20.6.23

APARTHEID E CRIMINI DI GUERRA IN PALESTINA

UN’EMERGENZA UMANITARIA E MEDIATICA

Sullo sfondo un muro divisorio. In alto e al centro a sinistra due screenshot, rispettivamente dal sito di Amnesty e Human Rights Watch, in cui si afferma che in Palestina si verifica l'apartheid
Clicca o schiaccia l'immagine per vederla meglio. La foto del muro è tratta da Pixabay. In alto a sinistra degli articoli di Amnesty International  e Human Rights Watch in cui si associa il termine "apartheid" alla questione palestinese.

Tra le righe di questa Fanza/Rivista ci sforziamo di approfondire argomenti per nulla o insufficientemente trattati altrove, ma anche di “amplificare” qualcosa di “già detto” che però non trova abbastanza spazio nei circuiti mediali mainstream: è proprio questo il caso della questione palestinese, questione che anche esperti delle Nazioni Unite hanno definito come un regime di apartheid perpetrato da Israele, che si somma ad altre violazioni del diritto internazionale

Perciò in questo articolo della rubrica “Define” forniamo una concisa definizione di apartheid e proponiamo una breve rassegna delle volte in cui il termine è stato associato all’occupazione israeliana, concentrandoci in particolare su quanto affermato in due rapporti presentati all'ONU.

 

L’ORIGINE DEL TERMINE APARTHEID

Apartheid” significa “Separazione” in afrikaans, la lingua originariamente diffusa nell’Africa australe dai colonizzatori boeri e simile all’olandese.

Il termine, traducibile anche con “sviluppo separato”, indicava una politica di segregazione razziale in uso dai primi anni del XX secolo e implementata dal ‘48: scopo principale era quello di preservare una presunta “purezza” delle diverse “razze” (oggi sappiamo che il concetto stesso di “razza” è biologicamente inconsistente e scientificamente una bufala, dato che esiste un’unica “razza”, o per meglio dire specie umana), e lo si faceva vietando matrimoni e rapporti sessuali “misti”, restringendo le possibilità di movimento e accesso a spazi pubblici, non consentendo la libera associazione e l’adesione a sindacati, restringendo le possibilità di movimento o di avviare attività commerciali nelle aree dei “bianchi”, e quindi creando dei ghetti per le persone di colore (non solo africani ma anche indiani) e altre politiche di questo tenore.

Il termine è stato quindi esteso a tutti i regimi di separazione in cui una parte della popolazione non gode dei medesimi diritti di un’altra, e dunque anche alla colonizzazione e contenzione fisica e normativa attuata, progressivamente, anche dallo stato israeliano.


LE DENUNCIE SULL’APARTHEID IN PALESTINA: DA NELSON MANDELA ALL’ONU PASSANDO PER I POLITICI ISRAELIANI

Nel 1997 Nelson Mandela , dopo aver passato quasi trent’anni nelle prigioni del Sud Africa per poi diventare il primo presidente nero del paese, disse che <<senza la libertà del popolo palestinese anche la nostra sarà incompleta>>, insieme a quella di tutti i popoli oppressi mi sentirei di aggiungere...

Sudafricano era anche l’attivista e arcivescovo anglicano Desmond Tutu che, nel 2014, dichiarò: <<ho una conoscenza diretta del fatto che Israele ha creato un regime di apartheid nei suoi confini e con la sua occupazione. I parallelismi con il mio amato Sud Africa sono dolorosamente crudi>>.

Jimmy Carter, che durante la sua presidenza favorì i cosiddetti “accordi di Camp David”, è stato tra i primi a parlare esplicitamente di apartheid in riferimento alla questione palestinese, infatti nel 2006 pubblicò un libro dal titolo “Palestina: Pace non Apartheid”, dopo che alcuni mesi prima attivisti canadesi e statunitensi avevano avviato la prima campagna della “Settimana contro l’Apartheid israeliano”, che poi si estenderà in tutto il globo.

