26.5.23

CONCETTI SPARSI DA “RECLAIM THE TECH”

TANTI SPUNTI TANTO IMPEGNO!




A Bologna, tra il 5 e il  7 maggio 2023, si è dipanata una densissima tre giorni intitolata "Reclaim the Tech, Officina di saperi e pratiche per la giustizia digitale, sociale e di genere" nel Municipio Sociale "Làbas" e nel Centro Sociale "Teatro Polivalente Occupato".
 
Chi lo ha organizzato non lo definisce come un semplice "festival", bensì <<una fucina di scambi e riflessioni, un percorso da costruire insieme per riprenderci la tecnologia e rimetterla al servizio di persone e comunità>>.
 
Nei tre giorni si sono condensati tantissimi spunti sulle tecnologie, in particolare quelle legate al mondo digitale: abbiamo preso parte a una valanga di energia collettiva, abbiamo “immagazzinato” una riserva di potenziale sociale e di voglia di fare, e siamo fiduciosə che all’ampiezza di quelle riflessioni corrisponderà un impegno altrettanto “esteso”.
 
Questo articolo non è soltanto un “reportage atipico” e un “ricordo” del festival, ma è soprattutto un post che parla di tecnologie, specificamente quelle legate alle IT e con una particolare attenzione a una serie di tematiche collegate alla strettissima attualità, con una serie di “articoli nell’articolo”: parliamo quindi di tecniche di sorveglianza e repressione di massa, social network “classici”, Fediverso, shadow-libriaries e Aaron Swartz, algoritmi e AI, big data, cripto valute,
delle diaboliche dinamiche discriminatorie e voraci del capitalismo di piattaforma e digitale e del contro-utilizzo delle sue meccaniche
 
Il nostro auto-inviato per nulla speciale, Scribha Kino (detto anche Analfabeta Informatico Funzionale), è partito da Napoli insieme a dei/delle “compa” per seguire l’evento, vediamo cosa ha combinato...
 
 

RIAPPROPRIAMOCI DELLE “TECH”!

 
Sintetizzare cosa è stato il festival è per forza di cose uno sforzo riduttivo: è difficile restituire il livello profondo delle riflessioni e lo spessore delle elaborazioni teoriche... E sarebbe altrettanto limitante considerarlo un mero festival, e non soprattutto un luogo dove intessere relazioni e alleanze per progettare e mettere in pratica quello di cui si è discusso negli svariati workshop e panel (più di 15), oltre che negli incontri introduttivi e finali.
Per questo penso sia più utile (almeno dalla prospettiva di questa Fanza/Rivista) raccogliere alcuni dei concetti che sono ricorsi più volte e che penso sia necessario trasmettere “al di fuori” dei gusci virtuosi delle varie militanze e dei vari attivismi.
 
Una ulteriore difficoltà nello scrivere questo “reportage” deriva dal fatto che non ho particolari competenze “tecniche” in ambito informatico, ma qui veniamo al primo punto fondamentale dell’approccio della “rete” del RTT: i saperi e le persone specializzate in diversi tipi di conoscenza o di studio non dovrebbero essere separati, ma anzi, dovrebbero “fondere” le proprie capacità, incrociare diverse prospettive e attitudini per progettazioni di tecnologie che siano il più inclusive ed efficienti possibile, oltre a essere sganciate dalle logiche del profitto. In poche parole: i diversi tipi specifici di “sapere” andrebbero integrati fra loro, e non separati.
 
Chiunque potrebbe e dovrebbe partecipare ai processi decisionali collegati agli aspetti tecnologici, e anche senza competenze tecniche particolari potrebbe contribuire sviluppando utili riflessioni, anche se credo che la diffusione di conoscenze basilari sul funzionamento dei “calcolatori”, delle reti, e in generale delle più disparate tecnologie, scienze e discipline, sarebbe comunque utile, così come è utile studiare la matematica per far di conto piuttosto che avere nozioni basilari di filologia per comprendere cosa c’è dietro un testo.
 
Per questo sarebbe utile un ripensamento dei diversi percorsi professionali e di organizzazione dell’educazione in chiave "sincretica", oltre all’urgenza  della ridefinizione dei “ruoli” di chi si occupa, ma anche di chi “subisce” le tecnologie, senza separare i “saperi”.
 
A nostra detta la tre giorni è stata molto proficua: non è scontato parlare di tecnologia, nonostante la pervasività della dimensione “post-umana” della società contemporanea, e lo è meno ancora avviare un dibattito sulla ri-politicizzazione di queste, e in particolare su quelle digitali (forse una differenza con i “classici” hackmeeting risiede proprio nel fatto che in un certo senso la dimensione dell’elaborazione teorica e “filosofica” ha prevalso su quella principalmente “tecnica”, anche se la cultura e una particolare accezione dello stesso termine hacker può trascendere l’ambito meramente digitale ed essere estesa a quello più generalmente tecnologico, ma anche a chiunque che, “smanettando” con i problemi, riesce a trovare delle soluzioni pratiche e degli stratagemmi negli ambiti più vari).
 
Le tipologie di “tech” che ricadono nel più vasto campo dell’Information Technology sono infatti intrinsecamente connesse a una capacità che distingue profondamente l’animale umano da tutti gli altri esseri senzienti: è la possibilità di accumulare e tramandare conoscenza superando virtualmente (in tutti i sensi) ogni barriera spaziale e temporale, e quindi in una parola la nostra peculiare forma di comunicazione.
 
Workshop, panel, talk e presentazioni classiche si sono affastellate in un turbinio di ispirazione per una concreta azione politica e sociale, seguendo un “format” replicabile e riadattabile anche su base locale, e al contempo andando oltre la dimensione “spaziale”, magari usando in maniera virtuosa “l’online” (perché no!), e quindi organizzando degli eventi a distanza o misti in presenza...
 
I gruppi e i singoli che hanno partecipato potrebbero essere divisi in due categorie, di cui non facevano parte solo i “tecnici” delle tecnologie in senso stretto, ma anche soggettività specializzate in eterogenee sfere del sapere: da un lato ci sono le realtà, per così dire, più “ribelli”, tendenzialmente antagoniste e militanti, come centri sociali e collettivi politici. Al lato opposto potremmo collocare diverse singolarità e gruppi della società civile, probabilmente alcuni di questi sono meno “politicizzati” e forse più “istituzionali”, come le associazioni del terzo settore, docenti e ricercatori accademici: la fusione di questi due “mondi” è a nostro dire il principale punto di forza di questo tipo di organizzazione (da estendere in tutti gli ambiti delle lotte politiche e sociali!), perché mira a “riprendersi” la tecnologia e a “rubare al padrone” gli strumenti essenziali per l’organizzazione delle nostre vite, uscendo fuori dal “guscio” di militant@ e attivist@ anticapitalist@ (un guscio che, a seconda dei punti di vista, può essere considerato a volte virtuoso, a volte un po’ meno date le intrinseche problematiche di qualunque processo “rivoluzionario” e di cambiamento), mirando a tessere alleanze anche al di fuori dell’ambito marcatamente “sinistro”, più o meno radicale e istituzionale, e quindi non dimenticando le complesse relazioni di interdipendenza che ci legano tutt% e che ci legano al tutt%.
 
Il festival nasce dall’urgenza di ri-politicizzare il dibattito sulla tecnologia digitale, di rimettere (o mettere per la prima volta perlomeno in Italia) al centro del dibattito pubblico una serie
di questioni particolarmente urgenti , come quella di <<denunciare le complesse catene di disuguaglianza innescate dal capitalismo digitale>>, ha spiegato Lilia Giugni, docente universitaria e autrice del libro “La rete non ci salverà, perché la rivoluzione digitale e sessista”, nonché un'organizzatrice di RTT e moderatrice dell’incontro di apertura (la diretta registrata su Facebook si trova qui).
 
Il tema del rapporto tra tecnologia, politica e diritti umani sembra essere stato abbandonato, o quantomeno trascurato, non solo dall’opinione pubblica in generale, ma anche da parte di tutte quelle esperienze particolarmente impegnate in diversi contesti di lotta politica.
 
L’esigenza di tornare a occuparsi di “politiche tecnologiche” e “diritti digitali”  è particolarmente urgente proprio perché, a detta di chi scrive, ne parliamo poco subendone molte conseguenze, nonostante l'onnipresenza delle tecnologie (non solo quelle digitali e “online”) nelle nostre vite, e nonostante siamo immersi nel pieno di una nuova rivoluzione industriale.


Relatrici e relatori nell'incontro di apertura al Làbas
L'incontro di apertura al Làbas


Mentre entro nel vivo dei ricordi e degli spunti “accumulati” in quelle 72 ore e sperando di riportarli nella maniera più corretta ed esauriente possibile, vi faccio presente che qualora non riuscissi nel mio intento potete sempre contattare la pseudo-redazione per qualunque richiesta di correzione, critica, commento o proposta, anche nei commenti qui sotto. Questo maxi-post, in linea con le “tattiche mediatiche” che caratterizzano la nostra linea editoriale, contiene una serie di “articoli nell’articolo”, quindi sfogliatelo e leggetelo con calma, magari anche “a pezzi”, e sperando di essere in qualche maniera utile non mi resta che augurarvi buona lettura : )
 
 
CONSIDERAZIONI GENERICHE SU DIRITTI DIGITALI E POLITICHE TECNOLOGICHE
 
Prima di scendere nel dettaglio di alcuni degli svariati temi trattati, inizierei a parlare degli argomenti più urgenti sulle tecnologie, e in particolare di quelle digitali e legate alle "reti", che sono state al centro di questo fest nello specifico, insieme ad alcune premesse basilari per comprendere sia lo spirito che lo ha animato sia certe questioni della stretta contemporaneità.
 
Per prima cosa bisogna chiarire (casomai ce ne fosse bisogno) che l’approccio alla tematica tecnologica condiviso da organizzatrici/organizzatori e partecipanti non è di tipo “luddista”, nel senso che non si prospetta un idilliaco ritorno all’età della pietra dopo aver distrutto le “macchine infernali”, mentre invece si auspica un uso e la creazione di tecnologie finalizzate al benessere dell’intera umanità, degli altri esseri senzienti e dell’intero “habitat gigante” in cui siamo nat#.
 
Il punto di vista da cui l’iniziativa tenta di inquadrare la riappropriazione tecnologica è riassumibile nello slogan “Dentro, Contro, Oltre”: dentro i limiti personali e soggettivi, dentro le contraddizioni generate dal sistema sociale vigente, mentre si cerca di essere quanto più apert* possibile, schierandosi contro il potere, la violenza e le prescrizioni di chi ci governa e delle multinazionali tecnologiche, con l’obiettivo di andare oltre queste limitazioni per sperimentare alternative di vita in maniera condivisa e senza imporre il proprio punto di vista.
 
Passiamo poi allo stesso concetto di tecnologia in senso ampio, e quindi considerando come tale anche <<la ruota, oppure la forchetta>>, spiega Annalisa Pelizza, docente universitaria di studi sociali di scienza e tecnologia, che ha una posizione chiara sui mezzi tecnologici in generale: <<la tecnologia non è né buona né cattiva, ma nemmeno neutra>>, e quindi resta alla collettività il compito di concepire e “direzionare” l’uso degli strumenti tecnologici redistribuendo <<il lavoro morale che evolve storicamente>>, e promuovendo modelli di ricerca e innovazione responsabili e “responsabilizzanti”. Per fare ciò potremmo utilizzare, rivisitandola, la nozione di contratto sociale, usata da secoli per indicare quegli “accordi” collettivi miranti a superare lo “stato di natura” per fondare un nuovo tipo di “stato”.
 
In parole povere il cruciale tema introdotto dalla docente riguarda la ridefinizione dei ruoli, e quindi il “chi fa cosa”, ma anche il rapporto tra <<tra tecnologia e scienza, e tra politica e società>>:reclaim” significa “reclamare”, “rivendicare”, <<ma chi reclama la tecnologia>>?! Sempre a proposito della “divisione dei compiti”, la stessa divisione tra scienze “molli-umanistiche” e “dure-STEM” <<può essere molto pericolosa>>, perché limiterebbe l’accesso alle conoscenze ai soli “addetti ai lavori” (che siano informatici piuttosto che ingegneri o biologi), insieme allo stesso dibattito su come progettare e usare le tecnologie.
 
