Pubblichiamo la continuazione del resoconto/inchiesta sulle fonti aperte relative alla strage nelle carceri avvenuta a partire dei primi giorni del lockdown nel 2020 (qui il link alla prima parte). Proseguiamo parlando dei frammenti di storia delle altre vittime (e delle 2 ulteriori perlopiù escluse da questa tragica conta) oltre che dei casi giudiziari archiviati e aperti.
6) Ghazi Hadidi (il suo nome è trascritto o riportato anche così: Ghazì Hadidi). Aveva 35 anni, veniva dalla Tunisia ed era in carcere per una <<condanna definitiva per una violenza pesante>> (senza ulteriori specificazioni), riporta il sito Giustiziami. Tuttavia anche per lui si ritrova la dicitura “procedimento penale n. 1068/20 mod.44” (nel caso di Bakili e Iuzu il numero è invece “1069”).
Secondo una detenuta che era trasportata nello stesso blindato diretto a Verona (inizialmente pare che lui fosse destinato a raggiungere Trento) era già morto o quasi: al momento dell’arrivo era sdraiato ed è stato sollevato di peso, probabilmente perché in coma, e addirittura avrebbe continuato a subire percosse durante il viaggio. Un altro testimone riporta che era già morto o comunque livido all’arrivo. Secondo la dottoressa che operava presso la tenda della Protezione civile posta in prossimità del carcere di Modena era stato visitato, ma non è stato redatto o non si trova il referto. Il medico di turno dell’altro carcere prova a rianimarlo mentre attende l’arrivo dell’ambulanza, invano: muore verso l’alba del 9 Marzo. In quel frangente pare che non fossero stati notati segni di violenza sul suo cadavere, ma successive rilevazioni affermano il contrario…
Stando a quanto si riporta su Carmilla, un agente ha dichiarato che barcollava ma che complessivamente sembrava stare bene, non pareva avesse segni compatibili con una rissa e che fumava tranquillamente. I segni di lesioni sul suo corpo (escoriazioni dovute a un corpo contundente, due denti mancanti e presenza di sangue in bocca) rilevati dal medico legale il 26 Marzo sarebbero legati ai disordini durante la rivolta. Il medico legale che ha constatato la sua morte parla di segni esterni di violenza non evidenti. La procura di Verona, dove era morto mentre era diretto a Trento, non ha disposto l’autopsia ma un esame esterno del corpo.
La prima autopsia verrà fatta in Tunisia, due mesi dopo, e rileva anche due ematomi sul cuoio capelluto che però non sono collegati, esclusivamente (e quindi da sole) alla morte. Come accaduto per un’altra vittima (Artur Iuzu) in Italia non era stato ritenuto opportuno di procedere con la sezione del corpo e del capo.
Secondo l’anatomopatologa Cristina Cattaneo le conseguenze di un trauma al volto potrebbero essere confuse con quelle di un’intossicazione e dunque la causa del decesso non è appurata. La consulente ha svolto diverse indagini per identificare i morti in mare durante i "viaggi della speranza", sul caso di Yara Gambirasio e firmò la perizia in cui si affermava che Stefano Cucchi non era stato pestato, ma comunque scelta dal Garante die detenuti Mauro Palma per la sua professionalità e fama internazionale, oltre a lavorare al caso pro-bono, ossia gratuitamente) .
Il fratello ha dichiarato ai microfoni di Spotlight: <<se non è stato ammazzato con le botte è stato ammazzato con la mancanza di soccorso>>. Ha inoltre espresso dubbi sulle tempistiche del rimpatrio del salma: <<si sono presi tutto il loro tempo e ce lo hanno riconsegnato senza fare l’autopsia, perché?>>.
7) Rouan Ourrad (il suo nome è trascritto o riportato anche così: Rouan Abdellha; Rouan Abdellah; Ourrad Abdellah) veniva dal Marocco, aveva 34 anni e gli restavano da scontare meno di due anni per spaccio.
Avrebbe potuto richiedere le misure alternative se avesse avuto qualcuno fuori che potesse supportarlo. Aveva un fratello gemello che viveva nelle vicinanze di Modena (il libro "Morti in una città silente" parla anche di altri due parenti in Germani e Francia). La madre non riesce a darsi pace e crede che sia impossibile che abbia preso farmaci.
