18.3.23

STRAGE NELLE CARCERI DURANTE IL LOCKDOWN (PARTE 1)

LE MORTI DOPO LE RIVOLTE DI MODENA, RIETI, BOLOGNA E S. MARIA CAPUA VETERE: UN RESOCONTO BASATO SULLE FONTI “APERTE”


 

a sinistra l'immagine stilizzata di un poliziotto che colpisce una persona a terra. Al centro la scritta "Noi non archiviamo!" e uno striscione con scritto: "verità e giustizia per i morti di Sant'anna". In alto a destra le immagini delle 9 vittime. In basso e a destra immagini dei medicinali "razziati", in particolare metadone.


L’OPINIONE PUBBLICA CHE “BUTTA VIA LA CHIAVE” E QUELLA CHE NON ARCHIVIA; LE DOMANDE SENZA RISPOSTA; L’USO E L’ABUSO DI DROGHE LEGALI E ILLEGALI; L’APPROCCIO REPRESSIVO A SCAPITO DEL SOCCORSO


Ricercare la verità, o forse è meglio dire “le verità” delle drammatiche giornate e rivolte, che hanno visto il più alto numero di morti “concentrate” in carcere nella storia repubblicana, è un compito tanto doveroso quanto complesso.

Data la vastità degli eventi, ricostruire quello che è accaduto e che è rilevante dal punto di vista storico, giornalistico e giudiziario (e siamo ancora molto lontani dal potere scrivere la parola “fine” così come l’espressione “siamo a metà strada” da queste prospettive) è difficile forse quanto ricostruire l’atmosfera grigia che si viveva (e si vive) nelle istituzioni totali chiamate “carceri”, delle condizioni precarie in cui lasciamo a marcire delle persone nelle discariche sociali note come “prigioni”, dopo che si è ipocritamente ed egoisticamente “buttata via la chiave”…

Per questo nelle righe che seguono abbiamo cercato di fare quello che questa umile “Zina/Rivista” ritiene di poter fare al meglio, e quindi in diversi mesi abbiamo analizzato, collazionato e fatto una sintesi delle svariate “fonti aperte” (articoli di giornale, inchieste video e scritte, dossier di “contro-informazione” o di informazione alternativa, carte giudiziarie pubbliche ecc.) riguardante quella che forse sarebbe corretto chiamare la “strage” nelle carceri ai tempi del Covid

I colpevoli, presunti e innocenti dal punto di vista legale fino a prova contraria, non sono solo i potenziali perpetratori di torture, omissioni e abusi, per dolo o per negligenza: siamo anche noi quando non ci preoccupiamo abbastanza di trovare dei modi di risolvere, ma soprattutto prevenire certi conflitti, certi comportamenti. Siamo anche noi quando pensiamo che la giustizia coincida con il semplice e menefreghista disinteresse verso chi ha commesso degli errori perché più fragile, perché ritenuto inutile, o forse perché è più “malvagio”... e peggio ancora quando non siamo nemmeno sicuri che certi errori o malvagità siano stati commessi (e cioè di chi, per esempio, è in attesa di giudizio ma è comunque già condannato a vivere nella discarica sociale e forse, quando e se si scoprirà, avrà diritto a un risarcimento economico, ragione principalmente economica che dovrebbe essere presa in considerazione anche da chi è più insensibile).

Oltre al lavoro di ricerca ci siamo presi lo spazio per fare alcune digressioni sui temi della detenzione, della sanità, dell’abuso di psicofarmaci (indotto dal marketing e dall’adottare soluzioni più “economiche” e immediate senza tenere conto dei problemi di lungo termine), del “welfare mafioso” favorito dal proibizionismo e degli strumenti invasivi della nostra privacy che dovrebbero essere usati anche per “controllare i controllori”.

Parte delle fonti sono citate tramite i link, altre sono riportate in calce alla seconda parte di questa lunga e intricata inchiesta, che riteniamo rifletti una vicenda altrettanto “estesa” e ingarbugliata, una “matassa” che per essere sbrogliata ha bisogno dell’attenzione dell’opinione pubblica e della collettività in generale. Per contribuire alla ricerca della verità, oltre al vostro prezioso tempo, vi chiediamo di segnalarci (tramite mail, commenti, social, messaggi ecc.) eventuali inesattezze, precisazioni o qualunque cosa riteniate utile menzionare.