Originariamente, negli anni ‘60-’70, l’ “high tech” era stato concepito per democratizzare la società, con l’ispirazione e il contributo dell’immaginazione di visionari, artisti, poeti, e scrittori dei decenni precedenti come Huxley, Kerouac e Ginsberg, sognatori <<che volevano pace e libertà>>, ma qualcosa è andato storto, ha argomentato Antonio Danieli della “Fondazione Golinelli”. La potenza di calcolo e di “retenzione” di dati, insieme alla velocità con cui questi sono trasmessi, sono talmente vaste da non poter essere percepite tramite i nostri sensi, sono un qualcosa che sfugge ai limiti biologici del cervello del creatore di quella macchina, <<l’uomo, che si trova a essere in difetto, in potenza e in velocità, rispetto alla sua creatura>>, il che comporta degli sviluppi altamente imprevedibili dell’ hi-tech oltre a una difficoltà di adattabilità biologica e antropologica di fronte allo spaesamento causato dall’ambiente “virtuale”.
 
Quella spinta “democratica” e “libertaria” è stata frenata dagli sviluppi socio-economici delle meccaniche capitaliste già prima dell’“era” dei big data, da poco “inaugurata”: <<un conto è ideare, progettare, immaginare, produrre l’hi-tech, un conto è utilizzare un prodotto e un altro ancora essere utilizzati come prodotto>>. Arriviamo a un altro concetto tanto attuale quanto cruciale (e probabilmente scontato): quando usiamo dei servizi “gratuiti” come i social-network, stiamo in realtà fornendo dati che permettono di profilarci per essere poi “venduti” noi stessi come dei prodotti a chi ci bombarda di pubblicità per venderci, a sua volta, altri prodotti... oppure peggio, per influenzare le nostre scelte elettorali, per esempio. In sostanza sfogliando i “feed” dei social, mettendo “like” e anche postando contenuti e commenti, volenti o nolenti e al di là dei messaggi che divulghiamo, magari tentando di “combattere il sistema da dentro”, stiamo in realtà lavorando gratis per le grandi multinazionali del “Big Thech”.
 
L’ingegnere Danieli parla poi delle “Intelligenze Artificiali” (abbreviate in A/I) prendendo in esame un concetto che si può estendere a tutte le tecnologie basate sugli algoritmi in generale: <<l’intelligenza artificiale è uno strumento che viene educato sulla base dei “big data” che, come abbiamo appena detto e come oramai sappiamo un po’ tutti, siamo noi. Quindi se l’intelligenza artificiale fa un qualcosa, o interviene, o cattura un qualcosa di positivo o negativo, evidenzia e moltiplica quello che intercetta nella società, e che normalmente magari non siamo in grado di vedere, amplificandolo sia in positivo che in negativo>>.
 
Perciò è cruciale occuparsi di questi strumenti studiandoli, costruendo e finanziando progetti di educazione e dibattito capillari, non solo “istituzionali” ma soprattutto “autogestiti dal basso” e realmente partecipati, inclusivi e non escludenti, per aumentare una consapevolezza finalizzata alla riappropriazione delle tecnologie, con approcci multidisciplinari e il contributo di <<poeti, filosofi, letterati ed artisti per immaginare, insieme ai “tecnologi”, i prossimi passi>>. Bisogna combattere passività e ignoranza, e non a caso il relatore cita una frase di Paolo Benanti: <<più che l’intelligenza artificiale mi spaventa la stupidità naturale>>.
 

CONSIDERAZIONI “MATERIALISTE” E “INTERSEZIONALI”

Anche se non sono un seguace “sfegatato” delle tradizioni del materialismo storico troppo vicine a un determinismo iper-semplicistico (che probabilmente non spiega tutto ciò che è necessario per comprendere a fondo e rivoluzionare le nostre vite, ma che comunque è utile per delineare un orizzonte ideale verso cui tendere, oltre che per analizzare fenomeni socio-economici), ci sono una serie di problemi strutturali, sociali, economici, fisici, logistici e “materiali” che non possono essere assolutamente messi in secondo piano.
 
Un punto chiave per comprendere come le tecnologie possono contribuire a discriminare settori specifici della popolazione, e ovviamente le comunità già marginalizzate, risiede nel fatto che l’“online” riflette una serie di stigmatizzazioni che provengono dall’“offline”, e quindi si innesca un circolo vizioso con degli algoritmi che rinforzano stereotipi, essendo a loro volta alimentati da dati che riflettono quei pregiudizi nella società “analogica”.
 
Un primo esempio concreto lo fornisce la giornalista Leila Belhadj Mohamed: <<io non sono una tecnica nel senso tradizionale del termine. Non mi sono approcciata a queste tematiche perché le ho studiate, ma perché sono una vittima di queste tecnologie. Faccio un esempio molto concreto: oggi come oggi molti motori di ricerca delle HR -Risorse Umane, ndr- sono costruiti con l’intelligenza artificiale. Io ho un cognome straniero, io sono donna e razializzata, e ci sono certi nomi che vengono cestinati in automatico. Magari il mio Curriculum Vitae è identico a quello di un uomo bianco, etero e cis-gender con nome occidentale, ma il mio verrà cestinato>> proprio perché la tecnologia non è neutrale, ma riflette le intenzioni (anche in buona fede) di chi l’ha progettata, pregiudizi inclusi.
 
Altri esempi calzanti sono legati alla fallacia delle tecnologie di riconoscimento facciale, che in questi giorni il ministro Piantedosi sta promuovendo: la giornalista e attivista transfemminista inizia citando il caso “Gangs Matrix”, un database utilizzato dalla polizia londinese per combattere le gang di strada, ma che in realtà finiva per discriminare uomini solo per il colore nero della pelle (i maschi erano il 99% nel 2018), soprattutto giovani (anche di 12 anni). Infatti, secondo dati riportati da Amnesty Internationalil 78% degli “schedati”  erano di colore, mentre solo il 27% dei responsabili di atti di violenza tra le “gang giovanili” avevano il colore di pelle nero (la ONG tra l’altro mette in discussione lo stesso concetto di “gang”). I “sospetti” venivano individuati da un algoritmo anche in base a dati come la musica che ascoltavano, le amicizie sui social, il quartiere di provenienza, i vestiti che indossavano (felpe con cappuccio), e ad altri provenienti dai database dei servizi sociali nelle periferie, e quindi in  generale alla condizione socio-economica, per poi essere inseriti nel meccanismo di riconoscimento facciale in attesa di potenziali crimini (in un clima distopico alla "Minority Report") e subendo controlli e perquisizioni ingiustificati, alimentando stereotipi razziali e seminando sfiducia e sospetto, oltre a conseguenze drammatiche nella vita reale come le ingiunzioni di sfratto e l’esclusione da percorsi educativi, oppure la difficoltà nel trovare un lavoro, conseguenze che riguardano anche le famiglie dei “registrati” nel sistema, senza trasparenza sulla raccolta e sull’uso di quei dati. 
 
Un altro esempio distopico di “polizia predittiva”, a cui la collega ha fatto un breve cenno, è il cosiddetto “Sensing Project”, sperimentato nella cittadina olandese di Roermond negli scorsi anni: secondo Amnesty International una serie di telecamere e sensori servivano a monitorare non solo le targhe di veicoli, ma anche tutti i guidatori e passeggeri della cittadina, con l’obiettivo di identificare i sospettati di commettere furti, ma per la ONG si tratta di una sorveglianza di massa indiscriminata, ingiustificata e con una profilazione etnica a danno di persone dell’est-Europa, e in particolare delle persone rom: <<le autorità olandesi affermano che il sistema è neutrale e basato su dati oggettivi riguardo ai crimini, a ogni modo Amnesty ha documentato che il progetto è discriminatorio nel suo stesso design, che riflette preconcetti umani integrati nella sorveglianza>>, ha detto la ONG in un comunicato di due anni fa.
 
La giornalista nei pochi minuti del suo intervento tira fuori molti altri esempi che dimostrano come le tecnologie sono degli strumenti che diventano “cattivi” se sono nelle mani sbagliate o usati per fini perversi: <<finché sono in mano agli stati democratici è una cosa, quando sono in mano agli stati autoritari è un’altra>>, e per esempio in un paese come l’Iran, dove i processi decisionali sono ancora più ristretti nelle mani di poche persone così come sono ulteriormente limitati dei diritti basilari, già dal 2019 i sistemi di riconoscimento facciale venivano usati per riconoscere le donne che protestavano e che non indossavano il velo.
 
Poi c’è il caso dei <<primi attivisti in Russia che sono stati arrestati dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, sono stati intercettati a casa, non nelle manifestazioni, perché nella metropolitana di Mosca si accede con il riconoscimento facciale>> con tecnologie statunitensi, permettendo di riconoscerli e di risalire all’indirizzo della loro abitazione, e subendo non solo le “visite” della polizia ma anche attacchi “fisici”, come nel caso di un manifestante cui è stata spruzzata della pittura sul suo volto prima di ricevere anche una lettera minatoria.
 
E ancora, <<quando gli Stati Uniti hanno lasciato l’Afghanistan, hanno lasciato uno “stock” di dati biometrici di persone che hanno collaborato con l’occidente>> e che dunque rischiano persecuzioni.
 
Poi ci sono le persone trans o gender fluid che vengono pesantemente discriminate perché, per esempio, la tecnologia non è in grado di riconoscere una persona non-binary.
 
C’è lo strumento del “proctoring” che permette agli studenti di sostenere esami online, ma previa <<luce sparata in faccia>> per sembrare più “bianchi” ed evitare di essere bollati come dei “copioni”, strumento originariamente costruito negli USA e che ha portato a una multa di 200 mila euro per la Bocconi comminata dal Garante per la Privacy per diversi profili di illegittimità connessi al consenso e al trattamento dei dati.
 
Ovviamente non dobbiamo dimenticare le “piattaforme” possedute in larga parte da aziende private che fanno accordi con diversi stati e che, a seconda dello stato e della specifica “policy”, possono implementare strategie di censura o di propaganda che consistono nel cancellare degli hashtag, <<anche se su questo, per fortuna, l’Unione Europea è molto più avanti rispetto ad altri paesi (…) per esempio in Israele TikTok è stato usato dal regime israeliano con bellissime soldatesse che facevano i balletti ai check point con dietro i bambini che venivano arrestati. Oppure parlare di Palestina su certe piattaforme è praticamente impossibile: ogni 5 giorni finisco in shadowban se nomino Iraq, Afghanista o Siria perché, in automatico, vieni “targetizzato” come se stessi facendo proselitismo del terrorismo, anche se stai facendo informazione>>, e questo avviene perché le piattaforme non riescono a sviluppare dei sistemi che discernono i contenuti realmente “terroristi” da quelli informativi, dalle testimonianze di chi coraggiosamente denuncia quanto avviene in contesti di guerra, mentre è semplicemente più economico bannare tutto.
 
Oltre alle questioni legate alla repressione e alla propaganda, non dobbiamo dimenticare quelle intrinseche al sistema socio-economico capitalista e al colonialismo digitale, <<dato che abbiamo avuto un progresso tecnologico con un sistema economico e sociale che è fermo all’800>>: prima avevamo lo sfruttamento con persone che si spaccavano letteralmente la schiena, oggi abbiamo uno sfruttamento di esseri umani davanti a uno schermo, come le persone sottopagate nei paesi Africani e del “sud del Mondo” per “allenare” ChatGpt, oppure che restano traumatizzate nel “filtrare” contenuti violenti e a sfondo sessuale in modo che i “social” siano più “sicuri”, e che di solito lavorano per compagnie terze, pagate in base a target giornalieri, senza godere di ferie e di altri diritti.
 
Per questo bisognerebbe portare “ai tavoli decisionali” <<soprattutto le persone competenti di quelle minoranze più discriminate dalla tecnologia>>.
 
Per questo l’esperta di geopolitica e diritti umani, che è anche attivista di “Privacy Network”, sottolinea l’importanza di promuovere consapevolezza e pratiche di advocacy tra chi già fa attività sociali ma pensa che il tema delle tecnologie non li riguardi: invece <<ti riguarda tantissimo se ti occupi di immigrazione, se sei un collettivo transfemminista, ma anche se semplicemente sei un collettivo di artisti indipendenti: si pensi al fatto che il capezzolo femminile viene censurato nelle immagini mentre quello maschile no... Bisogna creare delle sinergie sia con le istituzioni, sia dal basso (...) spiattellando in faccia i problemi a chi si trova nei “piani alti”>>, dato che accademici e ricercatori testano le tecnologie scorgendo anche le possibili criticità, mentre “chi decide” di solito si limita a firmare un atto, senza neanche comprenderlo nel peggiore dei casi.
 