Muore ad Alessandria mentre era diretto ad Asti: il medico che operava a Modena gli aveva somministrato un antidoto contro gli effetti avversi degli oppiacei (il metadone rientra in questa classe come l’eroina), ma una seconda dose non gli sarebbe stata data a causa del trasferimento, che non ha consentito l’intervento dei medici che già conoscevano la sua situazione (descritta come stabile). Quali sono le persone che hanno disposto il suo trasferimento e chi aveva la responsabilità che questo avvenisse in sicurezza? Sapevano e dovevano comunicare che doveva prendere di nuovo l’antidoto, il Naloxone? Probabilmente non sarà un’unica persona però, in un articolo di “Alexik”, (linkato in calce a questo post) si afferma che <<il cinismo del caposcorta ha fatto il resto>>.
Appena sceso dal bus, prima dell’alba, ha un malore nel cortile dell’istituto. La medico di turno tenta di rianimarlo, viene chiamata un’ambulanza con attrezzature specifiche che giunge dopo più di mezz’ora, ma non c’è più niente da fare. Nelle fonti aperte consultate non abbiamo trovato informazioni riguardo ad autopsie ed esami post-mortem svolti, e nemmeno in merito alla presenza di segni di lesioni sul suo corpo.
8) Artur Iuzu (il suo nome è trascritto anche così: Arthur Iuzu; Artur Isuzu; Artur Luzy. Nella trascrizione della testimonianza di un detenuto è chiamato anche Izu Arturo) classe ‘88 dalla Moldavia.
Doveva essere processato dopo pochi giorni. Le cronache modenesi di un anno prima spiegano che avrebbe dovuto essere rimpatriato ed espulso dall’Italia per 5 anni dopo aver commesso una serie di furti, l’aggressione a una cassiera e la resistenza a un arresto, ed era stato condannato a un anno e 450 euro di multa: potrebbe trattarsi anche di un caso di omonimia o potrebbe non essere stato rimpatriato, oppure ancora potrebbe essere ritornato in Italia senza permesso. Si sa comunque che non era ancora condannato in via definitiva per rapina (il primo grado di giudizio non era ancora terminato e nel dossier di controinformazione citato in fondo è riportata la stessa dicitura che troviamo per Bakili, e cioè "procedimento penale n. 1069/20 mod.44” ).
Muore dopo il trasferimento a Parma il mattino seguente. Secondo la perito del Garante dei detenuti la causa del decesso non è appurata, però ci sono una serie di graffi e segni sul corpo che fanno pensare a possibili colpi ripetuti. A sua detta l’autopsia non è stata completa perché si sarebbe dovuto analizzare cranio e cervello, mancanza che sarebbe dovuta alle nuove precauzioni imposte dalla pandemia: non si potrà ripetere perché il suo corpo è stato cremato. Secondo chi ha invece svolto l’autopsia il quantitativo di metadone era talmente alto da non poter essere quantificato.
Si sa che a Modena era stato trasportato all’esterno del carcere su un lenzuolo, e quindi in condizioni precarie. Viene comunque disposto il trasferimento e dopo l’arrivo è stato visitato “a occhio” fuori dalla cella: mancava un operatore in più per effettuare la visita in sicurezza oltre a un’autorizzazione. C’era solo una dottoressa a occuparsi di quei detenuti (l’altro medico di turno operava in un’altra sezione del carcere), ed erano stati messi in coppie con quelli più lucidi che avrebbero dovuto “vigilare” su quelli in stato di torpore (un altro detenuto è stato salvato fortunatamente).
9) Salvatore Cuomo Piscitelli detto Sasà, 40 anni, campano di origine, con una lunga storia di problemi con le sostanze aggravati da vicende familiari, infatti era orfano.
Condannato per furto e utilizzo di una carta di credito, aveva trovato motivazione e soddisfazione nel teatro: ha lavorato nella compagnia teatrale del carcere milanese di Bollate, dove aveva passato tre anni della sua vita per altri episodi, e aveva continuato a coltivare questa passione nella comunità di recupero in cui è stato ospite prima di finire al Sant’Anna. Sarebbe stato scarcerato ad Agosto di quell’anno, dopo circa 4 mesi.
