamas allo sterminio scientificamente pianificato di quegli ebrei che erano senza terra, hanno tutto l'interesse a non fare distinzioni tra miliziani e operatori dell'informazione, non vogliono distinguere tra civili e militari, nonostante i “timidi” appelli degli USA a bombardare più “morigeratamente”. Ci avevano già raccontato che chiunque era riuscito a documentare l’attacco del 7 Ottobre era automaticamente un “terrorista” per aver fatto il suo lavoro di cronista, e cioè documentare fatti. I caschi e i giubbotti antiproiettile con la scritta “press” che dovrebbero proteggerli sembrano diventare degli obiettivi da colpire scientemente, in barba al diritto internazionale umanitario, e cioè le regole dei conflitti armati. L’hanno detto platealmente con un linguaggio genocida, chiaro, tondo e disgustoso: tutti nella striscia sono “terroristi” o esseri non completamente umani. Giornalisti, medici e bambini sono tutti creature malvagie, demoniache e subumane...

 

 

LA MORTE DELL’INFORMAZIONE E LA COMPLICITÀ DEL “MAINSTREAM”: TRA RESISTENZA NEGATA E TERRORISMO DI STATO

L’informazione sta morendo sia letteralmente, per i colleghi barbaramente trucidati, sia metaforicamente, per l’asservimento della stragrande maggioranza dei media ai potentati che cercano di primeggiare in un mondo multipolare, portando avanti la narrazione unica della “civiltà occidentale” contro la “barbarie terrorista islamica”

Si continua a evocare ossessivamente quell'eccidio terribile, commesso in maniera illegale durante una legale resistenza a un occupante il settimo giorno di Ottobre del 2023, ma non si parla di quello che ha scatenato, e cioè una reazione sproporzionata che consiste nel “terrorismo di stato”.  Non si deve denunciare il terrorismo di stato commesso dalla “civile” barbarie dei fanatici messianici-sionisti, sostenuta ideologicamente, mediaticamente e teologicamente sia da estremisti ebrei che da altri esaltati cristiani (in particolare statunitensi, la “lobby sionista-cristiana”), e che per fortuna molti ebrei nel Mondo -Israele incluso- disconoscono (come abbiamo spiegato più approfonditamente in un saggio informale sulla differenza tra antisemitismo e antisionismo).

 

E quindi la legittima resistenza di un popolo (anche dal punto di vista del diritto internazionale) non passa in secondo piano ma addirittura scompare del tutto per un singolo evento, per un eccidio terribile che però non può invalidare la resistenza tutta: non si deve parlare del variegato fronte della resistenza (esiste solo Hamas) e delle svariate forme che può assumere, e in particolare quelle non violente come il boicottaggio economico. Un’arma non violenta potentissima che tutti noi, “comuni mortali” abitanti della parte di pianeta più ricca, possiamo e dobbiamo usare per fare pressione verso governi e aziende. Guai a criticare Israele: verrai tacciato di anti-semitismo, di essere un difensore del terrorismo, ma fortunatamente sempre più persone (ma comunque troppo poche) cominciano a prendere le distanze dal massacro, per il momento ancora totalmente impunito e addirittura incoraggiato in nome della “legittima offesa” israeliana.

 

Pensiamo al giornalista Raffaele Oriani che si è dimesso da “La Repubblica” scrivendo che <<questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile>>. Le notizie mortifere cui ci siamo colpevolmente assuefatti vengono relegate in dei trafiletti: <<oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15. Sono 90 giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare con Israele, né con la  Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti>>.

 

Ma pensiamo anche a Craig Mokhiber che, a pochi giorni dalla pensione, si è dimesso dalla carica di dirigente dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ammettendo il fallimento decennale della sua organizzazione sulla questione palestinese. Nella lettera inviata all’Alto Commissario, Volker Turk, ha parlato di un <<caso da manuale di genocidio>> e di <<pulizia etnica di Gaza>>, denunciando la complicità non solo di stati e governanti (che sarebbe anche complicità penale qualora venisse legalmente confermato il “crimine dei crimini”) ma anche di chi fa informazione e dei media mainstream: <<le aziende dei media occidentali, sempre di più su richiesta dei governi, stanno violando palesemente l’articolo 20 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando incessantemente i palestinesi per giustificare genocidio e diffondere la propaganda di guerra>>. 