Negli ultimi decenni e fino al 2013 anche diversi politici israeliani, non solo di sinistra, hanno parlato apertamente di apartheid, tra questi c’erano gli ex primi ministri Ehud Barak, Ehud Olmert, e Yitzhak Rabin (morto assassinato nel 1995), e anche Ami Ayalon e Yuval Diskin, ex direttori dei servizi di sicurezza interni, lo Shin Bet. E nel 2021 lo hanno usato anche Ilan Baruch e Alon Liel, ex ambasciatori israeliani in Sud Africa, oltre all'ex segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, dicendo che <<verosimilmente si può parlare di apartheid>>.

L’“esplosione” dell’uso del termine, sempre in relazione alla questione palestinese e collegata a possibili incriminazioni per crimini di guerra e contro l’umanità, che dovrebbero essere vagliati dalla Corte Penale Internazionale, si è registrata però negli ultimi due anni: recentemente l’hanno usata anche due delle più note organizzazione non governative al Mondo, Human Rights Watch e Amnesty Internationaloltre all’israeliana B’TSELEM. Sul sito di quest'ultima si legge: <<la politica, che nega ai palestinesi molti diritti, incluso quello all’autodeterminazione, è raggiunta tramite l’organizzazione degli spazi in senso geografico, demografico e politico. Ciò include: dare la cittadinanza a ogni ebreo nel mondo e ai suoi parenti, mentre è generalmente negata ai palestinesi; confiscare territori per gli ebrei mentre i palestinesi vengono confinati in piccole e sovraffollate enclave; restringere il movimento dei palestinesi; escludere milioni di palestinesi da un’effettiva partecipazione politica>>.

Nello stesso periodo il termine è stato usato in maniera esplicita anche da esperti dell’ONU: Michael Lynk, che ha preceduto Francesca Albanese nel ruolo di Relatore/Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967 (ruolo indipendente e pro-bono assegnato dal Consiglio dei Diritti Umani), ha scritto nel penultimo rapporto (pubblicato a Marzo del 2022) che <<nei territori palestinesi che Israele ha occupato fin dal 1967, ci sono attualmente 5 milioni di palestinesi apolidi che vivono senza diritti, in uno stato acuto di sottomissione e senza nessuna strada diretta verso l’autodeterminazione o uno stato indipendente, cosa ripetutamente promessa dalla comunità internazionale. 

Negli ultimi cinquant’anni Israele ha creato 300 insediamenti per soli ebrei, tutti illegali, con 700 mila coloni israeliani che attualmente vivono a Gerusalemme Est o in Cisgiordania, nel mezzo di, ma separati da, 3 milioni di palestinesi. A Gaza, Israele ha rinchiuso 2 milioni di palestinesi in quella che l’ex primo ministro Britannico, David Cameron, definì una “prigione all’aria aperta”, un metodo di controllo della popolazione unico nel mondo moderno. Negli ultimi anni, i primi ministri di Israele hanno sistematicamente e apertamente proclamato che il comando sui palestinesi e sulla loro terra è permanente e che non ci sarà nessuno stato palestinese (…) l’apartheid oggi è considerato una norma di diritto consuetudinario, un’inderogabile norma del diritto internazionale per cui non ci sono deroghe. Per questo l’apartheid è considerato uno dei crimini più seri, all’interno della stessa categoria dei crimini di guerra, delle guerre d’aggressione, delle annessioni territoriali, del genocidio, della schiavitù, della tortura e dei crimini contro l’umanità. Inoltre, in quanto norma di diritto cogente, fa scattare l’obbligo per tutti gli Stati di cooperare per porre fine alla violazione>>.

