Define

Define in inglese significa “precisare”, “descrivere”, “definire”. Le diverse versioni “locali” della parola derivanti dal latino sono formate dall’unione del prefisso “de” (in questo raro caso ha una funzione che in linguistica è detta “intensiva”) e dal verbo “finire”: l’etimologia della parola è collegata cioè al “portare a termine” qualcosa, allo stabilire dei “confini” semantici, quindi ad assolvere al compito fondamentale della comunicazione, quello di “chiamare le cose con il loro nome”.

A volte definire un fenomeno, un vocabolo, un’espressione, un concetto può essere molto semplice, facilmente intuibile e racchiudibile in poche lettere della voce di un dizionario, esprimibile tramite un’immagine o un disegno scarno. Altre volte il processo di determinazione di qualcosa è molto più complesso, può richiedere fiumi di inchiostro e ore di intense discussioni, senza che si arrivi a un accordo sulla sua definizione. Le cose si fanno  complicate anche se le definizioni sono troppo semplicistiche, se non riescono a esprimere la complessità di un oggetto (materiale o astratto che sia) o, peggio, se vengono usate come etichette totalizzanti, stabilendo invalicabili confini dogmatici. L’intento di questa sezione del sito è sia quello di provare a tracciare dei “confini semantici” da oltrepassare liberamente su questioni spinose e controverse, sia quello di dare alcune definizioni più semplici da tracciare, come quelle che potreste trovare anche nei risultati in evidenza quando fate delle ricerche sui motori di ricerca…



Non è un caso che il riferimento (meno filosofico-linguistico e più tecnologico) nel titolo di questa rubrica è quello all’ “operatore” del principale motore di ricerca (Google se non si fosse capito): un operatore di  ricerca è un particolare “comando” che consiste in dei caratteri associati alle parole che stiamo ricercando. Digitandoli permettono di affinare i risultati o di avere delle risposte rapide, evidenziate in un apposito “snippet” (cioè un frammento della pagina in evidenza). L’operatore cui mi riferisco è per l’appunto “define” (in precedenza era seguito dai due punti, quindi “define:”), ma la stessa (o quasi) funzione e gli stessi (o quasi) risultati si ottengono anche digitando nella casella di ricerca parole come “significato”, “definizione”, “definire” e l’abbreviazione “def”.



In parole povere: siamo soliti porre domande dirette al motore di ricerca, come: “cos’è la tal cosa?”, “che significa il tale concetto?”, “qual è la definizione della tale parola?” e così via. Invece di “fare la domanda” per esteso potremmo semplicemente digitaredefine la tal cosa”, “definire tal concetto” o “definizione della tale parola”. Nella maggioranza dei casi vedrete, oltre alla lista dei vari risultati, apparire in cima (o a lato) anche un periodo “ingrandito” che fornisce una concisa risposta alla vostra domanda. L’utilizzo di questi “operatori” può causare, raramente, anche delle ambiguità nelle ricerche (ma questa è materia destinata a un’altra sezione del sito, TrickTèk...)

L’ “arte” del definire richiede non solo capacità divulgative legate alla comunicazione in senso stretto, tra cui una delle più importanti penso sia la cosiddetta capacità di sintesi… Ma anche abilità tecniche relative alle materie che si trattano di volta in volta: competenze che possono essere condivise anche da più persone per un singolo lavoro o progetto, che sia un intero dizionario, la singola voce di un’enciclopedia o un post con la definizione di un concetto legato alla SEO (acronimo di Search Engine Optimization). Fanrivista si impegnerà, nel suo piccolo, per fare ciò nella maniera più chiara e inclusiva possibile, contando sul generoso contributo di chi la legge e vorrà partecipare anche solo con un commento!

Termina qui la descrizione della “rubrica di descrizioni” che contiene pure, come avete letto nelle prime righe, una “definizione del definire”, un’altra “meta-definizione”… Buona lettura!




18/05/2022

Decriminalizzazione e depenalizzazione: definizione, differenza e uso linguistico-giuridico








9.7.22

Definizione di Meme: un archetipo personalizzabile, parodistico e virale

Per la rubrica Define proponiamo, in questa “edizione notturna”, un brevissimo pezzo sulla 

definizione di Meme scritto dal nostro Linguista Dilettante.














Salve a tutt#+, mi chiamo Linguista Dilettante, e stanotte propongo una definizione di MEME.

Sul vocabolario online Treccani, nella sezione dedicata ai neologismi,  leggiamo che un “meme” è un 

<<singolo elemento di una cultura o di un sistema di comportamento, replicabile e trasmissibile

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18.9.22

 












Spesso viene riportata la statistica della 

percentuale delle vittime civili delle guerre

quantificata nel 90%. In questo post si cerca di verificarla. 

Spieghiamo infatti che la 

diffusione di questo dato, stando agli studi che citiamo 

di seguito, sembra essere una 

cosiddetta “fake news a fin di bene”. 

Infine, dopo aver chiarito alcune questioni 

metodologiche come la definizione stessa 

di civile e di conflitto, chi scrive quest'articolo 

spiega perché conoscere la percentuale esatta 

delle vittime civili non è la principale 

questione da un punto di vista etico-teorico

Questo è il primo post della rubrica “Dati Parziali”, 

ma è incluso anche in quella denominata 

Chekka il Fatto”, dato che proviamo 

a verificare l’esattezza di questo dato, 

e in quella pseudo-enciclopedica Define

siccome proviamo a spiegare (seppur sbrigativamente) 

chi è considerato 

“civile” in una guerra 

(prossimamente ci dedicheremo anche alla 

definizione stessa 

di “guerra”, per quest’ultima rubrica).