 

Nella notte tra il 7 e l’8 Marzo 2020 viene dichiarato il “primo” lockdown, non ancora esteso a tutto il territorio nazionale. Mentre ci preparavamo a sperimentare un “assaggio” di cosa vuol dire essere ristretti, tramite una sorta di “arresti domiciliari collettivi”, per chi era davvero ristretto nelle prigioni italiane scattavano ulteriori limitazioni, mentre all’estero (e solo successivamente anche in Italia) venivano scarcerati migliaia detenuti proprio per il rischio pandemico: alla paura di contrarre il virus nelle carceri, già drammaticamente e illegittimamente sovraffollate, e quindi con condizioni igieniche già precarie, con pochissimi educatori e medici, e con tutta una serie di complicazioni alle quali chi è “fuori” non sarà mai abituato abbastanza per comprenderle, si aggiungeva la sospensione delle visite di cari e familiari, dei permessi per uscire temporaneamente o per lavoro, della ricezione di pacchi con beni alimentari e di prima necessità, dei colloqui e delle già poche attività che dovrebbero essere finalizzate a “riabilitare” (e la mancanza o inadeguatezza di quelle attività finisce per trasformare le carceri in una scuola di criminalità): scattano delle rivolte nei penitenziari di tutta la penisola, a Foggia si verifica perfino un’evasione di massa. Secondo alcuni le proteste erano motivate esclusivamente dalle già precarie condizioni di vita e dall’annuncio della decisione dell’allora Ministro della giustizia Bonafede, su cui ricadrebbero le responsabilità perlomeno politiche (insieme agli altri esponenti del governo gialloverde e delle amministrazioni locali), della gestione non adeguata delle rivolte, e che non ha comunicato tempestivamente le notizie riguardanti le drammatiche dipartite.

Secondo altri sarebbero state invece coordinate da una “regia unica”, composta da esponenti dell’ “alta borghesia” criminale (e cioè mafiosa) che si avvaleva dei “proletari” detenuti di basso profilo oltre che dello “spettro” degli anarco-insurrezionalisti sempre in voga (“fantasma” su cui spesso nella storia si sono “scaricate” responsabilità di zone grigie e poteri tutt’altro che libertari, come avvenne per il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli).

Mentre la maggioranza dei “poveri cristi”, che aveva più di 18 mesi da scontare e il cui reato non era considerato di piccola entità, era condannata alle nuove aggravanti causate dalla pandemia, correva la voce (una voce largamente infondata, si può dire con il senno di poi) della possibilità che pure diversi mafiosi al 41 bis venissero scarcerati a breve (in realtà si trattava di misure previste dalla legge che i magistrati dovevano vagliare caso per caso, anche alla luce della nuova situazione sanitaria, e che forse poteva essere sfruttata anche dagli avvocati dell’alta borghesia mafiosa. Il caso di scarcerazione più controversa è stato probabilmente quella di Pasquale Zagaria, boss dei casalesi).

Comunque in quel periodo, con i cosiddetti provvedimenti “svuota-carceri”, possono uscire all’incirca 8 mila persone dotate del braccialetto elettronico: almeno una parte di quegli esseri umani, considerati reietti della società, forse non ci dovevano nemmeno entrare in carcere… L’uscita di quelle persone dimostra, a detta di chi scrive, che forse già da prima si potevano attuare diverse strategie per prevenire quelli che potremmo definire “reati di sopravvivenza” e per convivere in sicurezza con chi ha fatto degli errori, in concreto espandendo le possibilità offerte da misure alternative alla detenzione.

Durante e dopo le rivolte nelle prigioni, iniziate il 7 Marzo a Salerno, moriranno 13 detenuti (14 se si include la dipartita avvenuta a circa un mese di distanza di una persona con uno stato di salute precario a Terni, 15 se si include il suicidio di un detenuto morto dopo settimane di isolamento a Santa Maria Capua Vetere), 9 erano ristretti a Modena, 3 a Rieti e uno a Bologna, alcuni sono spirati dopo i trasferimenti disposti.

 

LE MANCANZE E GLI ABUSI NELLA GESTIONE DELLE RIVOLTE: DALLA CUSTODIA DEGLI PSICOFORMACI ALLE DENUNCIE DI TORTURE

Le drammatiche vicende del carcere modenese e di quello laziale (e anche di quello del carcere casertano per quanto riguarda la repressione e i pestaggi delle squadre esterne e interne alle carceri, e in cui “fortunatamente” ci sono state delle torture ma non dei morti, se non si tiene conto di un recluso suicidatosi con psicofarmaci a un mese di distanza, di cui parliamo nelle prossime righe) presentano diverse analogie, in particolare riguardo alla custodia di psicofarmaci e metadone (evidentemente insufficiente o comunque non adeguata): pare che le chiavi delle casseforti che contenevano i medicinali fossero attaccate vicino alla serratura, nel caso di Rieti, o forse mal custodite, nel cado si Modena. Uno dei legali che si è occupato della vicenda del carcere emiliano ha espresso diversi dubbi a riguardo: inizialmente si era sostenuto che i detenuti avessero forzato la cassaforte con una fresa, poi si è invece affermato che avessero semplicemente preso la chiave in un altro cassetto, sollevando dubbi sul rispetto delle linee guida riguardanti la custodia di farmaci stupefacenti. Nello specifico caso di Rieti si pensa che, come ricostruito da Il Domani (nell'articolo "Quelle morti nel carcere di Rieti rimaste nel silenzio: ecco cosa è successo", pubblicato il 15 Gennaio di Luigi Mastrodonato), gli agenti in preda al panico sarebbero fuggiti lasciando incustodite le chiavi.

