8.7.22

Come abolire il carcere?

O come tendere il più possibile verso l’abolizione/riduzione della detenzione in una società ideale (partendo dalle politiche sugli stupefacenti)?

A nessuna richiesta dal pubblico di Fanrivista, per la rubrica Valvola oggi proponiamo questo pezzo in cui scriviamo di restrizione fisica/carcere/privazione della libertà, di abolizionismo, riduzionismo e di tentativi o tensioni di avvicinamento a una società ideale, dedicandoci alla teorizzazione della detenzione (o non-detenzione) in essa, un tema tra tanti da immaginare per un mondo che pensiamo sarebbe migliore.



Non lo facciamo tramite la discussione di visioni complesse o studi accademici, principalmente perché non li abbiamo svolti e non abbiamo competenze formali, ma lo si fa partendo da esempi, eventi e dati concreti… Tuttavia questo post penso sia definibile come di socio-antropologia, politica e filosofia morale “spicciole”. Cerca di rispondere alla tipica domanda, posta a quelli che si definiscono “abolizionisti”, ossia a quelle persone che lottano per abolire l’istituzione carceraria, credendo in una completa eliminazione del sistema carcerario (in questo caso potremmo parlare di “abolizionisti puri”) o in una sua riduzione radicale (e quindi dei cosiddetti “riduzionisti” che vedono nel carcere una extrema ratio cui ricorrere in pochi casi)  : <<ma se non ci sono le carceri, dove mettiamo assassini e stupratori, per esempio?!>>.

Partendo da uno spunto scaturito da un episodio di una serie Netflix arriveremo a parlare di cosa potremmo/dovremmo fare da subito per avvicinarci a una visione “Ideale”, e in questo frangente anche “Concreta”, di un pianeta senza carcere, arrivando a toccare il tema-tabù degli stupefacenti visto da “sinistra”.

UNA SERIE DOCUMENTARISTICA/REALITY SHOW SULLE PEGGIORI CARCERI DEL GLOBO

Se per qualche ragione il tema della detenzione vi è particolarmente caro o, comunque, è una “battaglia” specifica cui dedicate la vostra attività di attivista, probabilmente avrete visto o sentito parlare di una serie documentaristica dedicata al tema su Netflix… No, NON è Orange is the new black, cosa che ci viene chiesta di solito di primo acchito, altrimenti non avrei detto/scritto “documentaristica”. Stiamo parlando di Inside The World’s Toughest Prisons (Dentro le Prigioni più Dure del Mondo), dove un giornalista ed ex detenuto britannico va a vivere per alcuni giorni nelle prigioni più infami del mondo. In più molti caratteri di questa serie derivano dai reality show, dato che Raphael Rowe il protagonista/reporter di questa serie-reality show è stato detenuto 12 anni per omicidio, il tempo che gli è servito per dimostrare che era innocente! Ha spiegato infatti che, quando si recava nelle carceri, mentalmente, riviveva la sua esperienza immedesimandosi in un prigioniero non colpevole.

UN ESEMPIO DI “CASO LIMITE” PER CUI, ANCHE IN TEORIA, È DIFFICILE PENSARE A UN’ALTERNATIVA DI UNA QUALCHE FORMA DI RESTRIZIONE FISICA

Nella puntata in cui si visita un carcere delle Mauritius, Rowe si reca nella sezione di massima sicurezza. Qui incontra Nazarene Tenge: originariamente incarcerato e condannato all’ergastolo per aver strangolato e bruciato il corpo di una donna. Con un’espressione stravolta e allo stesso tempo pacata spiega che quando si trova con i suoi amici magari a mangiare, sotto l’influenza di droghe come alcol e cannabis, sono <<inclini a commettere atti brutali>>. Altra causa alla base di quel delitto specifico, secondo quanto dichiarato da Tenge, era la paura di essere incriminato per sodomia (nel paese il sesso anale tra partner dello stesso sesso o di sesso diverso è considerato un crimine punibile con 5 anni di prigione): la donna aveva proposto sesso a pagamento a lui e a un amico. Dopo il rapporto il tragico epilogo: <<l’abbiamo bruciata usando dei copertoni>>. Il detenuto avrebbe parlato di altri atti simili alle guardie carcerarie che, tuttavia, restano non provati. È stato spostato nell’alta sicurezza perché aveva attaccato altri detenuti e sviluppato diversi incendi all’interno della struttura. Incalzato dalle domande del cronista-ex detenuto ammette di provare rimorso, di pensare <<di essere malato>>, prendendosela con la sua famiglia che lo considera posseduto da uno spirito maligno: <<se da giovane mi avessero portato da un dottore adesso non sarei qui>>. Il conduttore spiega infine che è <<gestito tramite una terapia farmacologica>> e che secondo lui è un bene che certe persone <<che trasudano una cattiveria del genere siano fuori dalle strade: per me non c’è nessuna possibilità di riabilitazione in un caso del genere>>.