Nel documento si citano poi i criteri per identificare il crimine di apartheid: il diniego a membri di un gruppo etnico del diritto alla vita e alla libertà, tramite l’omicidio, danni fisici e psicologici, arresti e detenzioni arbitrarie; l’imposizione deliberata di condizioni di vita programmate per il loro detrimento fisico; atti normativi calcolati per impedire una piena partecipazione politica, sociale, economica e culturale nei diversi ambiti di vita; ogni tipo di misura per separare la popolazione in base a criteri “razziali”, etnici, culturali, politici e religiosi anche con confinamenti in ghetti e campi, oppure con la proibizione di matrimoni misti e l’espropriazione di terre; lo sfruttamento lavorativo e la persecuzione attuata tramite la deprivazione dei diritti umani fondamentali a chi si oppone alle politiche di apartheid; la deportazione e gli spostamenti forzati di una popolazione.

Nel report (pubblicato a Settembre del 2022) di Francesca Albanese , Relatrice in carica, si spiega che il superamento dell’apartheid, di per sé, non è sufficiente a risolvere le cause originarie della crisi palestinese, e quindi a porre fine all’occupazione militare illegale, iniziata nel 1967, che sarebbe dovuta essere “temporanea” ma che è diventata un’<<occupazione perpetua (…) deliberatamente regolata contro gli interessi della popolazione occupata>>, un’annessione di territori a tutti gli effetti che viola <<la maggior parte degli obblighi imposti alla potenza occupante>>, tramite la pratica degli insediamenti che costituisce a sua volta un crimine di guerra, in violazione del diritto umanitario internazionale e con una parvenza di legalità favorita da politiche e leggi che gran parte della comunità internazionale (media inclusi) fanno finta di non vedere, “normalizzando” l’occupazione.

Il documento parla della <<sistematica violazione di almeno tre norme perentorie del diritto internazionale: il divieto di acquisire territori tramite l’uso della forza; il divieto di  di sottomissione, dominazione e sfruttamento da parte di un governo straniero, incluse discriminazioni razziali e apartheid; e l’obbligo degli Stati di rispettare il diritto all’autodeterminazione dei popoli>>, mentre invece lo stato di Israele dal ‘67 continua a <<confiscare terreni, soggiogando e rimuovendo gli abitanti autoctoni e sostituendoli con i suoi cittadini. Questo è il segno caratteristico dell’insediamento-colonialista, e un crimine di guerra per lo Statuo di Roma>> (a tal proposito vi segnaliamo l’articolo in cui spiegavamo come il ministro Lollobrigida e sodali confondevano il concetto di “ethnic replacement” con “replacement migration”, e quindi quello della “sostituzione etnicacon “ricambio migratorio).

Michael Lynk ha dichiarato su Twitter di aver subito, insieme a Richard Falk e John Dugard (che tra il 2001 e il 2022 hanno ricoperto anche loro il ruolo di Relatori Speciali per i Territori Palestinesi Occupati dal 1967) e alla succeditrice Francesca Albanese, <<incessanti, duri e calunniosi attacchi per un’unica ragione: criticare Israele per le sue sistematiche e gravi violazioni di diritti umani (…) attacchi che cercano di delegittimare invece che andare alla sostanza del problema (…) durante i rispettivi periodi, la leadership dell’ONU non ha fatto abbastanza per condannare i continui attacchi contro di noi, che hanno solo incoraggiato il governo israeliano e le organizzazioni politiche allineate con esso a gettare fango sul compito che abbiamo svolto>>, e con il vero intento che sarebbe quello di chiudere l’apposito ufficio.