Muore ad Ascoli Piceno: secondo dei compagni di detenzione (sul bus che lo ha trasferito sarebbero stati in più di 30) era stato <<sbattuto in cella come un sacco di patate>>, aveva subito percosse anche durante il trasferimento, e mentre aveva difficoltà anche solo a reggersi in piedi.
Le autorità sostengono che sia morto nell’ospedale di Ascoli, un altro detenuto crede invece che sia morto nella cella numero 52, dopo che era stato richiesto l’intervento mentre agonizzante emetteva vagiti (e un agente avrebbe addirittura detto <<lascialo morire>>). Il luogo di morte è un punto della sua vicenda non completamente chiarito. La procura modenese aveva chiesto chiarimenti alla direttrice del carcere di arrivo, dove veniva collocato il decesso. La direttrice ha risposto alla procura che è morto intorno alle cinque e mezza di pomeriggio dopo il suo arrivo in ospedale, e non nell’istituto.
Un detenuto, che ritiene il Piscitelli assolutamente non coinvolto nella rivolta, ha denunciato le autorità chiedendo di ricercare i filmati che documentano il suo arrivo, in stato pietoso, nel piazzale della prigione marchigiana: si trovava in condizioni pessime che avrebbero dovuto far desistere dalla volontà di trasferirlo (e invece sarebbe stato addirittura picchiato nel furgone su cui era stato caricato insieme ad altri).
Sono più di 450 i detenuti che, come lui, dovevano essere visitati prima della disposizione del trasferimento, e molti, incluso Sasà, non sarebbero stati visitati adeguatamente neanche all’arrivo. Sempre secondo l’amico ristretto che era al suo fianco ci sarebbe stato un altro detenuto, non in grado di essere riconosciuto, che ha passato la bottiglia di metadone a Sasà da cui farà i sorsi fatali.
Di turno ad Ascoli Piceno c’era solo un medico per visitare più di 40 detenuti, che portavano sui loro corpi le conseguenze della rivolta: Salvatore viene descritto nella documentazione prodotta dal medico come in <<in apparente buono stato di salute>> e si scrive che non c'è <<niente dal rilevare>>, a circa due ore di distanza dall’arrivo, e gli sarebbe stato anche prescritto un tranquillante. C’è poi un “buco” di diverse ore nell’ultimo frammento della storia “ufficiale”, fino all’ora di pranzo: il dottore gli fa una siringa con l’antidoto e solo dopo viene sollecitato l’arrivo dell’ambulanza, che lo porta al pronto soccorso in <<stato di coma avanzato da verosimile intossicazione da farmaci>>.
Come si riporta sul sito La Bottega del Barbieri, sono 5 i detenuti che hanno firmato un esposto, alcuni mesi dopo, sul caso di Sasà e sugli altri abusi che sarebbero avvenuti con dolo o per negligenza (le accuse vanno dalla tortura all’omicidio, passando per abuso di autorità e omissione di soccorso): si chiamano Claudio Cipriani, Bianco Ferruccio, Palloni Mattia, D’Angelo Francesco e Belmonte Cavazza.
Nel referto dell’autopsia, stando a quanto riporta La Repubblica, la causa del decesso è indicata in un edema polmonare che ha causato insufficienza respiratoria, causato da metadone e altri 9 tipi di psicofarmaci.
Il suo corpo viene cremato: ai parenti, cui spetta l’obbligo di dichiarare la disponibilità per la procedura, si dice che la cremazione è necessaria per il virus (e secondo l’Imam della comunità islamica di Modena si temeva che anche tre altre vittime fossero state cremate <<contrariamente a quanto previsto dalla nostra fede>>). In un servizio di un Tg regionale si è parlato di una seconda autopsia: non è chiaro se doveva essere effettuata sulle ceneri del suo corpo o se si alludesse ad accertamenti basati su una rilettura delle carte redatte dopo il decesso.