Questo truce episodio ci ha fatto venire in mente l’esempio di un “caso limite”: immaginiamo una persona con un irrefrenabile voglia di fare del male in una maniera diretta e brutale, come con un omicidio. Poniamo il caso che sia la stessa persona, corroborata da pareri di medici, operatori, ((e perché no anche l’indefinibile, con precisione, “opinione pubblica”, rappresentata anche da giurie/organismi popolari)) ecc., a chiedere di venire ristretta per auto-impedirsi l’uccisione di altre persone. Questo specifico caso limite non porrebbe gli stessi dilemmi etici paragonabili ad altri più concreti e che destano una molto inferiore “preoccupazione sociale”, come un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) per impedire che una persona faccia del male a sé stessa, o come un’incarcerazione per lo spaccio al dettaglio di droga in una struttura che non rispetti i più basilari diritti umani e che funge da scuola per diventare un criminale migliore, invece di attuare la cosiddetta riabilitazione: se una persona richiedesse un tipo di contenzione per fermare la sua brutale furia omicida allora, anche in una società ideale, non dovrebbero esserci problemi a fare ciò, rispettando comunque il suo essere un umano, fornendogli supporto e non semplicemente “gettando via la chiave” (quest’ultima opinione penso sia, purtroppo, quella maggioritaria nella società, espressione di desiderio di vendetta che moltissimi volte fonde e confonde i ruoli di colpevole e punitore).

È per l’appunto un “caso limite”, molto particolare ed estremo, mentre in concreto c’è un dato mondiale sulla popolazione carceraria che, se non parla da solo e le parole gli sono messe in bocca da chi interpreta i dati, quantomeno dovrebbe indurci a riflettere…

LASCIANDO LE ASTRAZIONI, COSA POTREMMO FARE DA SUBITO PER “SVUOTARE LE CARCERI” IN PRATICA

Andando più nel concreto e, soprattutto, nell’immediato, un tipo di politiche su cui oggi dovremmo intervenire per, almeno, avvicinarci a una società senza carcere o con il meno carcere possibile, sono quelle relative ai traffici illegali e al consumo di stupefacenti: dovremmo occuparci di politiche e strategie legate al consumo di stupefacenti e al problema economico connesso, il “welfare dello spaccio” in poche parole… E quindi dovremmo dedicarci rispettivamente a chi compie determinati atti (e subisce determinate conseguenze) perché semplicemente consuma stupefacenti o perché ne trae sostentamento non avendo o non conoscendo un’altra maniera di sopravvivere (ovviamente ci sono anche i casi in cui alla base di diversi reati ci sono contemporaneamente sia il consumo che il “reato di sopravvivenza” economica, e casi in cui si commettono altri tipi di reati per problemi socio/psicologici intrecciati all’uso di droga).

Parlando in concreto di “massimi sistemi”, nel mondo 2 milioni e mezzo di persone, su una popolazione carceraria che supera gli 11 milioni, sono dietro le sbarre per reati collegati alla droga, e di questi il 22% per condotte relative al solo utilizzo di sostanze (i dati si trovano nel Global Prison Trends 2021); l’Italia supera la media mondiale con circa il 30% di persone (su una popolazione carceraria di circa 55 mila) detenute per detenzione e spaccio di piccola entità o comunque per condotte portate avanti da non più di due persone (per le violazioni del Testo Unico sugli stupefacenti il totale dei tenuti tocca quasi il 35%, come spiegato nell’ultimo rapporto di Antigone e nella XIII edizione del Libro Bianco sulle droghe).