Va diffusa la <<conoscenza di "know-how">> e quindi in generale la “conoscenza”, perché se <<la conoscenza rimane privata, e io privato decido a chi e se venderla, è normale che quando alcuni paesi non hanno le risorse economiche per acquistarla restano indietro o finiscono vittime della tecnologia stessa>>. Serve <<l’educazione alla digitalizzazione fin da piccoli>> oltre alla <<sinergia e all’intersezionalità reale con la creazione di tavoli su cui affrontare certe tematiche, servono tutti, tutte, tutt’, servono le persone disabili, servono le persone trans, servono le comunità razializzate, servono tutt’>> per il superamento del <<maledetto sistema>> capitalista.
 
L’importanza della non parcellizzazione delle lotte emerge anche dall’intervento nel panel sull’esclusione digitale di Valentina Tafuni, presidente dell’associazione Hayat e attivista contro le diverse forme di discriminazione, specialmente quelle delle persone con disabilità. I modelli sociali imperanti riguardanti le diverse abilità sono troppo spesso imperniati sulla “cura” e non sui diritti, e cioè non inquadrano i diversamente abili come persone ma come “pazienti”, affermando un’ottica “pietistica” in cui esiste solo la dimensione dell’“aiuto” che non le fa emergere invece come protagoniste. Non a caso l’attivista cita lo slogan della Convenzione ONU per i Diritti delle Persone Disabili, in vigore dal 2008, che è anche un principio di auto-rappresentazione: “nothing about us without us”, e cioè “niente su di noi senza di noi”. Porta poi l’esempio di come lo “stigma della cura” viene messo in atto anche quando ci sono degli obiettivi apprezzabili, ma non completamente inclusivi e "protagonistizzanti": <<i grandi del tech stanno portando varie iniziative in vari ambiti, anche in quello dell’accessibilità delle persone con disabilità al mondo digitale. Per esempio Microsoft ha lanciato questo“tech accellerator" per attivisti con disabilità all’interno del mondo per la cooperazione: può essere un intento lodevole, però poi penso che il mondo della cooperazione internazionale di per sé è un mondo che vede ancora le persone con disabilità come destinatarie di azioni. Ci sono pochissimi cooperanti al Mondo con disabilità e io vorrei essere, un domani, una di quelle, però mi scontro con delle barriere di accesso anche in questo caso. Quindi -il mondo delle “tech”- dobbiamo riprendercelo collettivamente, possiamo togliere il monopolio se disegniamo insieme delle pratiche di cura e resistenza partendo dai nostri mircro-sistemi, dai nostri micro-mondi e “connettendoli” perché sono già connessi di per sé>>, perché siamo già interdipendenti!
Tutt’ dovrebbero essere <<attori e attrici di una cura collettiva e promiscua>> per contrastare l’abilismo così come è necessario sconfiggere ogni forma di omobitransfobia, razzismo e sessismo, e abbattere mentalmente la barriera del “diverso”.
 
Altri fondamentali spunti “riassuntivi” sono emersi dall’intervento di apertura della già citata Lilia Giugni (consiglio vivamente di vederlo per chi non era al fest: magari smettete di leggere questo articolo  e ascoltate le parole di quella “talk”, in cui sono condensati tutti gli aspetti basilari e le principali istanze del festival).
 
La storia di Tiziana Cantone <<uccisa dal capitalismo digitale>> nel 2016 è emblematica delle svariate vittime create dal capitalismo di piattaforma con i suoi business-model  e le sue di monetizzazione, uniti alla cultura patriarcale che ha permesso a un numero non quantificabile di <<utenti di sentirsi in diritto di violare l’intimità di una donna, di umiliarla per le sue celte sessuali>>, facendo diventare la violenza digitale di genere (così come altre forme di odio e stigmatizzazione) virale tramite la manipolazione dei feed che non fanno altro che riproporre contenuti simili, in maniera da incollarci allo schermo, estrarre più dati e aumentare il profitto, selezionando in automatico e amplificando pregiudizi. Tiziana era diventata <<un “fenomeno” della rete, dopo che alcuni sui filmati intimi, di cui non aveva assolutamente approvato la divulgazione, furono diffusi prima su alcune chat Whatsapp e poi su siti di porn sharing (alla PornHub), diventando virali, in un girone infernale. Piattaforme come YouTube e Facebook si riempivano di post, di gruppi creati con il solo scopo di umiliarla e con Google che prontamente li indicizzava, con i giornali nazionali che pubblicavano articoli con titoli acchiappa-click in cui si rivelava nome, cognome, città natale e indirizzo. Tiziana fu costretta letteralmente a scappare di casa, a lasciare il lavoro, perché la gente la riconosceva per strada, a rifugiarsi in un’altra regione, ad avviare un procedimento per cambiare cognome, a tentare di portare in tribunale alcune di quelle piattaforme, senza successo per poi alla fine, esausta, decidere di togliersi la vita>>.
 
Altra problematica materialmente basilare è quella legata al “digital divide”, ossia al divario tra chi ha accesso alle tecnologie e chi non può permettersele. Il divario va colmato anche in senso culturale e formativo, e come attivistx, nell’immediato e nel breve-medio termine potremmo costruire hacklab, diffondere saperi ed esperienze in maniera orizzontale e dal basso cominciando dai corsi di alfabetizzazione informatica, così come in moltissimi spazi sociali esistono ambulatori, palestre popolari e corsi di lingua. Dovremmo programmare iniziative come manifestazioni, flash-mob, incontri in piazza per denunciare e contrastare le tecnologie del capitalismo di piattaforma e, nel lungo termine, estendere questo tipo di istanze ad altri “campi di battaglia” politica.

due giovani “scroccano” il Wi-Fi di un fast-food durante la pandemia per fare i compiti perché a casa loro non potevano permettersi una connessione. La foto è emblematica del “divario digitale” ed è stata scattata in California, a pochi passi dal centro nevralgico del capitalismo di piattaforma e di “Big Tech”.
Due giovani “scroccano” il Wi-Fi di un fast-food durante la pandemia per fare i compiti perché a casa loro non potevano permettersi una connessione. La foto è emblematica del “divario digitale” ed è stata scattata in California, a pochi passi dal centro nevralgico del capitalismo di piattaforma e di “Big Tech”.


Chi è più privilegiato quelle “tech” può permettersele perché la loro costruzione materiale, prima ancora di come vengono progettati i software, si basa sullo sfruttamento di umani a danno di altri umani, di bambini che lavorano per una paga giornaliera che corrisponde al costo di un nostro caffè, in delle miniere (spesso tunnel e tuguri) per estrarre minerali e terre rare che macchiano di sangue i nostri computer, telefonini, smartwach ecc. Quei materiali servono ad assemblare le batterie delle auto elettriche e di altri dispositivi per avviare una fantomatica sostenibilità e “rivoluzione green”, ma che di “green” attualmente ha solo il “washing” (il “greenwashing” indica un ecologismo fittizio usato per fare marketing dalle aziende che millantano di essere rispettose dell’ambiente), dato che l’unico sviluppo realmente sostenibile non si potrà mai avere all’interno di un sistema economico basato sulla crescita infinita.
 
Arriviamo così al tema dello sfruttamento dell’ambiente: quanto inquina inviare un messaggio su Whatsapp? Quanta energia elettrica serve per postare la foto di un gattino carinissimo o il meme con la celebrità del momento su Instagram, e come viene prodotta quell’energia? Quanto inquina quel processo di estrazione dei materiali, senza contare l’inquinamento “morale” che deriva dall’impoverimento di altri esseri umani tramite il loro lavoro sottopagato? Le risposte sono facilmente intuibili, almeno genericamente: inquiniamo tantissimo, non siamo “sostenibili”! Decisamente più impegnativo è trovare le risposte che servono per capire come non inquinare, come collettivizzare il potere delle tecnologie, come evitare che l’essere umano abusi di altri esseri senzienti (a cominciare da quelli della sua stessa specie), vegetali, e delle risorse non viventi, e impedire la distruzione del pianeta.
 
Da questi disagi universali nasce l’esigenza di reclamare la collettivizzazione e la socializzazione delle tecnologie, criticando chi sviluppa piattaforme e infrastrutture capitalistiche, mirando a emancipare chi le “subisce”, sovvertendo gli attuali assetti proprietari dei mezzi di produzione industriali e, soprattutto, quelli culturali.
 
  
 

WORKSHOP SU COME PROGETTARE IL DISSENSO: LABORATORIO DI MEDIA-ATTIVISMO E PRATICHE TECNO-POLITICHE A PROVA DI CAPITALISMO DIGITALE

Cominciamo dal primo workshop cui ho preso parte, moderato da Luca Recano, attivista del “Laboratorio di mutuo soccorso Zero 81. Per prima cosa, facendo un po' di critica e auto-critica (da partecipante), devo dire (stando anche a quanto ho sentito dire dai “compa” che hanno partecipato agli altri workshop e panel) che forse alcuni gruppi di lavoro sono assomigliati più a dei panel e viceversa, ma va benissimo così, sono comunque più che soddisfatto e convinto della “riuscita” dell’evento.
 
Il workshop riflette la “duplice” natura ed esigenza del fest, che consiste nel fare pressione sui decisori politici ma anche nel creare “conflitto” per attaccare la logica capitalista amplificata dalle tecnologie.
 
Partiamo dunque da quanto esposto, sia nel workshop che nell’incontro introduttivo, da Emanuele Braga, con un background “filosofico” al servizio dei <<processi di lotta>> nell’ambito dell’attivismo e dei movimenti sociali.
 
La politica consiste in un processo della costruzione della società, e quindi in una serie di rapporti di forza materiali che si ripercuotono sulle tecnologie che per questo, come si è già espresso, non sono neutre: il relatore viene <<da una traduzione operaista e movimentista>>, e già dai primi tempi dell'avvento di Internet frequentava luoghi come i centri sociali in cui, all'epoca, si respirava un fermento per il potere e il potenziale emancipatorio di internet, dove si sperimentava il “D.I.Y.”, acronimo di “Do It Yourself” e quindi indicante l’auto-governo delle proprie vite i tutti gli ambiti.
 
Quell'aria si respirava << in ogni hacklab>>, ma poi qualcosa è andato storto, quelle tecnologie sono state direzionate in maniera totalmente opposta... C’era la sensazione che <<potevamo ridisegnare il Mondo>>, ma <<l’unione tra sperimentazione sociale sul modello del creativo, e quindi degli artisti, e la digitalizzazione dell’economia, il “web 1”, ha praticamente trasformato le nostre vite in un disastro>> perché essendo sempre connessi e “a disposizione” siamo finiti a lavorare 24 ore su 24, per non parlare della precarizzazione del lavoro causata dal mito dell’essere “imprenditore di te stesso”, dal fare a gara a chi è il più creativo, insieme a un abbassamento dei salari vertiginoso.
 
<<Dopo 10, 15 anni ci siamo trovati, dopo quella fase “desiderante”, ad acquisire coscienza del fatto che siamo stati un laboratorio per distruggere la redistribuzione sociale a mezzo del salario, precarizzare il lavoro, ed essere sempre a disposizione h24 senza distinzione tra tempo libero e tempo per il lavoro. Poi è arrivato il “web 2.0”, conosciuto anche in letteratura con l’espressione “capitalismo di piattaforma”, per capirci siamo nel periodo dell’avvento di Social Network come Facebook, GAFAM, logistica, housing di piattaforma>> e quindi le piattaforme come AirBnb ecc.
 