(...)

LA DEFINIZIONE DI CIVILE

Oltre a questo il saggio affronta lo spinoso tema della definizione di “civile” che appare semplice solo superficialmente: si definisce civile <<chiunque non appartiene alle forze armate e non rientra tra le categorie che hanno diritto allo status di prigionieri di guerra>> e, dunque, secondo la Convenzione di Ginevra, anche chi non fa parte di milizie e altri corpi di volontari armati e pure chi, abitante di un territorio non occupato, non prende spontaneamente le armi in pugno per resistere a un’invasione. Oltre questa definizione, che si ricava “per esclusione” dalle categorie non considerabili come combattenti dalla convenzione, ci sono da valutare altre questioni più spinose per chi approccia il tema della quantificazione di vittime civili: Roberts infatti dice che esistono diatribe sul considerare civili anche individui come <<imprenditori che lavorano con l’esercito, terroristi o partecipanti part-time in una guerra civile>>...

Inoltre, sforzandosi di essere un minimo rigorosi dal punto di vista metodologico, bisogna prendere in considerazione che le vittime civili non sono solo quelle più “immediate”, e quindi quelle che muoiono perché “direttamente” e “istantaneamente” coinvolte in esplosioni, per esempio…  Ma anche quelle che magari periscono dopo la conclusione di uno scontro armato per le ferite riportate, per le carestie, per le mine antiuomo che restano interrate dopo i trattati di pace, per l’aumento di violenze e crimini determinati dai “vuoti di potere”, per le conseguenze psicologiche

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10.2.23

COS’È LA GIUSTIZIA RIPARATIVA?

LA DIFFERENZA E LA COMPLEMENTARITÀ CON I PARADIGMI DELLA RETRIBUZIONE E 

DELLA RIABILITAZIONE

 In circa 1200 parole ed 8000 battute, tra le righe della rubrica Define

cerchiamo di definire brevemente la “giustizia riparativa” spiegando in 

cosa consiste praticamente ed enunciando altri due paradigmi giudiziari 

(che iniziano pure con la lettera “r”).























TRE PARADIGMI DELLA GIUSTIZIA: RETRIBUTIVA , RIABILITATIVA (O RIEDUCATIVA) 

E RIPARATIVA

Quando si parla di una pena come quella dell’antica “legge del taglione” 

(ossia “occhio per occhio, dente per dente”) oppure come un determinato periodo 

di tempo da scontare in carcere, ci troviamo di fronte al modello di giustizia retributivo

quello che prende il nome da un “debito” che bisogna pagare: anticamente la punizione 

era intesa come un male da subire per il male causato (malum passionis propter malum 

actionis), mentre oggi la sanzione dovrebbe tendere alla riabilitazione, alla rieducazione

 e al reinserimento nella società della persona condannata, oltre a fungere da deterrente.

 A queste due modalità di rimediare ai conflitti che implicano la commissione di un atto 

illegale, se ne può aggiungere una terza: la “riparazione” di un rapporto sociale che si è 

“danneggiato”, a volte irreparabilmente, a seguito di un azione criminosa.

Nonostante esistano svariate definizioni e accezioni dell’espressione, 

la giustizia riparativa è comunemente intesa come un processo di mediazione 

tra autori di un atto criminale, la vittima e la collettività, finalizzato a riconciliare 

i rapporti o a sanare il più possibile la frattura che si è venuta a creare.

La giustizia riparativa quindi non consisterebbe tanto nella riparazione penale, 

“materiale” ed economica di un danno (o al limite questo potrebbe costituire un 

aspetto secondario a seconda dell’atto illegale commesso e di cosa prevede un sistema 

giudiziario), e non sostituirebbe gli altri due modelli di giustizia ma li affiancherebbe

trascendendo l’ambito meramente giudiziario e addentrandosi nella complessa dialettica 

delle diverse componenti sociali.



TRE PARTI IN CAUSA: VITTIMA, CARNEFICE E COMUNITÀ

Con il paradigma riparativo si sposta il focus dal reato alla vittima 

(oltre che alla collettività intera), concentrandosi anche sui “perché” di chi l’ha 

commesso e intervenendo nelle relazioni conflittuali che derivano dal misfatto per gestire 

una frattura relazionale, provando a ricomporla o quantomeno a mitigare gli effetti che 

creano divisione e dolore.

La “vittima”, che può essere una singola persona o un insieme di individui, dopo la 

sentenza di condanna e un’eventuale riparazione economica di solito viene dimenticata, 

non viene “seguita” dal sistema sociale e punitivo. Invece, sempre ammesso che voglia 

farlo, avviando un percorso di confronto con il reo e con la collettività, potrebbe avere

la possibilità di palesare la sua sofferenzadi affrontare meglio il suo disagio senza 

“seppellirlo” nella sua anima…  e, in ultima istanza, dovrebbe sentirsi almeno vagamente 

soddisfatta nel vedere un colpevole pentito, “trasformato”, consapevole del male che ha 

fatto, convinto a non ripetere più una certa azione perché sofferente per lo stesso 

patimento che ha inflitto… e magari anche a comprendere le “ragioni del male”, i motivi 

che lo hanno spinto a commettere un torto.

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