Secondo la versione ufficiale tutte le morti sarebbero dovute a overdose e, in alcuni casi, ciò è stato affermato prima dello svolgimento delle autopsie, quelle che sono state fatte: per due vittime, di cui una cremata, non sono state mai svolte, per una terza si era parlato della possibilità di fare accertamenti dopo la cremazione, un’altra salma invece è stata sottoposta a esame autoptico dopo due mesi, in Tunisia. Restano molti dubbi anche sui documenti che attestavano le condizioni cliniche, così come sui segni di traumi e lesioni, nonostante in un primo momento si era affermato che non c’erano evidenze di questo genere.

Delle 6 vittime provenienti dalla Tunisia 4 sono state rimpatriate (una grazie alla raccolta fondi degli attivisti e del Comitato modenese che indaga sulla rivolta) e in un caso un medico tunisino intervistato ha parlato di un’autopsia sommaria svolta in Italia.

L’altra questione cruciale riguarda i trasferimenti verso altri penitenziari nonostante lo stato di salute precario, che avrebbe imposto di mandarli in ospedale sotto rigorosa sorveglianza medica, e non di fargli affrontare chilometri rinchiusi negli appositi furgoni blindati e bus. L’argomentazione a difesa di chi ha dato quegli ordini, consistente nella breve durata dei viaggi, si scontra con il mancato coordinamento con gli istituti di destinazione riguardo alle loro condizioni di salute e alla somministrazione dei farmaci salvavita-antioverdose, che devono essere somministrati anche a distanza di giorni dall’assunzione potenzialmente letale (ci sembra che quanto è avvenuto per la strage dei migranti di Crotone riflette, anche in questo caso, una prevalenza delle logiche poliziesche e repressive su quelle dei soccorsi tempestivi).

Un altro punto che solleva molte criticità riguarda le perquisizioni, a rivolta sedata, non effettuate (o non sufficienti) per controllare se i ristretti avessero ancora medicinali addosso: una mancanza che sarebbe direttamente correlata con il decesso dei reclusi a rivolta conclusa anche sotto il profilo giuridico, mancanza che sarebbe giustificata (comunque in maniera insufficiente da parte delle autorità, a detta di chi scrive) dalla paura che i ristretti fossero in possesso di strumenti come bisturi e altri armi improprie, e che avrebbero fatto desistere gli agenti penitenziari da ricerche più approfondite.

Altra questione piena di interrogativi è legata alle lesioni riportate da diversi detenuti, sia morti che ancora vivi, lungo tutto lo stivale. Non è chiaro se i detenuti si sono picchiati tra di loro, se sono stati picchiati dai gruppi antisommossa e dagli agenti ordinari, o se si sono verificate e sovrapposte entrambe le possibilità. Come viene denunciato a Modena e a Santa Maria Capua Vetere (nel carcere campano “Francesco Uccella” gli abusi si sono verificati un mese dopo le prime rivolte) alcuni ristretti spiegano che, una volta denudati, venivano fatti passare tra fila di agenti che li riempivano di percosse e insulti, comportamenti che costituiscono delle vere e proprie torture (che sarebbero state perpetrate anche in altre forme negli istituti di destinazione, dopo il trasferimento).

Anche dopo le rivolte alcuni rappresentanti delle istituzioni, che avevano in custodia delle persone che avevano commesso degli errori ma che restano comunque degli esseri umani con dei diritti inviolabili, si sarebbero accaniti infliggendo punizioni ulteriori, arbitrarie e contrarie a quanto dispone la legge per diversi giorni: sarebbero stati lasciati in isolamento (ufficialmente dovuto anche al Covid) al freddo, in celle allagate, senza coperte e senza cibo, senza contatti con legali e familiari, con “ritardi” nel ricevere lettere e pacchi dai propri cari e senza la possibilità di cambiare gli indumenti ancora impregnati dell’odore delle fiamme appiccate durante i disordini. 