In quel momento ci si è accorti, con una frase molto in voga, che “il vero petrolio sono diventati i dati”, e quindi inducendo l’immissione ed estraendo i dati dei “prosumer” (consumatori e fruitori allo stesso tempo) si attivava il meccanismo di <<finanziarizzazione del sociale>> nella cornice di un “capitalismo di piattaforma” che è anche un “capitalismo di sorveglianza”, innescando tra militantə e attivistə una discussione su come si crea “autonomia digitale”, <<come si fa a non essere predati dei nostri dati>>, come dobbiamo proteggere la nostra privacy e quindi <<come non alimentare quel processo di valorizzazione che non veniva redistribuito dal monopolio finanziario e che andava sempre più concentrato in quei monopoli>>, oltre all’aspetto di come i nostri comportamenti, desideri e corpi  vengono influenzati, di come viene disegnato il consenso: <<sostanzialmente siamo diventati delle protesi fisiche di algoritmi che decidono sui nostri tempi di attenzione, sulle nostre energie, oltre al disegno sociale che c’è dietro>>.
 
Si è quindi cominciato a studiare come si creano relazioni, elaborando degli “algoritmi del comune” nelle pratiche “analogiche” come le assemblee, per comprendere i nostri desideri e a che cosa <<vogliamo dare il consenso>>, <<perché non c’è una soluzione tecnica al “politico”>>, questione che si è tentata di risolvere con strumenti come le blockchain che servivano a decentralizzare il potere capitalista ma poi, l’esempio di Bitcoin nell’era del “web 3” purtroppo lo conferma, sono diventati dei potenti strumenti speculativi della finanza tecnocratica (in maniera paradossale, per uno strumento che doveva rompere il monopolio della moneta, e che forse già nell’ideazione iniziale era programmato in tal senso, mi sentirei di aggiungere) che consumano ingenti risorse ambientali con il data-mining, proprio perché si è sottovalutata <<la sfida politica cadendo nel primato del “tecno-soluzionismo>>, e quindi la vera sfida dovrebbe essere capire “cosa vogliamo?!”.
 
A questo proposito il ricercatore e artista-attivista snocciola poi una serie di esempi di forme di autorganizzazione e di “dissenso digitale”, e ha spiegato che è in cantiere la pubblicazione di una sorta di “timeline” per tracciare una genealogia di esperienze accomunate da un rapporto dissidente con la tecnologia, in collaborazione con il Museo Reina Sofia di Madrid:
 
cominciamo dai progetti incentrati sulla “cura”, o per dirla all’inglese sul “care”, <<degli esperimenti situati tra l’analogico e il digitale, tra l’online e l’offline, che si pongono prima di tutto il problema politico di necessità esistenziale, economica, di reddito, ecc., per poi trovare delle soluzioni mentre si divertono a disegnare un “algoritmo”>> che non necessariamente è “digitale”.
C’è il progetto “The Hologram” nell’ambito della cura “peer to peer” (letteralmente in italiano “paritetico”, abbreviato in P2P, e che nel linguaggio informatico indica una rete distribuita e decentralizzata) ideato dall’artista Cassie Thornton. È una sorta di “algoritmo analogico” che in concreto si traduce in un gruppo di ascolto dove tre persone (che si riuniscono online o in presenza) si prendono cura di una quarta considerando tre aspetti della sua vita: quello fisico/medico, quello psicologico/emozionale e quello sociale/economico. Particolare attenzione viene posta su queste tre dimensioni della persona curata, come in un “ologramma” multidimensionale, invece che considerare quella persona come “merce” per l’industria medica.
Nel percorso vengono dati dei consigli che poi, quando la quarta persona è pronta, darà a sua volta in un nuovo “triangolo”, innescando un meccanismo simile a quello di una catena di Sant’Antonio.
Il progetto socio-sanitario informale e femminista si ispira al movimento delle “Cliniche della Solidarietà” in Grecia.
 
Per ovviare alla crisi del concetto di “cura” ci sono anche le iniziative, i workshop, i sondaggi e i metodi elaborati di “Pirate Care”, una rete di attivisti, accademici, professionisti impegnati in un progetto di ricerca sulle pratiche collettive di muto aiuto e solidarietà. Scopo iniziale del progetto era quello di “mappare” questo genere di esperienze e collettivi, per poi in un secondo momento acquisire conoscenze al fine di espandere questo genere di prassi legate al “care”, duramente attaccate e disincentivate dalle logiche neoliberiste: ci sono quelle contro la criminalizzazione della solidarietà e le brutalità della polizia, così come quelle in favore al diritto all’abitare e per superare le politiche razzializzanti, oltre che quelle per politicizzare la “pirateria”, restando nel campo tecnologico.
 
Poi ci sono i <<percorsi di sabotaggio di queste maledette piattaforme del capitale con delle comunità che hanno trovato il modo di rubare i soldi, laddove si concentrano, per poi creare degli schemi di redistribuzione economica che permette loro di pagare gli affitti o di avere reddito in posti completamente precarizzati ed economicamente depressi fregando Spotify>> e altri colossi del capitale digitale (a tal proposito è stato menzionato un gruppo di italiani che avrebbe elaborato uno schema per aumentare esponenzialmente gli ascolti sulla piattaforma di musica e podcast, creando un reddito “artificioso” tramite canzoni brevi e inventando il genere della “Short Wave”: online non abbiamo trovato tracce di questo gruppo nostrano, ma nelle cronache è menzionato il caso di un cittadino americano che usava dei bot per aumentare visualizzazioni e incassare una cospicua percentuale sui diritti d’autore, “esperimento” che però è fallito con Spotify che gli ha fatto anche causa per truffa).
 
Restando nel paradigma “Robinhoodiano” e passando nel campo della finanza c’è <<un progetto che facemmo nel 2005 con dei compagni finlandesi che si chiama Robin Hood Minor Asset Management: era un algoritmo parassita che copiava i comportamenti degli hedge fund>>, noti anche come “fondi speculativi”, che <<gestiva un fondo cooperativo che avevamo costituito, e lo usavamo per creare una sorta di finanziamento per l’attivismo mondiale>>. In pratica dopo aver sottratto linfa finanziaria ai grossi “pescecani” e seguendo le loro stesse strategie, quei fondi venivano destinati a diversi progetti di attivismo.
 
Tra i vari <<schemi che sono un enorme campo di sperimentazione>> ci sono le “Alt-Coin” legate al paradigma della “Moneta del Comune”, alternative al Bitcoin, per tentare di impiegare le logiche alla base delle cripto-valute nelle economie circolari e solidali. Costruendo valute per un modello economico alternativo si supera la stessa natura della prima cripto-valuta della storia, di cui era prevedibile il suo uso da parte del grande capitale finanziario, utilizzando soluzioni “tecniche” che in realtà sono molto più semplici e praticabili rispetto a quelle promosse dai circuiti mainstream, pubblicizzate tramite l’“hype” connesso al machine learning e alle blockchain.
 
Tra questi modelli di attacco frontale al capitalismo finanziario attuato “da dentro il sistema” per crearne un altro che si sviluppa “dal basso”, spicca sicuramente l’esperienza “Robinhoodesca” di Enric Duran Giralt, attivista catalano che “scroccò” quasi mezzo di milione di euro in prestiti da più di trenta banche spagnole senza nessuna intenzione di restituire il denaro, ma volendolo invece reindirizzare verso diversi progetti solidali e anticapitalisti. La sua vicenda è direttamente connessa allo sviluppo di FairCoin, a sua volta legato a FairCoop e a Bank Of The Commons, dei tentativi di sviluppare sistemi bancari, monetari e cooperativi alternativi ai modelli vigenti.
 
Oltre alle esperienze nel segno di “rubare ai ricchi per redistribuire tra i poveri”, legate agli aspetti finanziari del dissenso digitale, ce ne sono altre legate a svariati ambiti dell’agire umano e che apportano un impatto positivo: per esempio c’è la piattaforma Basic Income Network per aggregare idee sul reddito minimo universale; oppure Dyne.org, fucina interdisciplinare no-profit di software libero (da non confondere con il concetto di open source); e ovviamente degne di menzione sono anche esperienze di mediattivismo come Tactical Media Crew e Indymedia.
 
Restando nell’ambito “medium”, ci sono gli esempi delle cosiddette “Shadow Libraries” (Sci-Hub, Monoskop, Memory of the World, LibGen, il motore di ricerca 
Anna’S Archive ecc.) <<un patrimonio incredibile di lavoro, manutenzione e messa a disposizione di accesso libero attraverso la rete>> che operano in un’area tra il “grigio” e il “nero” e quindi, a seconda dei casi, tra la potenziale o la palese violazione dei diritti di autore e di utilizzazione economica in particolar modo di contenuti scientifici e accademici: la conoscenza è potere, un potere che si acquisisce anche perché alcune parti del Mondo e alcune classi sociali sono “privilegiate di default”, e distribuire più equamente questo potere, condividendo in maniera libera risultati di studi e ricerche, oltre a essere eticamente auspicabile potrebbe aiutare la collettività globale nel trovare soluzioni ai problemi dell’emergenza ambientale, o magari per trovare nuove cure mediche, ecc...
 
Invece molti di quei contenuti vengono strapagati più volte ai grandi colossi editoriali: li paghiamo con le tasse tramite onerosi accordi con le istituzioni accademiche, che si trovano a pagare sia gli editori (e monopolisti/oligopolisti culturali e del sapere scientifico) sia chi fa ricerca: in pratica le università pagano chi fa ricerca e poi pagano nuovamente per l'accesso alle ricerche finanziate da loro;
li pagano gli stessi autori di studi e ricerche (in particolare quelli “emergenti” e meno noti) per poi magari ricevere solo “briciole” di profitto o addirittura rimetterci se le copie restano invendute, dopo anni di sforzi (e in tanti casi di precariato) che vengono in larga parte “sacrificati” in favore delle piattaforme che pubblicano, invece che per sé stessi e per l’intera comunità;
e poi li pagano i singoli, studiosi e ricercatori ma anche “comuni lettori mortali”, quando se lo possono permettere, restringendo dunque la possibilità di contribuire al progresso dell’intera umanità solo a chi è già privilegiato, un progresso (a detta di chi scrive non certo lineare) basato a sua volta sull’accumulazione di conoscenze nei secoli, conoscenze che andrebbero collettivizzate anche per essere conservate e tramandate meglio.
 
Forse le energie, i costi e i proventi derivanti e impiegati nell’archiviazione e nella revisione dei materiali di studio (e quindi quello che si definirebbe il “controllo qualità”) dovrebbero essere sganciate dalla logica del profitto privato ed essere lasciate al settore pubblico (cosa che dovrebbe essere naturale quando quelle ricerche sono finanziate dal pubblico prima di essere “strumentalizzate” dai privati) e ai volontari (oltre che agli stessi autori “vincolati” da accordi commerciali iniqui) che attualmente sono “costretti” dal sistema editoriale a operare nell’illegalità (difficilmente credo che tutt* i/le volontari/e siano dei "pirati” assetate/i di soldi ma anzi, immagino che la maggiorparte siano assetate/i di giustizia sociale).
In più tutti i volontari “pirati” stanno assolvendo al compito di preservare la conoscenza, mentre rischiano ripercussioni legali e di altro genere: se per caso i “server”, e quindi in soldoni i computer, su cui sono salvati le poche copie digitali di un documento, dovessero essere danneggiati o distrutti (un po’ come successe per la mitica Biblioteca reale d’Alessandria), sarebbe impossibile o più difficile recuperare quei lavori, quei pezzi di conoscenza. Invece se venisse facilitata e incentivata una diffusione capillare di quelle conoscenze sarebbe anche più facile conservarle e tramandarle.
 
Inoltre c’è un’altra questione, probabilmente ancora più rilevante per gli impatti immediati sulla comunità umana, che non riguarda i ricavi immediati del mercato editoriale ed è associata al fenomeno umano della corruzione: privati e colossi dell’editoria potrebbero usare il “potere delle conoscenza” per favorire altri privati “distorcendo” i risultati delle ricerche, incentivando soprattutto quegli studi che generano ulteriori profitti per pochi e danni per molti.
Per esempio potrebbero essere favoriti gli studi che affermano come un determinato processo di produzione non sia poi così inquinante come si crede, o magari che gli effetti collaterali di un certo medicinale non siano poi così cattivi. In parole povere potremmo definire il fenomeno come “corruzione accademica”, una questione su cui l’hacktivista Aaron Swartz stava lavorando: si ritiene che l’inchiesta giudiziaria che ha portato al suo suicidio nasceva in realtà da un’“indagine” del cofondatore di Reddit su un database di pubblicazioni accademiche in tal senso, piuttosto che dalla sua fantomatica intenzione di arricchirsi o dall’ipotesi intermedia di “piratare” contenuti per redistribuirli alla “Robin Hood” nei paesi saccheggiati dall’occidente, e dunque poveri (se ne parla al 53esimo minuto del documentario/inchiesta “The Internet’s Own Boy” , spiegando che in precedenza Aaron scaricò più di 400mila articoli per indagare, insieme all’avvocata Shireen A. Barday, su chi finanziava studi giuridici con il fine ultimo di ottenere un trattamento più vantaggioso a processo).
 