Infine, a proposito di testimonianze, bisogna menzionare anche quella di un agente raccolta da Nello Trocchia per Il Domani (in un'esclusiva intitolata "Scandalo al carcere di Modena: <Detenuti pestati a sangue>") in cui si afferma che solo alcuni detenuti hanno mentito, altri dicono invece il vero riguardo ai colleghi che si sono ingiustamente accaniti, infliggendo torture e abusando del loro potere: <<non siamo tutti come quelli di S. Maria Capua Vetere. Si faceva fatica a mettere le coperte sui morti perché sembrava un cedimento emotivo. Si era creato un clima da guerra, quel giorno si è persa l’umanità>>.
Questi i nomi e i frammenti delle storie dei detenuti di Rieti e del ristretto nel carcere bolognese della Dozza
10) Marco Boattini Aveva tra i 35 e i 40 anni (diverse sono le età riportate dalle cronache) ed era originario di Pomezia.
Come ricostruito da La Repubblica che ha contattato una sua cugina, era dentro per una rissa aggravata e per questioni di droga. L'uso problematico di sostanze era peggiorato con la morte della madre e i rapporti problematici con padre e fratello.
Faceva il tipografo, pare
avesse trovato l’amore e la sua abitazione era diventata ritrovo di
amici-spacciatori che lo deridevano sui social.
Il suo avvocato, Giovanni Tripodi, ha dichiarato di aver smesso di ricevere le missive o le telefonate come accadeva regolarmente ogni settimana: ha scoperto la sua morte quando ha ricevuto indietro una lettera da lui stesso spedita e contrassegnata dalla parola “deceduto”. Da un suo compagno di cella ha saputo che aveva ingerito metadone e forse anche altri farmaci.
11) Ante Culic 41 anni dalla Croazia.
Sarebbe uscito a Maggio del prossimo anno. Secondo il libro Morti in una città silente, edito da Sensibili alle foglie di Sara Manzoli, era stato nel carcere croato di Spalato per eventi legati al traffico di esseri umani e da cui avrebbe tentato un evasione durante un permesso: non si capisce come è finito a Rieti.
12) Carlos Samir Perez Alvarez (alcuni riportato Carlo senza la “s”) 28 anni dell’Ecuador
Su di lui, come per Culic, il Garante dei detenuti del Lazio ha spiegato che nemmeno il suo ufficio era riuscito a ottenere dati e a stabilire contatti con le famiglie di origine.
Il suo compagno di cella avrebbe chiesto aiuto per ore, invano, stando a quanto riportato dall’avvocato che assisterebbe la madre.
13) Haitem Kedri morto nella rivolta del carcere di Bologna
Aveva 29 anni ed è arrivato dalla Tunisia dove faceva il sarto, in uno dei tanti viaggi della speranza con destinazione Lampedusa nel 2011.
Arrestato per spaccio con circa 3 grammi di cocaina e hashish nel 2019, aveva scontato già una pena legata a delle rapine a Reggio Emilia dove aveva intrapreso un percorso di riabilitazione positivo (come riporta il sito Giustiziami.it).
Non era ancora stato condannato in via definitiva, e dunque era ancora considerato “non colpevole”. Anche lui, pur non avendo preso parte alla rivolta, avrebbe ingerito degli psicofarmaci in dosi più massicce di quelle che abitualmente prendeva regolarmente, come riporta la sua cartella clinica insieme al rischio di suicidio: muore l’11 Marzo e quindi dopo le prime morti avvenute durante la rivolta di Modena: ci si interroga perché, dopo il “saccheggio farmaceutico”, non sono state prese misure tempestive per impedire il ripetersi di eventi del genere. La polizia penitenziaria si è difesa parlando dell’eccezionalità della situazione.
Sotto al suo materasso verranno trovate, troppo tardi, svariate pastiglie e alcune siringhe.
14) S. G. , 31 anni indiano. Morto a Terni il 24 Aprile, ufficialmente per cause naturali.
Infine a questo infausto conteggio si potrebbe aggiungere un’altra vittima nel carcere di S. Maria Capua Vetere e di cui si è parlato pochissimo:
15) Lamine Hakimi, poco meno di trent’anni veniva dall’Algeria.