L’ex membro dell’ONU descrive l’organizzazione di cui ha fatto parte come divisa in due: da una parte gli organismi decisionali, più “politici” e visibili, a partire dal Consiglio di Sicurezza bloccato <<dall’intransigenza degli Stati Uniti>>, dei settori e delle persone delle Nazioni Unite che hanno <<ceduto all’opportunità politica>> o che hanno troppa paura di fare il loro dovere, temendo le punizioni degli stati più forti; dall’altra tantissimi dipendenti e funzionari che sono motivati da alti ideali di giustizia, inclusi i lavoratori e le lavoratrici dell’UNRWA, l’Agenzia per i rifugiati palestinesi, che ha perso quasi 150 dei suoi membri sotto le bombe sganciate dall’8 Ottobre (evidentemente sono anche loro “terroristi”, se lo meritavano!).

 

Insomma: anche nello spazio del diritto internazionale ci sono contraddizioni e “conflitti”, e anche le “battaglie legali” vanno studiate e praticate a tutti i livelli.

 


LE STIME CONTESTATE DEI MORTI: NON SOLO NUMERI…

Secondo il CPJ “Comitato per la protezione dei giornalisti”, organizzazione mondiale che difende la professione giornalistica e in possesso dello status consultivo alle Nazioni Unite, sono almeno 83 i cronisti e operatori dell’informazione morti in Palestina a partire dal 7 Ottobre (dato aggiornato al 17 Gennaio e che include anche 3 giornalisti libanesi e 4 israeliani, quest’ultimi morti durante l’attacco di Hamas). Invece per il Ministero dell’Informazione di Gaza controllato da Hamas sono più di 100.

La differenza del funesto conteggio risiede nel fatto che gli accertamenti seguono tempi e metodi diversi. Tra i criteri adottati dal CPJ più importanti da evidenziare c’è quello che distingue militari da civili, non includendo <<giornalisti se ci sono evidenze che agivano per conto di gruppi militari o che erano in servizio come militari al tempo della loro morte>>. Inoltre l’associazione sta <<investigando su numerose segnalazioni ancora non confermate di altri giornalisti uccisi, dispersi, detenuti, feriti, minacciati e sui danni alle redazioni e alle loro abitazioni>>.

 

A proposito di dati è necessario ed esemplificativo aprire una parentesi: avete presente quando si sente dire a reti quasi unificate,  facendo "copia e incolla" di quello che propina la propaganda del governo terrorista israeliano, che “i dati sui morti civili sono forniti dal Ministero della Sanità controllato da Hamas e quindi sono gonfiati”? Bene, allora rispondiamo citando uno studio statistico pubblicato il 6 Dicembre da quei “terroristi” del “The Lancet, (rivista di scienza e medicina tra le più note al Mondo) nel quale chi scrive, oltre a dichiarare la propria neutralità in merito a dispute territoriali, e considerando come parametro i morti dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, afferma che non ci sono evidenze che i dati del Ministero controllato da Hamas sulle vittime totali siano gonfiati ma che anzi, potrebbero essere addirittura sottostimati.

Le “dispute” su questi numeri, sottolinea lo studio, <<non dovrebbero distrarre dall’imperativo umanitario di salvare vite civili assicurando che vengano fornite scorte di medicinali, cibo, acqua e carburante immediatamente>>, ma intanto i giorni passano e le vittime aumentano, e chi non muore per le bombe comincia a morire di fame e di malattie.

Anche secondo "Euro-Med Human Rights Monitor" i dati sarebbero sottostimati perché, a differenza del Ministero controllato dal movimento nazionalista di resistenza islamico, i cadaveri che non vengono recuperati da una Gaza ridotta a macerie vengono inclusi nella mesta conta delle vittime, non appena passa un lasso di tempo inferiore. In altre parole: le autorità che controllano la striscia di Gaza fanno passare più tempo prima di includere i dispersi nelle mortifere statistiche, a differenza della ONG ginevrina.

 

Ci siamo colpevolmente assuefatti a questi mortiferi conteggi, perché ognuna di quelle vittime potremmo essere noi, potrebbe essere la persona a noi più prossima e cara in questo momento: immaginatela ferita, dilaniata, scomparsa sotto un cumulo di calcinacci e pietre, e poi “moltiplicatela” per migliaia. E anche se fosse una sola non sarebbe certo un’esperienza piacevole perdere qualcuno, o perdere la nostra stessa vita...