A chi avrebbe partecipato alle rivolte (o anche solo sospettato) e a chi ha fatto denunce formali o anonime (a rivolte finite) sarebbe stato riservato dunque un “trattamento speciale” che stando alle denunce dei diretti interessati e dei loro familiari (famiglie che hanno comunque sofferto “a distanza” nel vedere le carceri che andavano a fuoco mentre uscivano scarsissime notizie, se non nulle, riguardo lo svolgersi e le conseguenze delle rivolte) consistito anche nella negazione di alcuni privilegi, cominciando dalle attività basilari come l’uso di biblioteca e palestra fino al divieto di trasferimenti e ad altre misure che hanno impedito o ritardato la possibilità di accertamenti medici, la continuazione degli studi intrapresi o particolari misure di sorveglianza (mentre in un caso si sarebbe offerto un “privilegio”, e cioè un lavoro in biblioteca durante il periodo di detenzione, per spingere un ristretto a ritirare la denuncia).

Altro punto chiave riguarda i filmati delle telecamere di sorveglianza: quelli del carcere di S. Maria Capua Vetere, in cui si vedono gli agenti infierire sui detenuti, sono saliti alla ribalta delle cronache, dopo la prontezza nel raccoglierli da parte degli inquirenti (prontezza che però, altrove, è sembrata essere tempestiva e completa solo quando c'erano i video che inchiodavano i detenuti che hanno partecipato alle rivolte, disordini che sono scoppiati in più di 40 strutture delle circa 190 totali, e in 20 di questi sono stati più pesanti). 

Ci si è chiesto perché gli agenti hanno pestato a sangue i detenuti sapendo della presenza delle telecamere: la prima spiegazione potrebbe risiedere nel senso di impunità percepito da chi appartiene alle istituzioni; la seconda, che non esclude la prima, consisterebbe nel fatto che gli agenti pensavano fossero “spente”, come ha spiegato un detenuto a Fanpage nel 2021 (è possibile ipotizzare che non c'era un semplice interruttore che ne determinava l’accensione o lo spegnimento, ma un più complesso software che ne regolava il funzionamento e di conseguenza l’utilizzabilità o la cancellazione delle immagini. Comunque nello stesso post si sostiene anche che gli indagati hanno provato a convincere i Carabinieri del non funzionamento delle telecamere, fortunatamente invano). In un articolo de Il Corriere della Sera (di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini, dal titolo "Carcere, le violenze e i pestaggi dopo le rivolte del 2020. Calci, bastonate e il detenuto della cella 52: <è morto>") si spiega del sospetto della tentata manomissione dei filmati appena si ebbe notizia della partenza delle indagini. Inoltre, prima dello scoppio della rivolta, sarebbero state manipolate delle immagini per dimostrare che i detenuti fossero pronti a lanciare olio bollente contro le guardie carcerarie, circostanza usata come pretesto per organizzare la perquisizione con altre squadre provenienti dall’esterno, tramutatasi poi in una vera e propria spedizione punitiva.

Nello stesso articolo si spiega che a Melfi, dove alcuni detenuti sono stati condannati per i disordini in cui sono stati trattenuti alcuni agenti e membri del personale, le indagini su plausibili abusi in divisa sono state archiviate pure perché alcune telecamere non registravano proprio, per altre la memoria risultava cancellata e infine perché era impossibile, per i detenuti che avevano sporto denuncia, procedere al riconoscimento fotografico degli agenti, avendo quest’ultimi i volti travisati.

Si è parlato della distruzione di alcune telecamere sia a Rieti che a Modena, così come del possibile non funzionamento perché mancava la corrente, ma qualcosa comunque non torna…

Ci sarebbe, tra le carte della Procura emiliana, la menzione della presenza di alcuni video. Si specifica che il comandante del carcere a Luglio del 2020 parla delle <<analisi dei video disponibili>> per <<delineare le condotte tenute dai rivoltosi>>. E ci sarebbe pura una nota dei poliziotti della squadra mobile depositata due giorni dopo lo scoppio della rivolta a cui sarebbero allegati 8 DVD. Ma comunque, su Il Domani, si chiarisce che questi filmati potrebbero documentare ciò che accaduto al di fuori della stanza in cui si sarebbero verificati i pestaggi (forse è meglio dire “alcuni” dei pestaggi, magari i più cruenti). Nella richiesta d’archiviazione secondo L’Espresso, quando si descrive la dinamica degli eventi che hanno portato alle morte di una delle vittime, si fa riferimento a un’annotazione in cui si parla di filmati <<acquisiti nell’immediatezza dei fatti>> (e quindi, pare di capire, che qualcuno ha detto e scritto nell’annotazione di aver visionato i filmati, ma non è chiaro se questi siano allegati agli atti e se esistano ancora…).