Viene arrestato insieme ad A.T., tunisino, per il furto di un orologio, di un borsello e di un cellulare nel 2019 a Napoli.
Muore per un mix fatale di psicofarmaci nella cella di isolamento a Maggio del 2020: era stato richiuso lì dopo la mattanza di Aprile nel carcere casertano.
Come spiegato ad Altraeconomia dal giornalista Nello Trocchia, autore di Pestaggi di Stato edito da Laterza, Lamine in carcere non doveva finirci ma <<avrebbe dovuto avere accesso alle Rems>>, le strutture che hanno sostituito gli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), che però non hanno abbastanza spazio. <<Viene picchiato più volte e più volte, per più giorni di fila, su di lui vengono stilati falsi resoconti>> per tenerlo in isolamento più del consentito.
Poi <<subisce l’indifferenza e l’umiliazione estrema, non gli vengono date neanche le coperte in quella cella spoglia. Le testimonianze raccontano che negli ultimi istanti di vita chiama incessantemente la mamma, la stessa che durante un’intervista mi ha chiesto come sia possibile che suo figlio sia morto in questo modo. Da quella madre avrebbe voluto tornarci, Lamine, dopo un periodo in Europa in cui racimolare i soldi per dargli la casa che non aveva mai avuto. È morto per l’assunzione di un mix di oppiacei, stranamente presenti in una cella di isolamento, e attualmente il processo che si svolge davanti alla Corte d’Assise vede come reato contestato a decine di indagati quello di tortura aggravata per aver causato la morte di un detenuto>>.
LE INCHIESTE: SI POSSONO ARCHIVIARE I PROCEDIMENTI GIUDIZIARI (IMPEDENDO, A TORTO O A RAGIONE, CHE SI FORMINO LE PROVE TRA DUE PARTI IN CONFLITTO, IN MANIERA DIALETTICA) MA NON SI PUÒ ARCHIVIARE LA RICERCA DELLA VERITÀ …
Sono diverse le inchieste archiviate (o di cui è stata richiesta l’archiviazione) o ancore aperte per i fatti di quei giorni. Quello su cui si dovrebbe, o su cui si è tentato, di fare luce non riguarda solo gli abusi fisici della penitenziaria e il comportamento dei rivoltosi, ma anche l’operato del personale sanitario coinvolto -la cui responsabilità è in capo alle Regioni- e, nello specifico, su questioni come documenti e nulla osta sanitari non compilati, oltre che sul mancato rispetto dell’obbligo di visite mediche a causa dello stato di necessità: alcuni parlavano di uno “scenario da guerra” fronteggiato, evidentemente, da un numero insufficiente di medici e infermieri (e qui si dovrebbe aprire un’altra discussione articolata sulle risorse che impieghiamo per la sanità, così come sulle strategie attuate per fronteggiare la pandemia, sul piano pandemico non aggiornato e così via, ma per adesso chiudiamo parentesi), dato che nel dossier di controinformazione già citato si parla della durata media di soli tre minuti per ogni visita, oltre che di antidoti salvavita non sufficienti che dovevano essere trasportati dal pronto soccorso.
E soprattutto si è provato o si prova a fare ancora chiarezza sulle catene di comando e sui tentativi di chi, più in alto nelle gerarchie, ha provato a insabbiare i tentativi di ricerca delle verità, volti a definire le responsabilità dolose o colpose di quella strage. Responsabilità che purtroppo, ne siamo convinti altrimenti non ne parleremmo, sono ancora molto lontane dall’essere chiarite, nonostante le numerose archiviazioni…
Per i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere ci sono più di cento persone a processo per i pestaggi e per i tentativi di coprirli tramite dei depistaggi.