Bisognerebbe favorire la collaborazione tra ricercatori, accademici e non, invece che fomentare una competizione esasperata che consiste in una gara a chi fa “più punti” (e cioè a chi pubblica di più e con editori più “prestigiosi”, o a chi “vende” di più inserendo i propri testi nei materiali d’esame, magari per “rientrare” nei costi sostenuti in una sorta di “self-publishing accademico”).
 
Aaron Swartz era anche l’autore del Guerrilla Open Acces Manifesto: invitava alla disobbedienza civile, non solo scambiando password e scaricando articoli per conoscenti e colleghi, ma anche “piratando” contenuti scientifici per ridare conoscenza, e dunque potere, pure agli studenti del Sud del Mondo, spiegando che non è giusto rispettare delle leggi palesemente inique che equiparano la condivisione della conoscenza al<<saccheggio di una nave e all’omicidio dell’equipaggio>>. Se un numero sufficiente di persone avesse seguito il suo invito, diceva, la “privatizzazione della conoscenza” sarebbe stata solo un ricordo del passato. Brecht diceva che “quando l’ingiustizia diventa legge, la resistenza diventa un obbligo” e tutti noi, specialmente chi segue delle regole sapendo in cuor suo che queste sono profondamente immorali, dovrebbe farsi qualche domanda in più sul rapporto tra moralità e legalità, e agire di conseguenza (come minimo ingaggiando delle “battaglie legali”, non solo in tribunale, se non si può o non si ha il coraggio di ricorrere alla disobbedienza civile ed esporsi a ripercussioni legali e di altro genere)...


Dopo aver trattato di diversi esempi di dissenso verso il capitalismo digitale, la presentazione di Simone Robutti , informatico che ha <<smesso di progettare software per iniziare a scrivere progetti>>, ha intaccato la nozione classica e il tabù della “leadership”, proponendone un nuovo “archetipo”: negli ambienti della sinistra radicale, e in particolare in quelli libertari, la definizione classica di “comando” e “direzione” viene vista con sospetto, dato che istintivamente fa venire in mente l’autoritarismo e il trauma storico della gestione gerarchica del potere nel’URSS.
Il concetto di leadership dovrebbe invece essere rielaborato, e quindi superato, intendendolo come una proprietà da distribuire tra i gruppi di persone il più equamente possibile, dato che è praticamente inevitabile che alcune identità emergano più di altre: per esempio in un’assemblea strutturata orizzontalmente certe individualità potrebbero “sovrastarne” delle altre perché hanno una maggiore conoscenza di una tematica, oppure semplicemente perché sono più propense a parlare in pubblico e meno timide, facendo emergere quelle dinamiche di potere che si cerca di contrastare.
Inoltre favorire delle forme di leadership è cruciale nei processi di responsabilizzazione in cui tuttə si assumono la responsabilità di fare qualcosa: se davvero “nessuno” fosse leader, chi si prenderebbe l’impegno di portare a termine un determinato obiettivo, anche senza “comandare” altrə (o sé stessə)? L’orizzonte ideale è quello in cui tuttə si impegnano e sono “leader”, ma per tendere verso questa visione è necessario <<un cambiamento non solo organizzativo, ma culturale, sociale e spirituale>> in cui il/la leader non è chi dà un ordine, ma in cui tuttə lo sono in forme diverse.

 
Nello schema in foto l’attivista mostra una possibile schematizzazione di diversi tipi di personalità e le rispettive caratteristiche (ci sono "draghi", "serpenti", "corvi" e "grazie")
Nello schema in foto l’attivista mostra una possibile schematizzazione di diversi tipi di personalità e le rispettive caratteristiche, una ripartizione teorizzata da Starhawk.


Nell’ultimo intervento Ciro Ogliastro di Etica Digitale, <<gruppo volontario indipendente di ragazzi e ragazze con l’intento di riportare la persona e i diritti al centro del dibattito tecnologico>>, ha parlato di diverse questioni "storiche" riguardanti l'uso dei nostri dati da parte delle "big" del tech, e ha introdotto il concetto di Fediverso, un’alternativa ai classici “Social”.
L’etimologia del termine deriva dall’unione di “universo” e “federato”, un universo fatto di diversi social network che in qualche maniera “ricalcano” la struttura di quelli mainstream.
Le differenze con questi sono però molteplici e sostanziali: in primis non sono delle “piattaforme” accentrate nei server di un’azienda privata, ma sono dei protocolli basati su linguaggi aperti, comuni e personalizzabili, e i server su cui sono ospitati i dati sono diffusi e quindi decentralizzati. Sui vari tipi di social-network decentralizzati, di cui probabilmente Mastodon che rassomiglia a Twitter è il più famoso, si possono creare delle “istanze” con regole che vengono decise dalla community o da chi le fonda, ed è anche possibile seguire profili di istanze diverse o “trasferirsi” senza perdere i propri “toot” (il corrispettivo dei “tweet”) nel caso di Mastodon. Inoltre i diversi “social federati” possono essere connessi tra loro senza dover per forza aprire un account su ogni “protocollo-piattaforma” (in pratica sarebbe un po' come poter seguire un account su Instagram da Twitter). Gli algoritmi di solito sono molto semplici, e includono nei “feed” i contenuti dei profili con cui si è connessi in ordine cronologico, mentre gli algoritmi diabolici dei social “classici”, basati su meccanismi di raccomandazione, propongono contenuti sponsorizzati e “di successo” in “feed” virtualmente infiniti da scrollare, con l’obiettivo di monopolizzare il nostro tempo (che come le risorse sul pianeta è limitato, in opposizione a un modello economico di “sviluppo” infinito) insieme alla nostra attenzione per accumulare dati e renderci “il prodotto”, inchiodandoci allo schermo con meccanismi molto simili a quelli impiegati nelle "macchinette" dei videopoker e nei videogiochi altamente “addictive”.
Anche per questo si possono utilizzare una serie di pratiche come il “detox digitale”(che potrebbe culminare in un vero e proprio “boicottaggio” di questi), che consiste nel prendersi delle pause più o meno lunghe dai social e programmando un uso sapiente di questi strumenti, funzionale al nostro tempo, ai nostri obiettivi, e cercando di “eludere” i contenuti che ci vengono propinati in automatico selezionandone di altri.
 
Banalmente, anche nel Fediverso potrebbero svilupparsi fenomeni di centralizzazione e di polarizzazione all’interno di “bolle informative” (ossia veniamo indirizzati o ci auto-indirizziamo verso contenuti della “bolla ideologica” cui apparteniamo, rafforzando le nostre idee e non aprendoci al “diverso”) e non è un caso che perfino Donald Trump ha avviato “Truth Social” partendo dal codice di Mastodon. Nei vari "nodi" del Fediverso potrebbero trovarsi una serie di profili “troll” che veicolano contenuti tossici, oltre alla potenziale trasformazione in “Grande Fratellino di chi controlla materialmente i server, sfruttando i dati che circolano sui PC usati dagli amministratori per il funzionamento di un’istanza: anche in questo caso le dinamiche “orizzontali” di progettazione, controllo e “cura” sociale, che richiedono una certa dose di “protagonismo” e molti sforzi pagati (al più) solo dalle donazioni, insieme alla semplice possibilità (non attuabile sui social tipici) di abbandonare, creare ex novo o criticare istanze, possono essere una risposta a queste problematiche.
 
Altre considerazioni sul Fediverso e su come usare “sapientemente” e “in maniera alternativa” i social tradizionali, sono emerse anche in un altro panel di Open For Future: quando si vuole promuovere un contenuto, un collettivo o una “battaglia”, si può scegliere di avere una presenza “tattica” su tutti i social mainstream, cercando allo stesso tempo di far uscire gli “utenti” da quelle piattaforme.
È una questione molto spinosa proprio perché imprese come Facebook e "Big G" hanno di fatto monopolizzato la “visibilità” di una qualunque attività, per cui diventa molto difficile “farsi conoscere” o semplicemente comunicare la propria esistenza senza passare tramite i loro canali.
La strategia comunicativa potrebbe perciò consistere nel classico “siamo presenti sui social” per poi veicolare contenuti che “dirottano” l’attenzione verso iniziative di vita reale o verso il Fediverso. Oppure si potrebbe scegliere, in maniera più radicale, di dire che “non siamo presenti sui social, non ci mettete i like perché non ci importa e li boicottiamo, incontrateci dal vivo”...


Alcune vicende "storiche" sullo sfruttamento dei dati per fini politici, come il noto caso di Cambridge Analytica
Alcune vicende "storiche" sullo sfruttamento dei dati per fini politici, come il noto caso di Cambridge Analytica


 
Infine c’è Bonfire, di cui si è parlato in uno dei workshop conclusivi, che è un “ambiente social” e pezzo del Fediverso altamente personalizzabile con molti ambiziosi obiettivi, tra cui quello di creare un ambiente che non sia solamente “non tossico”, ma addirittura “terapeutico”, in particolare con delle forme di controllo “positive” di chi ha particolari fragilità e dei/delle più piccole/i da parte di genitrici/genitori e tutrici/tutori.





Nel video si nota una riproduzione dello spazio “Làbas” tramite Minetest, software libero alternativo a Minecraft del colosso di Microsoft: tra i curatori del “mondo a cubi” aperto e libero c’è Marco Amato di Etica Digitale.

 
 
Concludiamo questo paragrafo con una considerazione da tenere bene in mente e che di solito riguarda molte delle esperienze “di conflitto” e auto-gestionarie, così come quelle di “advocacy” e di pressione più “riformista”, qualcosa che non possiamo non considerare come militantə e attivistə: esperimenti e pratiche di questo genere da un lato potrebbero essere troppo marginali e ridotte dal punto di vista dell’espansione al di fuori dei circuiti delle militanza, ma anche da quello del sostentamento economico. Mentre dall’altro potrebbero essere fagocitate dalle logiche e dagli operatori del “mercato” o dalla politica con la “p” minuscola, ossia quella tendenzialmente partitica e/o “cialtrona”...
 
 
 
PANEL SU TECNOLOGIA, SORVEGLIANZA E REPRESSIONE: DALLE CARCERI AI CONFINI

 Tra gli svariati incontri abbiamo deciso di prendere parte al panel moderato dal giornalista Lorenzo Guadagnucci, in cui le tecnologie erano messe in relazione con le tematiche della detenzione e della criminalizzazione delle persone in movimento, oltre a chi è solidale con loro, due temi che non a caso ricorrono spesso tra le pagine di questa Fanza/Blog/Rivista.
 
Ad aprirlo ci sono gli interventi di Ilaria Giugni e Francesca Bonassi, esperte di diritto e operatrici dell’Associazione Antigone presso la casa circondariale femminile di Pozzuoli. Condividiamo pienamente l’orizzonte ideale abolizionista dell’istituzione penitenziaria che andrebbe ripensata radicalmente e “hackerata” in senso politico/legale, un’istituzione che è anche “tecno-repellente”: la mancanza di fondi e risorse per avviare le attività che servirebbero alla “rieducazione” dei/delle ristrette/i si ritrova anche nel settore tecnologico, incrementando ingiustamente il grado di afflittività insito nella stessa pena e incidendo sui diritti di quegli esseri umani, violazioni di diritti al centro del loro intervento. Violazioni che nel caso di donne e madri vengono amplificate dall’ulteriore stigmatizzazione per l’essersi “macchiate” di un’azione ritenuta illegale in quanto generatrici di un essere vivente, e non come “semplici” donne.
 