Mentre pensiamo che non ci dovrebbero essere dubbi sulla decriminalizzazione dell’uso personale di sostanze, personalmente non crediamo che una legalizzazione tout court di tutte o alcune droghe sarebbe risolutiva, da sola: potrebbero nascere altri problemi legati allo sfruttamento di nuove risorse da parte di voraci potentati economici-finanziari per esempio… Ma sicuramente non crediamo che lasciare questo “welfare criminale” nelle mani delle mafie, per evitare che certe persone si dedichino ad altri atti che creano maggiore “allarme sociale” come le rapine in strada, sia una soluzione accettabile: in primis si scatenano altre dinamiche che portano ad atti più efferati come gli scontri tra gang/clan. Inoltre non crediamo sia accettabile dare questo potere alle organizzazioni criminali, ai colletti bianchi che le dirigono e alproletariato/borghesia criminale” che ne fa rispettare le logiche eseguendo gli ordini come bravi soldatini o applicandole in maniera più inconsapevole: ci vorrebbe piuttosto un controllo e un impegno collettivo che non si dedichi soltanto a riformare le politiche sugli stupefacenti, ma che immagini e metta in pratica politiche sociali ampie e interconnesse.

Tuttavia l’effetto indicato da un puro dato matematico, e quindi non considerando il fatto che chi ora spaccia non trovando o immaginando altre vie “lecite” di guadagno potrebbe commettere altri reati e finire comunque in galera, implica che <<senza detenuti per art. 73 (spaccio) – l’art. 74 del TU punisce le varie condotte previste dal precedente articolo in forma non associativa NDA- o senza detenuti dichiarati “tossicodipendenti” non si avrebbe alcun problema di sovraffollamento nelle carceri italiane>>! (questa affermazione si trova nel già citato articolo di Fuoriluogo sul Libro Bianco sulle droghe e <<sugli effetti della legislazione antidroga sul sistema penitenziario e giudiziario italiano>>)

LE BATTAGLIE CHE LA “SINISTRA” SEMBRA AVER DIMENTICATO

Secondo la nostra modesta opinione crediamo che la “sinistra” italiana, inclusa quella che si potrebbe definire “old school” (la più “dogmatica” per intenderci) ed extraparlamentare abbia dimenticato, o comunque posto in secondo piano, sia il tema della detenzione che quello delle sostanze, due problemi che come abbiamo appena provato a spiegare sono decisamente collegati. 

Il primo tipo di “abbandono” è probabilmente connesso a una “de-politicizzazione” che, a partire dalla fine degli anni di piombo, ha riguardato l’intera società e dunque anche il carcere: verso la fine degli anni ’80 i movimenti antagonisti, contro-culturali ed extraparlamentari hanno registrato una fase di regressione. La religione consumista, liberista e dello stato-nazione ha preso il sopravvento sull’impegno politico (anche se portato all’estreme conseguenze), le persone incarcerate per reati connessi all’attività politica sono diminuite o sono restate sempre le stesse “a marcire dentro”, ed è diminuita anche la politicizzazione negli istituti penitenziari, insieme all’attenzione degli attivisti che erano fuori… Inversamente invece sono aumentate le persone incriminate per uso e traffici di stupefacenti.

In questa fase di “reflusso attivistico” un ruolo fondamentale è stato giocato proprio dall’uso di sostanze (e dallo stigma verso quelli che le usano, che spesso fa più vittime delle sostanze stesse) e in particolare dell’eroina. Secondo noi, proprio (o anche) per questo si è sviluppato il secondo tipo di “abbandono”, insieme a una certa avversione verso una qualunque azione concreta volta a cambiare le politiche sulle droghe e a combattere seriamente quelle più proibizioniste, liberticide e “carcerifere”. Il principale dibattito avviato sulle sostanze illegali è stato portato avanti solo da alcune frange della “sinistra” o, forse peggio, lasciato solo all’iniziativa di soggetti politici come i Radicali prima e alcuni “grillini” poi… L’abbandono (a nostro dire perlomeno parziale), da parte del “movimento” (o dei “movimenti”) della lotta contro la discriminazione di chi usa stupefacenti è dunque legato a molti pregiudizi che, come tali, possiedono degli elementi “di verità” ma restano tali… Ne elenco due, quelli che riusciamo a concepire: un primo pregiudizio è quello che “se ti droghi non puoi fare la rivoluzione e sei un peso per il movimento”… È vero solo in parte: non è l’uso di una sostanza, di per sé, a rendere qualcuno “un’ameba” (o comunque non funzionale) dal punto di vista sociale e “attivistico”, ma lo è un “uso problematico” di qualsiasi principio attivo, anche legale: anche se abusi di alcol potresti essere “un peso” per il “movimento”, ma comunque non dovresti essere abbandonato a te stesso… Crediamo!;