A Modena sono stati aperti 3 filoni di indagine: uno per i danni a persone e cose a carico dei detenuti;
uno che avrebbe dovuto fare luce sulle violenze e sulle carenze nei soccorsi, originariamente a carico di ignoti mentre attualmente sono indagati cinque agenti per tortura (segni di percosse si sono registrati anche tra chi è sopravvissuto alle rivolte: un detenuto, per esempio, è stato ricoverato per un trauma cranico e per la rottura delle costole; un altro è stato sottoposto a intervento chirurgico con il rischio di perdere l’uso della mano);
uno, archiviato, per omicidio colposo, lesioni e morte conseguenti ad altro reato: quelle 8 persone sarebbero tutte morte solo ed esclusivamente per overdose e la colpa sarebbe solo loro. Inoltre è da notare che il Garante nazionale dei detenuti e l’associazione Antigone non sono state considerate come persone offese, <<scelta che rappresenta non solo un atto di delegittimazione, ma anche una modalità per definire inammissibili i loro atti oppositivi e le perizie dei loro consulenti, che mettono in discussione su più punti la versione ufficiale (in particolare sul mancato approfondimento delle lesione riscontrate sui cadaveri>>, come riporta Alexik su Carmilla, mentre <<l’unico atto oppositivo ammesso, quello dei familiari di Hafedh Chouchane, viene liquidato senza rispondere nel merito ai dubbi sulla tempestività del soccorso>> e fondando l’archiviazione <<su un’unica narrazione, quella di polizia>>.
Per il caso della nona vittima, Salvatore Piscitelli, lo scorso Marzo ad Ascoli è stata chiesta l’archiviazione per due indagati, un medico e un ispettore delle guardie carcerarie, dopo un “rimpallo” delle due procure sulla competenza (a chi compete affrontare la sua morte, alle autorità e al luogo da cui è stato “spedito” o a quelle di destinazione?!): sostanzialmente si è affermato che, nonostante circa due ore di ritardi nei soccorsi, non è possibile confermare che un intervento più rapido avrebbe potuto impedire la morte di Sasà. L’associazione Antigone si è opposta alle archiviazioni, ma rimane aperta solo l’indagine per tortura. A Maggio dello scorso anno, si legge in un dispaccio Ansa, ad Ascoli la stessa associazione ha presentato uno dei tanti esposti che ha fatto partire un’altra indagine a carico di ignoti per quanto concerne le accuse relative ai pestaggi.
In Tunisia sono state avviate indagini sulle morti di Bilel Methnani (ed è stata ripetuta l’autopsia), Lotfi Ben Mesmia e Ghazi Hadidi (in questo caso ribadiamo che l’autopsia è stata effettuata per la prima volta).
Ci sono poi due ricorsi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU): uno presentato dai legali della famiglia di Chouchane (alcuni dei quali si sono occupati anche degli abusi perpetrati durante il G8 di Genova) e un altro, presentato da Antigone, riguardo alle altre 8 vittime in merito alle violazioni dei diritti dei detenuti, torture incluse, e al diritto a un giusto processo per quanto riguarda le archiviazioni.
Per i fatti di Rieti, dove la rivolta era scoppiata a seguito del trasferimento di detenuti provenienti da Frosinone il giorno prima, l’8 Marzo, dove si erano già verificati episodi analoghi, non ci risultano in corso indagini o processi: per questo il silenzio su quelle tre vittime è ancora più profondo.
Nell’estate del 2021 l’allora ministra Marta Cartabia istituì, dopo un provvedimento dei vertici del Dipartimento dell’Amminstrazione Penitenziaria (Bernardo Petralia e Roberto Tartaglia), una Commissione ad hoc interna al DAP. Lo scopo era quello di indagare sulle origini delle rivolte e sulle conseguenti risposte degli operatori penitenziari, cercando di fare luce sulle irregolarità e sugli abusi denunciati da più parti.
Diverse realtà della società civile hanno chiesto, senza risultato, di essere incluse nella commissione per aumentare il grado di imparzialità nelle ricerche tramite dei rappresentanti esterni al dipartimento. L’organismo, presieduto dal magistrato Sergio Lari, ha visto al suo interno anche Marco Bonfiglioli: fu lui il dirigente che organizzò e dispose i trasferimenti che secondo molti, inclusi i legali di Antigone, non dovevano essere autorizzati dato che molti di quei ristretti non riuscivano neanche a reggersi in piedi, forse per l’abuso di farmaci, per lo stordimento dovuto al fumo di oggetti e suppellettili bruciati e forse anche per le botte.