La scarsità di questi mezzi e l’assenza di tecnologia nelle “quattro mura”, in una società “iperconnessa” in cui il confine tra virtuale e reale si assottiglia sempre di più, si traduce in un’ulteriore “contenzione virtuale”, dato che una serie di strumenti sono oramai indispensabili per qualunque attività lavorativa o di studio (e non parliamo di garantire l’accesso ai social network per postare trivialità ma, banalmente, a un programma di videoscrittura e a materiali di studio su dei CD, oltre che a connessioni “protette”, cose che almeno “sulla carta” sono programmate da più di vent’anni), alimentando la distanza siderale tra le dimensione del “fuori” e quella del “dentro” e negando la possibilità di emanciparsi... e quindi, in ultima istanza, sostenendo il circolo vizioso della recidività invece che innescare quello virtuoso di una presunta “rieducazione”.
 
Un effetto parzialmente positivo della tecnologia nell’ambito del diritto all’affettività deriva dall’utilizzo delle video-chiamate a distanza che in molti casi, in particolare per i migranti o per chi ha familiari in luoghi distanti, costituisce l’unica via di comunicazione con i propri cari. Questo metodo di comunicazione dovrebbe comunque essere “accessorio” e non il principale, e bisogna ricordare che l’Italia è molto indietro ad altri paesi dove periodicamente vengono previste delle visite “private”, “intime”, mentre negli istituti nostrani l’affettività fisica è completamente negata o relegata a un surrogato di sporadici “tocchi” o “abbracci” durante le visite.
Tuttavia le operatrici hanno denunciato una serie di casi in cui perfino la privacy delle video-chiamate viene calpestata: vengono effettuate in luoghi non consoni come corridoi o addirittura all’aperto e al freddo oppure, peggio, non ci sono abbastanza strumenti per farle proprio perché magari la batteria del cellulare si scarica... E hanno anche raccontato di due casi paradigmatici: la storia di Vincenzo che è stato trasferito in Sardegna e con il padre disoccupato che può visitarlo solo una volta all’anno, e quella di Svetlana rinchiusa da 22 anni dopo che ha ucciso il suo “protettore” che non ha mai fatto nemmeno un colloquio.
 
Altra storia paradigmatica, legata però al diritto allo studio, è quella di Anna, che sta studiando economia in DAD presso il Polo Penitenziario della Federico II: non può certo seguire le lezioni quando ne ha bisogno, ma solo per “gentile” concessione dell’autorità giudiziaria, o per meglio dire <<quando vuole la penitenziaria>> che deve registrare tutto. Inoltre, paradossalmente, l’acceso alla DAD è permesso solo per i corsi che si tengono nella stessa regione.
E ancora: quando una detenuta viene trasferita in un altro istituto i dati che la riguardano, come le presenze a lezione, vengono registrati dalle maestre elementari su un foglio di calcolo elettronico che però non sono trasferiti verso gli istituti di destinazione, e quindi la ristretta dovrà sostenere nuovamente il percorso di studio.
 
Altro esempio dei paradossi dei diritti “tecnologici” negati è quello di una detenuta per piccoli reati. Le relatrici ricordano che lei, come tutti i detenuti che non avranno diritto alla "remissione del debito", oltre a dover pagare le spese per il suo mantenimento in carcere dovrà patire le conseguenze di un errore di un centro fiscale che le ha permesso di ottenere i pochi spicci previsti dal reddito di cittadinanza. Le operatrici avevano trovato un articolo online che poteva esserle utile ma la consegna le è stata negata “in quanto scaricato da internet”...
 
Queste mancanze “digitali” si ripercuotono ovviamente anche sul diritto al lavoro, e quindi sulla possibilità di “telelavoro” e di formazione a distanza, e dietro le sbarre prevale ancora la dimensione manifatturiera.
Il diritto su cui è fondata la nostra Repubblica, che di fatto si regge più che altro sul precariato disattendendo quanto previsto dal primo articolo della Costituzione, in carcere può trasformarsi in un vantaggio sostanziale in favore del capitale: la popolazione carceraria è infatti anche una “riserva di manodopera” particolarmente preziosa, dato che chi è “dentro” ha meno da fare e quindi è anche maggiormente incline a lavorare “stacanovisticamente”, oltre a essere meno propenso a far valere i propri diritti.
 
Le esperienze e l’intervento del sociologo Valerio Pascali, membro del direttivo regionale Emilia-Romagna di Antigone, confermano le ampie lacune del sistema penitenziario che percorrono tutto lo Stivale.
In più, in qualità di ricercatore, ha portato un altro esempio dei bizantinismi burocratici del sistema penitenziario che hanno ostacolato la sua attività di studio: mentre faceva una ricerca etnografica di tipo qualitativo nel carcere padovano Due Palazzi gli è stato vietato di entrare con qualunque dispositivo per registrare, perfino quello con le cassette a nastro. Si è perciò ritrovato a dover trascrivere a mano le interviste con i ristretti, compromettendo la qualità del dato raccolto.
 
Altro punto che ha toccato è quello del ruolo della tecnologia in relazione alla sorveglianza interna. Ha ricordato che nelle rivolte scoppiate nei primi giorni dell’emergenza pandemica nel carcere di Modena (in cui sono morte 9 persone in totale, alcune sul posto e altre nell’immediatezza dei trasferimenti disposti) il mancato funzionamento delle telecamere di sorveglianza non ha permesso di fare chiarezza sui punti oscuri della gestione della sommossa, a differenza di quanto avvenuto invece a S. Maria Capua Vetere, dove c’è un processo in corso e dove c’era stato un tentativo di manomissione dei filmati (del ruolo delle telecamere e delle immagini digitali in quello specifico frangente e, più in generale, in tutti quei casi che dovrebbero fungere da deterrente per le brutalità delle polizie ne abbiamo parlato nell’inchiesta sulla strage nelle carceri durante il lockdown).
Nella conclusione del suo discorso l’esperto di carcere cita una frase di Elton Kalica (che ha iniziato il suo percorso di studi dietro le sbarre diventando Dottore di ricerca in Scienze Sociali) e che racchiude l’essenza malata dell’istituzione da ri-concepire dalle radici, intervenendo in primis sui rapporti sociali: <<nell’attuale assetto sociale il carcere è l’architrave per neutralizzare parte della popolazione vista come nemica>>.
 
Non ci sono fondi sufficienti per garantire diversi diritti basilari alle quasi 60 mila persone che vivono nelle prigioni italiane mentre, al contrario, stiamo spendendo ingenti risorse per l’utilizzo di braccialetti e altri dispositivi elettronici di controllo che non sembrano incidere effettivamente sull’enorme problema del sovraffollamento, e che invece potrebbero allargare <<a dismisura l’area del controllo penale, fino a occupare spazi di tradizionale pertinenza dei servizi sociali>>, come evidenzia un rapporto di Antigone dello scorso anno, basato su dati diffusi nel Regno Unito, mentre per l’Italia non ne sono stati forniti abbastanza dalle autorità.
 
Bisognerebbe garantire i vari diritti, accesso a Internet incluso (con le ovvie e dovute limitazioni) a tutta la popolazione carceraria, prescindendo dalla logica premiale della concessione ed elaborando una carta dei diritti digitali per i detenuti. Invece nelle carceri vige un sistema “infantilizzante”, che va di pari passo con la scarsità di risorse materiali e umane (e forse anche con la scarsa “voglia di lavorare” di molti appartenenti al personale penitenziario), per cui per ogni minima richiesta bisogna sempre compilare la famosa “domandina”...

Dopo aver parlato della mancanza di tecnologie che conduce alla mancanza di diritti passiamo ad analizzare l’eccesso di tecnologia che invece li mina (oltre al caso dei braccialetti elettronici), e che molto spesso conduce a detenzioni arbitrarie e illegittime: Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha presentato i risultati di due inchieste sulla sorveglianza digitale. La prima è culminata nella campagna “Ban the Scan” (“scansioni al bando”) per vietare l’uso, lo sviluppo e la vendita di tecnologie per il riconoscimento facciale finalizzato alla sorveglianza di massa.



Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia


 La campagna, avviata nel 2021, si basa su tre ricerche in altrettante città: New York, Hyderabad ed Hebron. Decine di migliaia di telecamere vengono usate, insieme a dati biometrici e immagini tratte da altre “fonti” come i social network, in uno scenario “orwelliano” e distopico che viola diversi diritti umani, a cominciare da quello della privacy naturalmente: queste tecnologie espongono migliaia di persone ad arresti ingiusti, insieme all’incremento di discriminazioni verso minoranze e comunità marginalizzate, tramite delle tattiche intimidatorie “automatizzate”. Parliamo di un campo legislativo scarsamente regolato o sistematicamente violato, con la capacità di effettuare “pedinamenti digitali” passo dopo passo, alimentando pregiudizi e minando seriamente la coesione sociale delle democrazie, e fornendo precisissimi strumenti di repressione agli stati più autoritari.
 
Il rapporto pubblicato riguardo l’“apartheid automatizzato” di Israele è il più recente delle tre città. La parola apartheid non è usata dalla ONG per enfatizzare il livello di gravità che ha raggiunto l’occupazione Israeliana, ma è parte organica di una richiesta al Tribunale Penale Internazionale e a tutti gli stati per avviare una causa di crimini conto l’umanità.
 
L’utilizzo delle tecnologie“Red Wolf” e Mabat 2000” serve a restringere ulteriormente la possibilità di movimento dei palestinesi nella città di Hebron, nei territori occupati della Cisgiordania, e a Gerusalemme Est, capitale dello stato palestinese, limitando il diritto al lavoro, allo studio, all’acceso a strutture mediche ma anche solo a incontrarsi con i propri cari. La ricerca di Amnesty si è avvalsa della collaborazione di un’altra ONG, Breaking The Silence, formata da ex militari israeliani.
 
I software per il riconoscimento facciale e la raccolta di dati, presenti sia sulle telecamere dei checkpoint che sulle app dei soldati occupanti, si integra a una serie di strategie per rendere impossibile la vita dei palestinesi, favorendo quella dei coloni e schedando (senza consenso) in appositi database chi è stato “attenzionato” dalle forze israeliane anche solo per aver partecipato a proteste pacifiche (solitamente represse da agenti sotto copertura con un uso illegale della forza). In base a questi dati viene deciso se una determinata persona può o meno passare un posto di blocco, esponendola anche a detenzioni arbitrarie non necessariamente nell’immediatezza del controllo, e prefigurando un futuro cacotopico in cui i cancelli dei checkpoint saranno completamente robotizzati, e in un presente in cui le telecamere di sorveglianza poste su diversi pali vengono usate come dispositivo doppiamente “panottico”, e quindi non solo dall’interno verso l’esterno, e quindi da un punto di osservazione posto nel centro di uno spazio, ma anche dall’esterno verso l’intwebi.
 
Non sarebbe certo la prima volta che tecnologie particolarmente invasive sperimentate in Israele vengano poi adottate nel resto del Mondo. Alcune telecamere, sostiene il rapporto, sono state fornite dalla cinese Hikvision e dall’olandese TKH Security, per poi essere distribuite dall’israeliana Mal-Tech: Amnesty ha formalmente interrogato le prime due sulla concreta possibilità che le loro tecnologie vengano usate violando i diritti umani, e mentre l’azienda neerlandese ha negato di avere rapporti con l’azienda israeliana (nonostante sul suo sito fosse presente un documento che affermava il contrario) quella cinese non ha fornito alcuna risposta.
 
Anche l’uso di questi mezzi nella città indiana di Hyderabad, violando tutta una serie di normative della democrazia più popolata del pianeta, hanno funzionato come una sorta di gigantesco campo di prova e di implementazione degli stessi. Le “molestie automatizzate”, come le definisce l’organizzazione, danneggiano le comunità già stigmatizzate del paese: musulmani, transgender, adivasi e i “pària”, l’ultima casta del sistema socio-religioso induista.
 