 


LA VOCE DEL SINDACATO DEI GIORNALISTI PALESTINESI

Ritornando alla pagina più buia della storia del giornalismo, le colleghe e i colleghi del “Sindacato dei Giornalisti Palestinesi” (PJS) negli scorsi giorni hanno diffuso un appello-comunicato (tradotto da Assopace Palestina, qui invece il testo originale in inglese) in cui si chiede di:

 <<Lavorare collettivamente con le organizzazioni internazionali dei media per chiedere un accesso illimitato a Gaza e sfidare le restrizioni imposte dalle autorità israeliane.

Dare priorità al fact-checking e alla loro verifica per contrastare la disinformazione israeliana e prevenire la diffusione di narrazioni distorte.

Considerare la possibilità di rilasciare deposizioni pubbliche, articoli o dichiarazioni congiunte per condannare gli attacchi israeliani contro i giornalisti e gli operatori dei media palestinesi e sostenere la loro protezione.

Perseverare nell’esplorare e riferire su narrazioni e storie provenienti da ogni parte della Palestina. Poiché i palestinesi stanno subendo silenzi, arresti arbitrari di massa e uccisioni, utilizzate le vostre voci e le vostre piattaforme per mettere in evidenza Gaza e attirare l’attenzione sulle sfide affrontate dal popolo palestinese>>.

 

Per questo accogliamo l’appello del sindacato palestinese (e abbiamo già aderito a un altro appello simile diffuso in Italia lo scorso Novembre) e lo rivolgiamo a tutte/tutti le/i colleghi giornaliste/i, a tutte e a tutti le militanti e agli attivisti, a tutte le persone che hanno a cuore il destino dell’umanità e considerano primario il ruolo cruciale dell’informazione e della comunicazione, una facoltà peculiare degli esseri umani, facoltà che purtroppo sembra che abbiamo rivolto verso il male.

 

E lo rivolgiamo anche a tutto il resto della società: boicottate i media che narrano la guerra a senso unico oppure, perlomeno, aprite occhi, orecchie e cervello e fruiteli con spirito critico. Sviluppiamola quella capacità di critica, alleniamo i muscoli del dubbio e del dissenso, e cerchiamo voci “altre” perché ci sono: il problema è che queste altre voci vengono penalizzate dagli algoritmi dei “social asociali” e dei motori di ricerca, vengono relegate nei trafiletti delle più note testate o in un intervento troppo breve dei talk show, con voci sovrastate da quelle più alte di maleducati che non sono in grado di rispondere con argomentazioni sensate... Oppure vengono represse, arrestate e uccise!


Paolo Maria Addabbo

 

 

Alleghiamo e segnaliamo alcuni video di giornalisti palestinesi.

 

In questo video (ripreso dalla CNN) un giornalista scoppia in lacrime in diretta, dopo aver appreso della morte di un collega e di undici membri della sua famiglia. In preda al dolore si toglie casco e giubbotto antiproiettile con la scritta “press” dichiarando che non servono più a nulla.



 

In questo breve video (ripubblicato dal Tg La7) un giornalista israeliano viene minacciato da un poliziotto israeliano in diretta e poi, rivolgendosi alla telecamera esclama: <<ridurremo in polvere Gaza>>.



 

In questo breve video (pubblicato dal The Guardian) un gruppo di giornalisti documentano un attacco in Cisgiordania, l'atro fronte di colonizzazione che sta passando in secondo piano. Uno verrà ferito e insieme agli altri evacuato con un’ambulanza. 



 

Qui l’intervista della MSNBC a Wael Al Dahdouh, caporedattore di Al Jazeera: dopo aver perso gran parte della sua famiglia (incluso un altro figlio giornalista, moglie e i due figli più piccoli) è tornato a lavorare mostrando forza e dedizione. Dopo essere stato ferito mentre documentava un raid  (in cui ha trovato la morte il suo operatore) ha continuato comunque a lavorare. Nelle ultime ore è riuscito a lasciare Gaza per essere curato.




 

Un breve servizio della CBS in cui si documenta la morte di Shireen Abu Akleh nel Maggio del 2022. Nel servizio si parla della prima versione israeliana dei fatti: durante uno scontro, tra gruppi palestinesi ed esercito israeliano, sarebbe stata uccisa da uno sparo dei primi per errore. Altre indagini hanno invece confermato che a spararle è stata un cecchino israeliano, mentre indossava casco e giubbetto con la scritta “press” ben visibili. Le autorità israeliane hanno rifiutato l’invito di Nazioni Unite e di Amnesty International a compiere indagini indipendenti sul crimine di guerra. 



 

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Foto di hosnysalah da Pixabay



ultima modifica 22/01/2024 00:18

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