La questione dei filmati di sorveglianza, insieme all’uso delle bodycam posizionate addosso agli agenti, nonché ai numeri identificativi che questi dovrebbero avere su divise e caschi, è un problema tanto cruciale quanto controverso, e per questo apriamo una digressione (di cui potremmo parlare più estensivamente nei commenti, sui social o in prossimi post): credo che siamo tendenzialmente abituati a vedere questo genere di strumenti principalmente come dei mezzi invasivi della nostra privacy, manovrati dal “grande fratello” e da altri “fratellini” e “cugini” suoi… Però potrebbero -e dovrebbero- essere usati proprio per casi come questi, proprio per “controllare i controllori” (e quindi per controllare tutta la famiglia dei “grandi fratellini” stessa), per riconoscere più facilmente e fungere da deterrente verso chi commette abusi, e cioè come degli strumenti che sacrificano una parte della nostra privacy a vantaggio della nostra sicurezza. Chissà se l’epilogo, perlomeno quello giudiziario, di queste vicende (S. Maria Capua Vetere inclusa) confermeranno il timore o il sollievo appena espressi: il problema principale risiede in chi ha il potere di gestire quegli strumenti e, in prima istanza, nella diffusione del potere in generale...

Infine alcuni testimoni (incluso un operatore di ripresa intervistato dalla Rai) parlano, in riguardo a quanto successo a Modena, dell’esplosione di colpi d’arma da fuoco, forse addirittura ad altezza uomo, non si capisce se partite dalle armi dei Carabinieri o della Penitenziaria, nei momenti più concitati della rivolta: anche la stanza dove erano custoditi gli attrezzi per la manutenzione dell’edificio è stata presa d’assalto così come l’infermeria, fornendo ai più riottosi delle arme improprie insieme alla polvere degli estintori da spruzzare per allontanare gli agenti. Bisogna raccontare anche l’altra faccia della medaglia: tra gli esseri umani ristretti c’è stato anche chi o non ha partecipato alla rivolta o a contribuito a salvare altri esseri umani che facevano parte del sistema carcerario, oppure erano recluse donne…

Come riportano le cronache de Il Domani dello scorso Agosto (nell'articolo di Nello Trocchia intitolato "Carcere Modena, nove morti, incendi e violenze. Ma è giallo sui video segreti") quel giorno la direttrice non era presente perché gestiva anche un altro istituto (si dice che la precedente fosse stata allontanata perché troppo sbilanciata a favore dei reclusi). Alcuni detenuti cominciano a protestare dopo pranzo, durante l’ora d’aria. Alcuni agenti si sarebbero ritirati dopo un primo accerchiamento dei detenuti, che intanto sono riusciti a impossessarsi degli attrezzi per la manutenzione. A quel punto gli agenti hanno perso il controllo della situazione e possono solo tentare di impedire tentativi di evasione insieme ad altre forze dell’ordine che accorrono, mentre altri si devono barricare in stanze e uffici, impotenti. Cominciano devastazioni e incendi all’interno, mentre quei membri del personale, incluso medici e infermieri, sono ancora bloccati all’interno, così come quasi 40 recluse della sezione femminile.

La versione della Penitenziaria: si è avviata una trattativa con i meno disposti a continuare la rivolta e più proni ad arrendersi, con la promessa di farli uscire in sicurezza dopo aver condotto all’esterno i membri del personale e le detenute rinchiusi. La versione di chi era allora ristretto, in alcune delle parole riportate di Shera Bledar, cittadino albanese che è stato rimpatriato dopo aver scontato una pena per questioni di armi e droga: <<siamo entrati e abbiamo evitato che alle donne non venisse torto nemmeno un capello: lo dovevano fare gli agenti e adesso sono pure indagato!>>, con l’accusa specifica di aver supportato il saccheggio degli utensili usati come armi.

 

MORTE PER OVERDOSE: USO O ABUSO DEGLI PSICOFARMACI?! IL WELFARE MAFIOSO E LE DIPENDENZE PROIBITE CHE RIEMPONO CARCERI E ALIMENTANO CORRUZIONE

Ammesso che siano davvero morti tutti principalmente, o esclusivamente, per overdose e non anche (o esclusivamente) per le potenziali percosse, per le mancanze nella custodia dei farmaci, per la gestione delle rivolte (che in un carcere dovrebbero essere messe in conto e che non sono certo imprevedibili come alcuni hanno affermato) e per le omissioni o carenze nei soccorsi, bisognerebbe porsi delle domande sull’uso e sull’abuso delle terapie farmacologiche, e quindi sulle droghe legali, da una prospettiva più ampia:

L’uso (o abuso) di droghe legali è ovviamente connesso alla questione delle droghe illegali: come abbiamo già spiegato in un altro post il problema degli stupefacenti e le politiche proibizioniste portano dietro le sbarre circa un quarto dei detenuti a livello globale. È un problema socio-economico di proporzioni enormi che dovrebbe essere messo in primo piano sia dalle istituzioni che da militanti e attivisti: a detta di chi scrive questi ultimi settori della collettività di certo non criminalizzano penalmente i comportamenti legati alla droghe, ma si pongono in continuità con la criminalizzazione stigmatizzando chi fa un uso problematico di sostanze e non ritenendolo un problema abbastanza rilevante per cui intraprendere delle “battaglie”, sia sul versante politico che su quello “materialistico” (e cioè delle condizioni materialmente e prettamente socio-economiche)

Lo spaccio, in particolare quello piccolo, di norma si lega a problemi di dipendenza da una sostanza (o forse sarebbe meglio dire di perdita del controllo per una sostanza, una definizione meno stigmatizzante rispetto a quella di tossicodipendente). La dipendenza, che sarebbe un problema sanitario e psicologico, è legata a sua volta a diversi problemi sociali: dalla disinformazione sulle sostanze che impedisce di fare scelte consapevoli (inclusa la “non scelta” delle sostanze, sia chiaro) fino alla possibilità di risolvere una serie di disagi, possibilità che è sicuramente più alla portata di chi è maggiormente abbiente.

Un altro problema, sempre legato a leggi e ad approcci proibizionisti, è quello della criminalità organizzata che “offre” una misura di sostegno economico, lo spaccio che diventa un sostegno di “welfare mafioso” per chi è vulnerabile e che, a sua volta, da “vittima” può diventare un “carnefice”, entrando nel circolo vizioso della commissione di reati e dello spaccio finalizzato ad alimentare o “soddisfare” la propria dipendenza.

Ma ovviamente non ci sono solo le droghe illegali: ci sono anche gli psicofarmaci… Chi scrive non vuole mettere in discussione il potenziale effetto benefico e l’utilità di psicofarmaci e terapie psichiatriche in assoluto, ma il loro uso non deve essere ispirato da criteri alla crescita del volume di affari o del risparmio (economico e di tempo, quest’ultimo a sua volta economico) che si ricava facendo “tagli” su altri tipi di interventi, a partire dalla psicoterapia che invece è ampiamente sotto-finanziata… Del resto anche all’esterno delle mura carcerarie il marketing della “pillola magica” che risolve magicamente tutti i mali prevale su percorsi più complessi e duraturi, e frutta molti guadagni (per pochi) ed è molto conveniente (per molti) perché alla fine della giornata lavorerai meno se una persona si trova semplicemente sedata, in uno stato di torpore che deriva da un'appetenza indotta.

In più va sottolineato un altro particolare legato alle vicende di quei giorni in cui sono morti -quasi contemporaneamente- il maggior numero di persone nella storia carceraria repubblicana: non prendiamoci in giro, la droga  gira anche in carcere (insieme ad altri beni “vietati” come i telefonini), e la potenziale mancanza di “rifornimenti” dovuta alle sopraggiunte restrizioni per il Covid-19 potrebbe essere stata una delle gocce che ha fatto traboccare il vaso, spingendo almeno una parte (e almeno in parte) di quei circa 7000 detenuti (più del 10%) a prendere parte alle rivolte e ad abusare di altre droghe, quelle legali. Ma questa possibilità comunque non assolve nessuno dalle diverse problematiche succitate nella gestione delle rivolte, ma anzi dovrebbe farci riflettere su come la corruzione, le ipocrisie e le disfunzioni del proibizionismo si replicano anche all’interno delle mura carcerarie.

Infine ci sarebbe bisogno di maggiore formazione nel somministrare farmaci come il naloxone, ossia l’antidoto contro l’overdose di oppiacei: se questa formazione fosse assicurata a un maggior numero operatori, come avviene anche in altri paesi, forse le vittime di quei giorni (e in futuro) per overdose sarebbero di meno.

 

NOMI E FRAMMENTI DELLE STORIE, INCLUSI QUELLI PIÙ SCOMODI PER LE AUTORITÀ COINVOLTE

Questi i nomi e i frammenti delle storie dei detenuti di Modena:

1) Bilel Methnani (il suo nome è riportato e trascritto anche così: Arial Ahmali; Erial Ahmadi; Arial Ahmadi) classe ’83, diceva di essere Marocchino e ha provato a fornire false generalità: da questo tentativo deriva l’apposita accusa insieme alle diverse “versioni” del suo nome e della sua identità, oltre a quella di piccolo spaccio (ci sono tracce del suo arresto nelle cronache) e di resistenza a pubblico ufficiale. Invece era nato in Tunisia.