Tra le diverse accuse subite c’è quella di di antisemitismo, ma è ovviamente un’accusa strumentale rivolta a chi sostiene l’antisionismo e a chi si oppone a specifiche politiche di colonizzazione, e quindi più in generale a chiunque dissente dalle attuali politiche e dalle logiche degli estremisti/nazionalisti israeliani, che di certo non equivale a stigmatizzare qualcuno in quanto ebreo, come diremo in un prossimo articolo basato sulle dichiarazioni di un noto ebreo italiano, accusato anche lui di essere antisemita…

Chiudiamo questo pezzo invece con una dichiarazione di Michael Lynk (che trovate a un’ora e 8 minuti dell'intervista, pubblicata sul canale Youtube “Balfour Project” nel video qui sotto) sulla relazione tra il diritto a resistere, anche con l’uso della forza, e il diritto internazionale: <<ogni volta che mi fanno una domanda su questo argomento penso alla Resistenza francese durante la seconda guerra mondiale. Le persone hanno il diritto a resistere a un’occupazione straniera e alle regole imposte da questa, in particolare quando ciò avviene in maniera illegale. Detto ciò, non sto dicendo che la resistenza stessa non abbia dei limiti: per esempio, in una causa moralmente nobile, se ci sono degli attacchi mirati a obiettivi civili della forza occupante, in maniera deliberata o sconsiderata, sarebbero illegali e travalicherebbero il diritto alla resistenza.




Abbiamo compreso, dopo una serie di importanti risoluzioni dell’Assemblea generale negli ultimi 60 anni, che le persone sottomesse da un regime straniero hanno il diritto a resistere con le armi. Fatta questa premessa, per prima cosa c’è una immensa differenza di forza, e poi, quando vivevo negli anni’80 in Palestina, ci fu la prima Intifada che fu principalmente un movimento non armato e secondo me molto efficace, con l’impiego di scioperi, proteste e boicottaggi, forme di disobbedienza civile a delle regole ingiuste. In molte maniere funzionarono decisamente meglio e riuscirono a far capire di più le loro ragioni alla comunità internazionale e a rafforzare il sostegno verso di loro.

Come avvocato e come ex-Relatore so che ci sono molte azioni di disobbedienza civile e resistenza non violenta, usate ancora oggi dai palestinesi, che potrebbero avere più successo della resistenza armata.

Penso che se l’intera area fosse schierata e applicasse questi principi su larga scala ci sarebbero più possibilità di successo nel resistere all’occupazione della resistenza armata nella maniera in cui è stata condotta recentemente (…) Assistiamo a questa resistenza armata perché i giovani palestinesi vedono l’Autorità Nazionale Palestinese incapace di portare la libertà. Se l’Autorità è bloccata nell’impegno dell’amministrazione delle municipalità e non riesce a fare leva sulla diplomazia per avere uno Stato palestinese, vedremo la resistenza armata aumentare, perché non si intravede un percorso politico all’orizzonte con un futuro di libertà>>, rendendo più fertile il terreno per gruppi armati come quello nazionalista-islamico di Hamas, che controlla la striscia di Gaza, o le formazioni salafite, ma anche altri come l’emergente e dichiaratamente apartitica “Fossa dei Leoni”.

Tutti i popoli oppressi dovrebbero essere protagonisti della loro liberazione senza aspettare aiuti dall’“occidente”, ma anche il nostro “potere” nel fare pressione sui potentati economici e sui nostri governi, tramite boicottaggi e altri strumenti di sostegno alle loro cause (e partendo proprio da quelli comunicativi-mediatici) sono perlomeno utili (se non cruciali), oltre a essere il minimo che possiamo e dobbiamo fare.

E non è un caso che Lynk, a proposito del recente piano del governo del Regno Unito (sostenuto almeno in parte anche dal leader dei laburisti), che consiste nel vietare l’azione dei gruppi di BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per fare pressione non violenta con gli strumenti economici, strumenti che tutti i “protagonisti” del capitalismo devono per forza di cose tenere in considerazione, dice: <<se si blocca ogni processo seriamente basato sui diritti e sulla legge internazionale, se si negano ai palestinesi discussioni con la Corte penale internazionale, con l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, e se si bloccano metodi di resistenza pacifica all’occupazione israeliana ostacolando o vietando le attività di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, allora ditemi come convincere un o una giovane palestinese a non dovrebbe imbracciare le armi?!>>.


 

Anarco-pacifista

ultima modifica 7/11/2023 ore 18:48


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