Ha fatto parte dello stesso organismo che doveva indagare sul suo stesso operato, e dunque si è trovato in una posizione di conflitto di interessi, anche se non faceva parte del gruppo di lavoro che si è occupato del caso specifico di Modena (sarebbe stato il colmo), ossia il gruppo num. 3 formato da Francesca Romana Valenzi e Paolo Teducci. Questi ultimi, a lavori conclusi, hanno affermato che restano forti dubbi sull’operato della Polizia Penitenziaria: è plausibile che ci siano state della violenze contro un gruppo di detenuti prima che venissero trasferiti, ma non è possibile dirlo con sicurezza per la mancanza di elementi, a cominciare dai filmati…
La teoria della “regia esterna” dietro alle rivolte è ritenuta invece non plausibile, mentre emerge il fallimento del sistema carcerario italiano, la vera ragione che ha fatto scattare la molla dei disordini: a Modena la capienza dei posti era del 50% in più del previsto. Il carcere era distrutto (alle vite inestimabili perse delle 9 vittime si è aggiunto un danno di più di un milione e mezzo) e l’unica soluzione che si è riusciti a prendere è stata quella del trasferimento in massa verso altri istituti (di circa 420 reclusi su 540), ma la “sovrappopolazione” disumana e degradante del sistema (come ha affermato anche la CEDU) non è l’eccezione, bensì la regola!
Le nostre carceri scoppiano, assomigliano troppo a quelle di una "Banana Republic" o di un regime autoritario! Per questo tutti noi, come collettività, condividiamo almeno un briciolo di colpevolezza morale…
Quei ristretti dovevano essere portati in ospedali (alcuni fortunatamente si sono salvati, come è accaduto a un detenuto a Milano che è riuscito a svegliarsi dal coma dopo aver assunto farmaci), magari piantonati, ma manca il personale, mentre abbondano le ragioni per portare persone dietro le sbarre (come abbiamo spiegato più nel dettaglio in un post legato al darwinismo sociale nel mercato della droga)…
Oppure dovevano essere ospitati da strutture detentive che potevano garantire cure, ma gli investimenti sulla salute dietro le sbarre non sono sufficienti nemmeno quando non ci sono situazioni di emergenza come le rivolte o la pandemia. Invece di psicofarmaci ce ne è una disponibilità grandissima, si distribuiscono fiumi e quintali di droghe legali, di camicie di forza “mentali”, investendo su panacee “istantanee” e chimiche e non su più strutturati programmi di riabilitazione sociale e psicoterapici, mentre mancano psicologi e i medici…
MORTI PER OVERDOSE O “CASI-CUCCHI”?
Forse anche l’opinione pubblica ha delle gravi responsabilità a non chiedere ai propri governanti che la detenzione venga affrontata diversamente, e sembrano entrambi orientati al principio di “buttare via la chiave” perché chi si trova in carcere è “cattivo”, punto! Non viene invece considerato come una persona che commette reati perché non ha altre strade o non sa trovare altre strade per risolvere dei problemi, le sfide della vita! O non viene considerata una persona che, anche se ha commesso violenze della peggior specie (come omicidi per futili motivi, stragi, violenze sessuali e altri reati di grave allarme sociale e che provocano ribrezzo nei più) rimane comunque tale, una persona: se quella persona si è dimostrata disumana noi non dovremmo fare altrettanto.
Anche ammettendo che tutti siano morti esclusivamente per le overdose restano comunque le responsabilità sulla gestione della rivolta, oltre che quelle più ampie sull’appetenza indotta alle sostanze dal nostro sistema sociale e sanitario…
In uno dei casi di abusi delle forze di polizia più noti della storia repubblicana, quello di Stefano Cucchi, si disse che era morto a seguito di una crisi epilettica, che i segni sul corpo se li era procurati da solo… Quella delle lesioni presenti sui corpi della strage nelle carceri nei primi mesi della pandemia è la principale analogia con questa vicenda, insieme al fatto che le vittime erano ristrette e sotto custodia dello Stato. Una differenza risiede nel fatto che quasi tutte le persone morte durante l’emergere del Covid non erano italiane, non avevano i propri cari vicino e dunque erano ulteriormente marginalizzate e a rischio.