Lavorava facendo le pulizie all’interno dell’istituzione totale e gli era stata concessa la semilibertà che gli è stata tolta a seguito di un evento doloroso e autolesionista: padre di una bimba che allora aveva 12 anni e con la madre dalle quali non riceveva più visite, un giorno, preso dalla malinconia nel vedere la stanza dove i bimbi visitavano i genitori ristretti, ha bevuto il detergente che usava per pulire.

Stando a quanto ricostruito da La Repubblica è tra quelli che fa razzia di medicinali nella rivolta e prende anche un cellulare dall’ufficio matricole.

Sarebbe tornato libero un anno fa. Il suo corpo sarà sottoposto a un esame esterno a cinque giorni dalla morte. Intorno alle 23 dell’8 Marzo, quando veniva attestato il suo decesso, si scriveva che <<apparentemente>> non mostrava segni da traumi, mentre durante l’autopsia si rilevavano varie escoriazioni e lividi che non avrebbero influito sul decesso. Una seconda autopsia viene svolta dopo il rimpatrio delle sue spoglie in Tunisia

 

2) Agrebi Slim aveva 40 anni, è il secondo a morire. Era in carcere per aver provocato la morte di un’altra persona durante una rissa “alcolica” (così la definiscono le cronache) avvenuta a Bologna nel 2003 (un’altra fonte parla dell’accusa di omicidio).

Dal 2017 aveva ottenuto il permesso di lavorare all’esterno. Aveva una figlia con la ex compagna che era venuta dalla Francia per testimoniare in suo favore durante il processo.

Stando a quanto riporta il sito Carmilla e la testata La Repubblica sarebbe stato sottoposto a visita medica quando ormai era morto, dopo essere stato consegnato agli agenti  dai detenuti che avevano provato a rianimarlo perché privo di coscienza. Nella sua cella vengono ritrovati farmaci e altri beni, e avrebbe svolto un ruolo rilevante nella rivolta cercando anche di incoraggiare un’evasione.

Muore intorno alle 22 dell’8 Marzo e il medico del 118 che attesta il decesso non nota segni di contusioni o traumi, che invece verranno accertati quando si effettuerà un esame esterno e l’autopsia, ma che comunque non avrebbero contribuito al decesso.

 

3) Hafedh Chouchane (il suo nome è trascritto o riportato anche così: Hafedeh Chouchen; Hafedeh Chouchan) 36 anni dalla Tunisia. 

Lavorava come cameriere nel bresciano nei primi anni 2000. Poi finisce a raccogliere pomodori e a vendere pesce, e dopo droga. Nelle diverse carceri dello stivale in cui è stato recluso subisce il doppio stigma e patimento collegato a problemi psichiatrici: ha sviluppato dipendenza da cocaina ed eroina, arriva a commettere atti autolesionisti, si taglia le braccia, ingerisce una lametta da barba, delle pile e si cuce le labbra per protesta.

Sarebbe divenuto libero dopo pochi giorni. Già allora avrebbe potuto ottenere i domiciliari ma, in assenza di una residenza, era dovuto restare dietro le sbarre del Sant’Anna.

Stando a quanto riporta La Repubblica anche lui avrebbe partecipato alla rivolta restando coinvolto in scontri con gli agenti e in una rissa con altri ristretti che litigavano per i farmaci trafugati.

Secondo un suo compagno detenuto (e stando a quanto riporta il sito Carmilla) era stato trasportato, insieme ad altri, alla rotonda del carcere, mentre dai verbali della penitenziaria emergerebbero versioni contrastanti sul luogo esatto dove era stato condotto: si dice al passo carraio e vicino al piano terra della scale. Inoltre sarebbe passata quasi un’ora di distanza dalla presa in consegna degli agenti fino alla visita medica.

Il medico del 118 che attesta la sua morte dice che aveva indosso solo delle mutande o pantaloncini molto corti, mentre nella trasmissione di giornalismo d’inchiesta Spotlight si spiega che al momento dell’autopsia era vestito e nei pantaloni si trovavano svariate confezioni di benzodiazepine (Xanax nello specifico).