Negli USA invece diverse città hanno messo al bando il riconoscimento facciale per la sorveglianza di massa, ma non New York dove Amnesty ha intentato una causa contro il dipartimento di polizia, spiegando che la tecnologia ha amplificando le dinamiche razzializzanti al suo interno.
Le telecamere si concentrano nelle aree dove ci sono meno bianchi, e un utilizzo massiccio degli strumenti di identificazione e repressione è stato registrato durante una serie di proteste, come quelle del movimento Black Lives Matter.
Emblematico è stato il caso di Derrick “Dwreck” Ingram, tenuto ostaggio nella sua casa assediata da droni, polizia armata fino ai denti con unità cinofile e un elicottero, dopo che una sua foto di Instagram era stata diffusa con la scritta “ricercato”: pare che fosse stato accusato di aver urlato nelle orecchie di un poliziotto (e quindi un reato minore) ed è stato “riconosciuto” dal software circa due mesi dopo l’evento, nel 2020. Alla fine i poliziotti, dopo averlo terrorizzato tentando di distruggere la porta di casa, hanno lasciato il luogo perché non avevano un mandato.
Il riconoscimento facciale non è usato solo dalla polizia newyorkese, ma anche da alcuni proprietari immobiliari per sorvegliare la comunità afroamericana, oltre a dover sottoporsi alla scansione facciale per entrare nelle proprie abitazioni.
È possibile firmare una petizione per unirsi al grido di “Banthe Scan”! 
 
Sulla sezione del sito della ONG, "Amnesty Decodersè presente una piattaforma dove migliaia di “volontari digitali” possono contribuire a diversi progetti, tra cui quello di una mappatura dei luoghi della “Grande Mela” in cui è più probabile che si venga “scannerizzati”, un esempio virtuoso di come usare collettivamente le “tech”.
Invece un esempio di un uso sbrigativo e controverso delle intelligenze artificiali da parte della ONG è quello attuato dalla sua sezione norvegese: hanno usato un generatore di immagini per ricordare le brutalità della polizia in Colombia nel 2021, evitando di usare fotografie reali per preservare l’anonimato di chi era nelle proteste. Il fine era legittimo, ma il mezzo ha alzato un polverone mediatico perché, nelle parole dello stesso Noury, <<non si può sostituire il lavoro dei fotografi e quando non si possono mostrare i volti lavoriamo con la grafica o con i disegni>> mentre quello <<è stato un tentativo goffo, è uscita fuori una bandiera della Colombia che sembrava quella spagnola>>. Tuttavia pensiamo che gran parte della stampa mainstream, oltre a criticare queste problematiche “grafiche” e comunicative, potrebbe concentrarsi su ciò che accadde in Colombia nel Maggio del 2021, quando morirono più di venti persone, 65 sparirono nel nulla, e si registrarono più di 140 abusi (9 di tipo sessuale) insieme a più di 760 arresti arbitrari.


 
Adesso ci allontaniamo dalle contenzioni fisiche e digitali, dai confini intangibili e virtuali imposti dalla cultura e rafforzati da certe tecnologie per avvicinarci a quelli imposti dagli stati.
Lorenzo Pezzani è un architetto e ricercatore che anima una serie di progetti ruotanti intorno alla violenza dei confini, denunciano gli abusi di chi dovrebbe salvare, e non reprimere le persone in movimento, contribuendo concretamente alla loro salvezza, come fa Watch the Med Alarm Phone.
 
Attualmente è tra i fondatori del progetto “Border Forensic”, che raccoglie l’eredità di “Forensic Oceanography”. L’associazione no-profit conduce ricerche per comprendere e combattere il <<regime di confine militarizzato imposto dagli stati europei lunghe le frontiere marittimi dell’UE>>.
Il termine “forensic” potrebbe essere tradotto letteralmente come “forense”, ma nell’accezione inglese indica le particolari pratiche poliziesche/investigative che si effettuano in laboratorio con l’ausilio delle “scienze dure”: in pratica gli attivisti hanno trasformato una pratica poliziesca in una contro-egemonica <<in una maniera schizofrenica, standoci dentro e contro allo steso tempo>>.
Lo fanno basandosi principalmente su dati “aperti”, come quelli ricavati da mappe, immagini satellitari, sensori, registri dei tracciati aerei e navali, che vengono incrociati con interviste, testimonianze, filmati e dati raccolti dalle ONG che svolgono attività di “Ricerca e Soccorso” (SAR). E non lo fanno per sorvegliare i confini ma per denunciare gli abusi della sorveglianza sui confini, oltre che per <<garantire il diritto all’opacità che riguardano pratiche di attraversamento non autorizzate>>.
 
Un esempio delle loro “investigazioni autoprodotte” e di “contro-uso delle tecnologie” consiste in un articolo web interattivo realizzato con “Human Rights Watch” intitolato: “Complicità Aeromobile, la sorveglianza Aerea di Frontex permette abusi”. Analizzando i tracciati di velivoli pilotati a distanza e non, incrociati con una serie di testimonianze, sono riusciti a presentare evidenze sul fatto che i mezzi utilizzati dall’agenzia europea non vengono utilizzati per portare al sicuro vite umane, ma supportano la sedicente guardia costiera libica per riportare illegalmente i migranti in un paese dove i diritti umani vengono calpestati sistematicamente, a vantaggio di chi gestisce i lager detentivi e lucra sui viaggi della speranza con soldi dei contribuenti europei.
In particolare si è notato che un aereo pilotato a distanza si muoveva lungo una serie di traiettorie prestabilite. Quando avvistava una barca deviava da queste e successivamente i guardiacoste-miliziani libici (con addestramento e mezzi navali forniti dall’Italia e altri paesi europei, tra l’altro) intervenivano “magicamente” per riportare i migranti nell’inferno libico, compiendo interventi che altrimenti non sarebbero stati alla loro portata.
 
Altro progetto avviato dall’associazione è intitolato “Hostile Environment” nel Regno Unito. Si fanno ricerche e si denunciano una serie di metodologie di sorveglianza dall’interno dei confini: si chiede a insegnanti, impiegati di banca, personale sanitario e a tutti i cittadini di condividere dati con l’Home Office britannico su potenziali migranti formalmente irregolari, trasformando gli abitanti “spioni” in una specie di guardacoste e poliziotti dediti a combattere e criminalizzare i fenomeni migratori (praticamente un processo di “poliziazzazione” di civili). Quei dati vengono poi incrociati con degli altri presenti nei database governativi e, tramite degli algoritmi, vengono studiati dei “pattern” di possibili irregolarità.
 
Concludendo il suo breve e incisivo intervento, pone l’accento sull’importanza della sensibilizzazione insieme allo sviluppo di tecniche investigative “open source”, all’avvio di contenziosi strategici nei tribunali per innescare cambiamenti normativi partendo da singoli casi, alla cooperazione con altri attori non governativi e comunità di migranti tramite <<strategie basate sulle arti e l’architettura, che ci forniscono mezzi fondamentali di analisi visuale e spaziale>>, e quindi di pratiche collettive finalizzate all’attivismo e alla ricerca in favore del rispetto dei diritti umani, con l’orizzonte ideale che è l’abolizione dei confini.

 
Si è parlato di politiche sulle migrazioni , con una particolare attenzione ai “confini interni” allo spazio di Schengen, anche nell’ultimo intervento più “accademico” (e onestamente non nascondo che è stato abbastanza difficile seguirlo e quindi, sperando di non riportare inesattezze, siamo disponibili per qualunque richiesta di rettifica), quello di Chiara Loschi, Dottoressa di ricerca in scienza politica e relazioni internazionali che ha realizzato numerosi studi e lavorato per diversi progetti nell’ambito migratorio “Mediterraneo”, tra cui uno sulla gestione europea della crisi libica , un altro che indaga le relazioni tra la cooperazione delle agenzie europee eil rispetto dei diritti umani, e anche uno sui cosiddetti “hotspot” per migranti
 
La relatrice ha esposto la principale argomentazione dello studio realizzato con la già citata Annalisa Pelizza e  pubblicato ad Aprile, dal titolo (tradotto): “Raccontare ‘storie più complesse’ sull’integrazione europea: come una prospettiva socio-tecnica può aiutare a spiegare la continuità amministrativa nel Sistema di Asilo Comune Europeo”.
Le narrazioni mediatiche, tendenzialmente allarmistiche, parlavano di “crisi migratoria” da molto tempo prima della dichiarazione dello stato di emergenza del governo Meloni, ma la studiosa spiega che si tratta in realtà <<di una crisi delle politiche europee>>, con un bisogno di riforme che non avanza e con “ricollocazioni” extralegali che continuano.
Viene dunque evidenziato un paradosso: le pratiche amministrative vanno avanti mentre è in una fase di stallo l’attività politica del sistema di accoglienza europeo CEAS (Sistema europeo comune di asilo) e quindi del cosiddetto “sistema di Dublino”, secondo cui le richieste di asilo devono essere esaminate nel primo paese di ingresso, senza meccanismi di compensazione per il carico di lavoro per le nazioni in cui si registrano i principali flussi migratori.
Succede dunque che paesi come l’Italia e la Grecia respingono illegalmente le persone in movimento verso altri stati, tendenzialmente quelli del Nord-Europa che, a loro volta, avviano delle procedure d’infrazione.
I “caratteristici” paesi d’entrata dovrebbero raccogliere nell’archivio European dactyloscopie (non esplicitamente menzionato nel lavoro di ricerca), le impronte digitali di richiedenti asilo e delle persone colte nel momento del passaggio formalmente irregolare tra le frontiere. Oltre alla raccolta di dati biometrici esiste anche un sistema per raccogliere dati sullo stato di salute dei migranti (che è invece al centro dello studio), focalizzato in particolare sugli aspetti psicologici/psichiatrici dei richiedenti, e si chiama MiMOSA. Il fine principale di questo strumento, gestito dall’OIM (Organizzazione internazionale per le migrazioni), è quello di <<mitigare gli effetti delle preoccupazioni degli stati membri e del rifiuto di ricollocazioni basati su ragioni di salute pubblica>>. Il funzionamento di questo database, argomentano le studiose, è un esempio di come nonostante la situazione di stallo delle politiche dell’UE e la mancanza di fiducia tra i diversi paesi europei, l’azione amministrativa acquista una dimensione preponderante e in qualche maniera compensa una serie di mancanze e instabilità politiche, rafforzando l’operato di enti non statali come l’OIM che assume il ruolo di mediatore per le ricollocazioni tramite lo standard assicurato dal sistema MiMOSA, definibile come un’infrastruttura di dati sanitari

Nella conclusione dello studio le autrici spiegano che il loro intento è, in un certo senso, politicamente “asettico”, dato che si occupano di descrivere le complesse relazioni tra il fenomeno migratorio e le infrastrutture di dati, e che le evidenze presentate dovrebbero servire a elaborare nuovi studi e domande di ricerca <<sul rispetto dei diritti umani internazionali e sui principi della protezione dei dati>> oltre che sulle evoluzione del sistema di accoglienza europeo. Infatti il ruolo di queste infrastrutture virtuali, così come quello delle tecnologie in generale, influenza lo sviluppo degli stati, così come lo hanno fatto le infrastrutture fisiche: l’esperta di politiche migratorie ha voluto sottolineare che, negli ultimi secoli, il modello di integrazione europea si è basato proprio su infrastrutture come le reti ferroviarie, e quindi oggi il campo delle infrastrutture “intangibili” merita una profonda attenzione.
 
 

ALTRI SPUNTI SPARSI E RISORSE ONLINE “DA SPULCIARE”

Tantissimi altri “input” sono arrivati anche dagli stand, dalle talk finali più “rilassate” e dalle registrazioni di alcuni dei tavoli presenti sull’archivio delsito di RTT. Invitando nuovamente chi non ha potuto partecipare a “spulciarsele”, prima di concludere riporto in maniera fulminea altri argomenti che mi hanno particolarmente colpito e che ho cominciato ad approfondire:
 
partendo dai “dati” si è parlato della stessa nozione di “dato”, di quella di  dato di genere” e di “contro-dato”, di come proteggere i propri dati personali e delle pratiche di autodifesa digitale nella giungla anarco-capitalista, un “far west” in cui i “banditi” delle big-tech hanno le pistole più potenti e scorrazzano con troppa facilità…


Il volantino di Period Think Tank
Il volantino di Period Think Tank


 
Altra definizione cruciale è legata al mondo del lavoro: “tech worker” non è solo chi scrive programmi, chi cura il web-design di un sito aziendale, chi si occupa di grafica o fa il sistemista, ma è anche chi consegna pasti in bicicletta guidato da un algoritmo o chi lavora al videoterminale in un call-center.

 
Il banchetto di Tech Workers Coalition
Il banchetto di Tech Workers Coalition



Sempre restando nell’ambito lavorativo ho appreso un nuovo termine, “cognitario”: si tratta di precarə con competenze specializzate e sottopagate dal “mercato del lavoro”. E poi ci sono i “bullshit jobs”, o “lavori del cacchio”, definizione introdotta da David Graeber.
 