un secondo pregiudizio è quello legato alle conseguenze legali e psicologiche che possono danneggiare ampi settori del movimento, fornendo pretesti giuridici e strumenti farmacologici alle autorità repressive per sferrare colpi giudiziari e  mettere in atto più subdole tattiche di “guerra psichica non ortodossa”. Ovviamente non si può non citare a questo proposito l’operazione Blue Moon, emersa prima nelle dichiarazioni di quello che si è definito un civile al soldo del SID e poi da alcuni documenti della CIA de-secretati durante la presidenza di Clinton: era un piano attuato da diversi apparati occidentali per indebolire la resistenza psicologica e la carica di ribellione del “nemico”, ossia dei movimenti di contestazione. Come ha affermato il romanziere ed ex-magistrato Giancarlo de Cataldo, <<grazie allo zampino dei servizi segreti, eroina e lotta armata sono diventate, così, un discorso serio>>, e contando sull’apporto materiale di un’individualità, Ronald Stark che <<è stato il più grande trafficante mondiale di LSD ma anche un personaggio che ha dato un grande contributo al radicalizzarsi dei movimenti rivoluzionari armati>>. 

Anche questo secondo pregiudizio è vero solo in parte: è proprio questo rischio di “infiltrazione” e strumentalizzazione che dovrebbe spingerci ad affrontare certi problemi di petto e con la massima apertura su un tema che per ragioni diverse viene considerato un tabù.

Dimenticarsi di entrambe le battaglie è quindi, a nostro dire, una scelta miope. Intraprenderle con dedizione è invece una scelta obbligata e da interconnettere con tutte le altre istanze “antagoniste” e con i vari tipi di discriminazioni che condannano i singoli, e i gruppi di cui fanno parte, alla marginalità e all’inattività politica! Ma forse non ci si è dimenticati di queste lotte specifiche, forse è solo una nostra impressione, lo speriamo…

                                       Itala Pud e Amleten Recluso



NOTA PSEUDO-INTRA-PUBBLICITARIA DEL Direttore Tuttofare

Vi è piaciuto (o nemmeno per niente) questo post scritto a 4 mani?! Sembra in qualche maniera utile?!

Comunque quella serie Nèt’flix fornisce molti spunti di riflessione sul sistema carcerario, e colgo l’occasione per segnalarne un’altra sull’altro tema trattato in questo post: The Business of Drugs ( Il Business degli Stupefacenti nella versione italiana), realizzata da Amaryllis Fox, ex analista della CIA che documenta anche il fallimento pluridecennale della “guerra alla droga” inaugurata da Nixon.

A grande, poca o nessuna richiesta vostra, penso proprio che torneremo a parlare di carcere e stupefacenti ricollegandoci anche alle serie succitate: del resto il senso di questa autoproduzione giornalistica è proprio quello di trattare alcuni argomenti, a prescindere dalle richieste del “pubblico”, e piuttosto mirando a coinvolgerlo in un meccanismo dialettico (anche aspro, ma non necessariamente)…

E comunque: c’è qualche punto non chiaro, qualche obiezione, osservazione, proposta, critica o qualunque altra riflessione che volete fare in merito a quanto scritto? Comunichiamo tramite commenti, social, faccia a faccia, piccioni viaggiatori, quello che vi pare: la “one man”-redazione si attiverà subito, e anche se la risposta potrebbe essere lenta sarà meditata e, soprattutto, arriverà!

Grazie 1 milione per la vostra attenzione PEACE!

1 commento:

  1. Ci sono anche i casi di detenuti che non vogliono o non riescono a lasciare il carcere! https://tg24.sky.it/palermo/2022/05/02/ex-detenuto-carcere-messina

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