Gli interrogativi restano tanti, nel nostro piccolo abbiamo provato a fare luce su una vicenda che, purtroppo, potrebbe essere un maxi-caso Cucchi (nella peggiore delle ipotesi) o un’ulteriore testimonianza dell’inadeguatezza del nostro sistema carcerario e delle nostre istituzioni (nella migliore delle ipotesi).
Un’altra differenza con il caso-Cucchi risiede nel fatto che non tutti i familiari delle vittime sembrano o possono essere disposte a battaglie legali: anche per questo non dobbiamo far calare il silenzio su questa intricata vicenda, e per questo nonostante le archiviazioni:
Noi Non Archiviamo!
Amleten Recluas
Tra le pagine di questa zina/rivista ci siamo occupati più volti del tema della detenzione, mentre negli scorsi mesi cominciavamo ad analizzare i documenti riportati in questo lavoro di ricerca sulle fonti aperte. Immaginiamo che molt# di voi abbiano a cuore questo tema per cui, oltre a ringraziarvi della pazienza e dell'interesse che vi hanno portato a questa conclusione, segnaliamo una serie di post collegati nematicamente a questo resoconto sulle fonti aperte:
-Cos’è la giustizia riparativa?
-La vicenda di Alfredo Cospito: dalla diserzione al 41 bis; Perché sto con Cospito; Perché non sto con Cospito
-Come abolire il carcere partendo dalle politiche sugli stupefacenti? Cosa vuol dire abolizionismo e riduzionismo?
-I Cuccioli del Califfato: figli e mogli dei miliziani dell’ISIS, dei prigionieri molto particolari
Riferimenti bibliografici e di approfondimento
Rainews 24, Spotlight, Anatomia di una rivolta, di Maria Elena
Scandaliato e Giulia Bondi con Raffaella Cosentino
Dossier sulla strage al carcere Sant’Anna a cura del Comitato Verità e
Giustizia per i morti di Sant’anna
Osservatorio Diritti, Lorenza Pleuteri, Rivolta nel carcere di Modena: dubbi e contraddizioni
Carmilla, Alexik, Strage di Modena: noi non archiviamo, parte prima, seconda e terza
Provvedimento di archiviazione per 8 delle 9 morti di Modena firmata dal Gip Romito e pubblicato da Osservatorio Diritti
La Repubblica, Lorenza Pleuteri, Carceri, rivolta di Rieti:
"Trascinavano i cadaveri nei sacchi, come immondizia", la denuncia
dalla cella 02/02/2021
Queste sono alcune delle immagini delle violenze avvenute a Santa Maria Capua Vetere, pubblicate tra i tanti anche da Fanpage, insieme alle parole del Garante dei detenuti della Campania sulla ricerca della verità
Infine alleghiamo un video de Il Corriere della Sera: nel primo video si documenta la mattanza all’interno del carcere campano, avvenuta tre giorni dopo la pubblicazione di questa video-inchiesta che si concentra sull’evasione e sulla rivolta di Foggia: secondo un poliziotto penitenziario un piano era stato allagato con dei fili elettrici scoperti, per tentare di far morire folgorati gli agenti, intento vanificato dal meccanismo salvavita.
Quest’ultima video-inchiesta ci sembra troppo sbilanciata in favore di un mero approccio poliziesco al problema, e riprende la teoria della “regia esterna mafiosa”. Tuttavia mostra comunque la violenza di alcuni (non tutti!) detenuti che, unita alle carenze del sistema carcerario e sociale, ha causato le rivolte e continuerà ad alimentare “guerre tra poveri” e ingiustizie, se non ci attiviamo.
Crediamo che vada raccontata meglio e analizzata anche questa parte della storia, la parte della proverbiale “altra campana”, una parte di verità che comunque da sola non ha fornito ancora le risposte sugli abusi dolosi e sui comportamenti colposi di quell’ “altra campana”. Non ci sembra infatti un caso che uno dei giornalisti che ha firmato lo scritto che accompagna la video-inchiesta è anche uno che continua a denunciare gli abusi in divisa, ossia Nello Trocchia.
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