Altro tema cruciale per lo sviluppo fisico e cognitivo delle nostre menti è quello dell’impatto delle tecnologie sulla capacità di attenzione e concentrazione nel mantenere una conversazione, o magari nel leggere un libro cartaceo, e quindi sulle nostre percezioni sensoriali e sui processi cognitivi.

Oltre agli usi e agli impatti negativi ci sono anche quelli positivi delle tecnologie: è vero che i droni vengono usati per reprimere illegalmente le migrazioni ma, per esempio, possono essere usati per ridurre o rilevare fonti di inquinamento e denunciare gli abusi ambientali.


immagine di un drone

immagine di un drone

 
Infine c’è una prospettiva che ritengo illuminante e che rompe con le visioni dominanti dell’antropocentrismo: sul pianeta non ci sono solo essere senzienti (le varie specie animali, umani inclusi) e vegetali (forse anche piante, insetti e microrganismi potrebbero essere inclusi nel novero degli esseri con una qualche forma di coscienza, anche se non sono dotati di un sistema nervoso centrale come il nostro), ma anche componenti inorganiche e, infine, le macchine (sia fisiche, come i macchinari di una fabbrica, sia virtuali, come le intelligenze artificiali e gli algoritmi). Queste quattro dimensioni sono profondamente interconnesse, e il “lavoro non salariato” svolto dalle componenti non umane della biosfera non è di solito preso in considerazione: ad esempio possiamo respirare grazie al “lavoro” delle piante che producono ossigeno, oppure il pericolo della sopravvivenza e del “lavoro” delle api è collegato a quello della riproduzione di molti vegetali, o ancora, possiamo usufruire del petrolio (anche se ovviamente dovremmo farne a meno) grazie a processi “non salariati” di decomposizione di materiali organici che si realizzano in milioni di anni. Questa prospettiva “globale” potrebbe essere sintetizzata come un’estensione della teorie del materialismo storico a tutti i processi di “Gaia” e nell’immediatezza dovrebbe spingerci ad anteporre il tema del “green first” (ma non in maniera esclusiva) a tutti gli altri impegni sociali e politici.
 
 
immagine di alcuni workshop


immagine di alcuni workshop

 
immagine di alcuni workshop



 
 

LE LOCATION “NON CASUALI”, L’ACCOGLIENZA E IL LAVORO DI CURA

La tre giorni è stata possibile non solo a chi ha viaggiato lungo tutto lo stivale per animarla, ma soprattutto grazie al lavoro di cura gratuito di tutt# gli/le attivist# che hanno montato le attrezzature, che hanno fatto le pulizie, che hanno cucinato (buonissime le opzioni vegane sempre presenti, slurp!), che hanno accolto nella propria casa i/le "viandant#", allo spazio per i/le più piccole/i e così via.
 
Nonostante qualche “fisiologico” problema logistico per una prima edizione, in particolare nella palestra popolare il suono delle diverse “talk” si accavallava (cosa che un attivista/partecipante neurodivergente ci ha tenuto giustamente a sottolineare) posso immaginare che l’organizzazione dell’evento, assemblee preparatorie dei diversi tavoli di discussione incluse, ha richiesto tantissimi sforzi che mi pare siano altrettanto “ripagati” socialmente.

la palestra popolare del TPO
La palestra popolare del TPO

la palestra popolare del TPO durante un workshop


 
In merito a ciò è più che necessario spendere qualche parola sulle "location", che sono anche degli spazi di lotta.
 
Partiamo dal "Teatro Polivalente Occupato", nato nel 1995: <<Dopo un primo sgombero dagli spazi dell'Accademia delle belle arti nel 2000, fu un'ex fabbrica di acquari ad essere occupata fino al 2007. Da quell'anno ad ora il Tpo ha sede in via casarini 17/5. Queste le mura che lo hanno protetto>>, si legge sul sito che definisce un Centro Sociale come<<uno spazio indefinibile e non recintabile per concetto, che ha nel proprio DNA una principale attitudine politica. Si distingue nell’agire politico quotidiano, nella creazione di dibattito e conflitto, divenendo poi un contesto sociale aperto, diffuso e partecipato. Questa l’idea che lo illumina. Il Tpo è antifascismo e antisessismo, è comunicazione e cultura. Il Tpo è un artigiano paziente intento a plasmare pratiche di diritti e libertà>>
 
Parlando con Lino, che ci ha calorosamente accolto, abbiamo compreso (se abbiamo compreso male questo o qualunque altro concetto sopraespresso comunicatecelo, la pseudo redazione si attiverà quanto prima e rettificherà ;) che sostanzialmente un nucleo di militant# ha esteso le sue pratiche, le sue energie e i suoi saperi dal TPO al Làbas, definibile come "Municipio Sociale", concetto affine a quello del centro sociale ma che in un certo senso lo supera o quantomeno ne rappresenta una possibile evoluzione, come spiegato sul quaderno dei Municipi Sociali: <<i municipi sono spazi aperti e, forse, non sono più i centri sociali di una volta. Centri sociali, per dirla in breve: luoghi con cancello o portone da aprire e chiudere tutti insieme, collettivo di gestione, assemblea settimanale, quadro ideologico tutto sommato ben definibile, contesto culturale di provenienza dei suoi frequentatori abbastanza simile. Di tutte queste definizioni, parziali e abbastanza riduttive, una però è importante e suggestiva. L’immagine del cancello. L’indicazione del municipio sociale ci ha stimolati in questi anni a vedere i nostri spazi non come spazi da gestire, ma come spazi da autogovernare con le decine di persone che li attraversano. Non più lo spazio del collettivo, ma lo spazio della ricerca politica di nuove forme di organizzazione. In questo senso, una prima differenza con i centri sociali degli ultimi anni risiede nel fatto che il municipio sociale, per sua conformazione o perché tende ad esserlo, è uno spazio sempre aperto, però non aperto da un collettivo gestore che porta all’esasperazione la “sostenibilità della militanza” nell’essere continuamente presente nello spazio. Aperto da forme di soggettività diverse da quelle che hanno aperto i primi centri sociali. Aperto anche solo per fare un corso di italiano, una visita medica o un corso di informatica. Aperto per progetti politici espansivi e tendenzialmente interdipendenti. Uno spazio in cui i soggetti sono una parte, autonomi, ma anche interdipendenti. Il centro sociale era un progetto politico in sé, il municipio sociale invece ne contiene molti, di progetti. Interdipendenza, dunque, e non pura autonomia. Anche se sì, siamo ancora autonomi. (...) Autonomi perché, per esempio, la sfida per l’autonomia è la più grande che si pratica in un doposcuola o in contesti dove il circolo vizioso della povertà non fornisce alcun elemento di riscatto, singolare o collettivo.
 
Essere autonomi fa parte del nostro DNA di soggetti eretici. Un DNA che sta subendo delle modificazioni, trasformazioni che però proviamo sempre ad acquisire in senso espansivo, materialista, gioioso.
 
Da autonomi, allora, ci interroghiamo sull’interdipendenza di e tra quelli che abbiamo iniziato a chiamare municipi sociali. Il concetto di Autonomia gioca un ruolo molto importante nel saper cogliere le sfide dell’interdipendenza presentate dai Municipi sociali>>.

Insomma, è uno spazio autogovernato da chi lo attraversa, uno spazio che non sacrificando la propria autonomia, le pratiche dell’autogestione e la propria indipendenza, non dimentica il suo rapporto di interdipendenza con altri settori della società (in particolare quelli più marginalizzati e “difficili”), provando a mutarla insieme a quei “pezzi” di comunità, trascendendo l’ambito di chi è già politicamente “impegnat*” e misurando la forza dell’impatto che si vuole ottenere.


immagini dal Làbas e dal Tpo




immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo


immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo

immagini dal Làbas e dal Tpo




 
Degno di menzione è anche un terzo spazio, H.O.ME. Hub di Organizzazione Meticcia (sede dell’ex Caserma Masini e prima sede di Làbas fino al suo sgombero nel 2017), dove sono stati ospitat# alcun# “pellegrin#” della "riconquista" tecnologica: lo stabile è stato ri-occupato per rivendicare il diritto all'abitare, una forma di lotta affine a quella di chi in questi giorni sta piantando le tende davanti alle università, reclamando spazi che una volta abbandonati avviano dei meccanismi in favore del profitto di speculatori e “palazzinari” vari, lasciando letteralmente molte persone in mezzo a una strada, tutelando gli interessi meramente economici e tradendo invece uno dei diritti più basilari dell'essere umano, quello di un tetto sopra la testa.
 
 

VERSO RECLAIM THE TECH 2024





Nell’assemblea plenaria finale è emersa la volontà di non auto-etichettarsi come “quelle/i del RTT” ma piuttosto di definirsi con un tanto generico quanto potente e responsabilizzante “noi”, quelle persone che nella tre giorni non solo hanno parlato di tecnologia, ma hanno cominciato a stabilire relazioni e a creare delle connessioni in un “social network”, nel senso letterale di “rete sociale”.


 
 

“DIREZIONAMO” L’USO DELLE TECNOLOGIE, PROGETTIAMONE DI NUOVE REALMENTE “SOSTENIBILI”, SVILUPPIAMO CONSAPEVOLEZZA, E FACCIAMOLO DA SUBITO!

 
Oltre a ricordare ancora una volta che per qualunque puntualizzazione, critica, commento, apprezzamento, proposta, richiesta di aggiungere o rimuovere qualcosa o richieste di altro genere basta contattare la pseudo-redazione (con qualunque mezzo, social oppure a-social... tranne piccioni viaggiatori, perché siamo seriamente contro lo sfruttamento di altri essere senzienti, uman# inclus#) che si attiverà quanto prima, voglio ribadire che questi tre giorni sono stati davvero fruttuosi: oltre all’interesse per la materia “specifica” e allo stesso tempo eterogenea del fest, è un tipo di quelle occasioni in cui si respira voglia di cambiamento, si intessono rapporti ma anche, banalmente, si discute di “politica” (non necessariamente “partitica”) a 360 gradi e, ancora più banalmente, in questo periodo di abbrutimento comunicativo-mediatico, si discute!
 
Ho imparato tantissime cose nuove, ho cominciato a ragionare su questioni che non avevo mai considerato o ad osservare il mondo digitale da altre prospettive, ho continuato ad “affinare” la mia identità politica e di attivista, e anche per la realizzazione di questo post ho attivato dei processi conoscitivi fondamentali, proprio grazie ai molteplici “input” che si sono impattati con la mia mente dopo la trasferta bolognese: estendiamo queste prassi comunitarie, autogestite, di dibattito e “intellettuali” in tutti gli ambiti della nostra società!
 
Le tecnologie possono renderci liberi ma possono essere usate per reprimere e limitare le nostre libertà: con l’avvento del web, per esempio, si pensava che avremmo avuto più possibilità di comunicare, e le abbiamo, mentre è più dubbia la possibilità di essere ascoltati o letti, e quindi che le nostre comunicazioni arrivino ad altr#, al di là del loro valore sociale e del potenziale di miglioramenti... Inoltre anche chi ci vuole controllare e comandare ha più possibilità di farlo grazie a Internet...

I diversi tipi di tecnologie possono essere progettati o usati per farci avvicinare a un mondo ideale ed equo, oppure possono farci sprofondare in scenari distopici e apocalittici: la direzione che la comunità umana prenderà e che sta già prendendo dipende anche da ognunə di noi, dal nostro impegno nel “piccolo” quotidiano, dalle azioni che vanno a determinare i “massimi sistemi”.
 
Con questo modesto post spero di aver dato un contributo, seppure in minima parte, a queste battaglie, svolgendo il mio compito principale di “scriba digitale”: a così tanti spunti teorici devono seguire molti altri fatti pratici, del resto sono fermamente convinto che teoria e pratica vanno di pari passo, si alimentano a vicenda... Riprendo le parole di Lilia Giugni auto-invitandoci ad allenare e a non fare atrofizzare il “muscolo dell’utopia”, insieme, per portare l’immaginazione radicale al potere.
 
 
Scribha Kino 
AKA Analfabeta Informatico Funzionale





 












ultima modifica 19:55 06/01/2024


Nessun commento:

Posta un commento