La famiglia ha ricevuto la notizia non dalle autorità, ma dal suo legale, a distanza di diversi giorni dal decesso. Ci risulta che Luca Sebastiani è l’unico avvocato in Italia ad aver preso le parti dei familiari delle vittime non italiane (gratuitamente), e l’unica difesa che ha preso parte agli esami post-mortem. Con l’archiviazione delle indagini (questione che affrontiamo nella seconda parte di questo scritto) è venuta a mancare la possibilità della “formazione delle prove” oltre che quella di contro-esaminare testimoni ed esami dei corpi. Ha dichiarato: <<se i familiari dei ragazzi deceduti fossero stati notiziati, come previsto dalla legge, avrebbero potuto nominare un consulente tecnico di parte per partecipare alle autopsie consentendo senz’altro un’attenzione maggiore su una serie di aspetti che non sono stati considerati>>. L’avvocato non ha potuto partecipare all’autopsia ma ha visionato gli esiti degli esami post-mortem sui tessuti.

Hafedh è stato il primo a uscire dall’istituto in un sacco nero: se le autorità governative avessero agito diversamente forse almeno alcune delle altre morti si sarebbero potute evitare…

Con gli ultimi soldi che ha inviato in Tunisia i suoi familiari hanno potuto avere una casa.

 

4) Ben Mesmia Lofti (il suo nome è trascritto o riportato anche così: Lofti Ben Masmia e ben Mesmia Lotfi) aveva 40 anni.

Non sappiamo perché era in carcere, ma nell’inchiesta della Rai si spiega che inviava denaro alla sua famiglia in Tunisia lavorando nella cucina del carcere: dopo la morte suo figlio ha dovuto lasciare la scuola e iniziare a lavorare, e la notte ha degli incubi in cui vede il padre che gli dice di essere stato ammazzato. Secondo quanto riportato da La Repubblica avrebbe agevolato l’assalto all’infermeria, essendo il primo a entrarvi e iniziando la razzia di farmaci.

Muore nella sua cella a rivolta conclusa. Secondo la procura il decesso sarebbe avvenuto tra le cinque di notte e le nove del mattino seguente, ma secondo il medico che ha attestato il decesso sarebbe morto poco prima delle 14 del 10 Marzo. Il 9 Marzo la rivolta era stata sedata e per lui, come per altri, ci si chiede perché i detenuti non erano stati perquisiti per vedere se avevano ancora farmaci addosso (come evidenzia l’inchiesta di Rainews gli sono stati trovati insieme a una penna usb), secondo le regole ordinarie dell’ordinamento penitenziario che dovevano essere ripristinate dopo l’emergenza, e perché non era stata disposta una stretta sorveglianza sul suo stato di salute, dato che le complicanze dell’overdose da metadone possono essere “nascoste” e prolungate fino a tre giorni dall’assunzione letale.

La moglie, Najet Ben Salah, ha saputo della sua dipartita dopo quasi venti giorni: il corpo senza vita e <<completamente nero>> giungerà in patria e non riuscirà quasi a riconoscerlo.


5) Alì Bakili (il suo nome è trascritto o riportato anche così: Ali Baakili; Ali Baiali) 52 anni, tunisino e cardiopatico, malato fin da piccolo ha bisogno di ossigeno liquido, spiega la sorella Zina a L’Essenziale. Negli anni ’90 la raggiunge a Varese lavorando come imbianchino. Poi cade nella dipendenza da alcol e droga e nella spirale dello spaccio, finendo più volte in carcere. Si trasferisce dal fratello a Napoli dove viene arrestato per una rissa mentre si era ridotto a fare il parcheggiatore abusivo. Anche lui compie atti autolesionisti tagliandosi, in un penitenziario campano. Viene poi trasferito al Sant’Anna dove ingerisce delle batterie e resta dentro nonostante lo stato di salute formalmente incompatibile con il carcere.

Appare comunque che era in attesa di processo: nel dossier di controinformazione (redatto dal Comitato Verità e Giustizia per i morti di Sant’Anna, citato in fondo) si legge “procedimento penale n. 1069/20 mod.44: ci risulta che questa dicitura, che si trova uguale anche per Artur Iuzu, si riferisca al numero del procedimento che si doveva ancora svolgere.

Anche lui sarebbe morto di overdose di metadone (anche se risulta che non gli fosse più prescritto come terapia da anni) mentre restano testimonianze discordanti sulla somministrazione dell’antidoto, alcuni sostengono che dall’autopsia non sono emerse evidenze che gli sia stato iniettato. Il suo corpo viene rinvenuto intorno alle 11 della mattina successiva alla rivolta, ma sarebbe morto diverse ore prima (tra le 3 e le 7). Si pensa che abbia assunto metadone dopo il rientro in cella e che quindi non sarebbe stata svolta una doverosa perquisizione che avrebbe impedito il peggio, perquisizione che secondo la Procura non è stata svolta per la situazione emergenziale, “assolvendo” dunque chi era responsabile della gestione della rivolta.

 

CONTINUA NELLA SECONDA PARTE


ultima modifica 8/11/2023

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