19.7.25

OCALAN CHIEDE AL PKK DI DEPORRE LE ARMI: IL PARTITO METTE DEI FUCILI AL ROGO

SI ASPETTANO PASSI CONCRETI DA ANKARA


Aggiornamento per il format di Fanrivista “Come Va a Finire?!: dopo il tortuoso processo di pace avviato lo scorso Novembre, dieci giorni fa Abdullah Ocalan è apparso in un video dall’isola-carcere di Imrali. Ha ribadito le considerazioni storiche e politiche sulla fine della lotta armata tra la guerriglia curda e il secondo esercito più grande della NATO, chiedendo al partito di deporre le armi.

Tre giorni dopo alcunə combattentə del PKK hanno tenuto una cerimonia e bruciato dei fucili. Il gesto simbolico esprime la disponibilità a un accordo che ponga fine a decenni di conflitto.

Intanto, poche ore fa, un drone ha ucciso almeno un membro del PKK nel nord dell’Iraq. Al momento della chiusura di questo articolo non si conosce ancora la paternità dell’attacco, che aumenta i dubbi sull’effettiva percorribilità del processo di riconciliazione.


Sullo sfondo un cielo nuvoloso e alcuni grigi palazzi, oltre ad alcune persone. Al centro risalta una bandiera con il volto di Ocalan e delle scritte in curdo. Si intravedono altre bandiere con Ocalan in uniforme e la stella rossa nel simbolo del KCK. Sopra l'immagine della manifestazione, il disegno di due mani che spezzano un fucile, un noto simbolo antimilitarista, con gli stessi tre colori delle bandiere (giallo, rosso e verde).



DAL VIDEO DI OCALAN AI FUCILI BRUCIATI DAL PKK

L'8 luglio viene pubblicato un video registrato sull’isola-prigione di Imrali. A parlare è uno dei fondatori del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK), il leader Abdullah Ocalan (detto “Apo”). Nell’inquadratura, insieme al “leader a cui non piacciono i leader”, ci sono altri sei ristretti. Il video-messaggio, il primo in 26 anni di carcere, segue l’annunciata volontà del partito a sciogliersi, conseguenza a sua volta dell’invito di Ocalan a decidere in merito. La speranza è quella di porre fine a un decennale scontro con decine di migliaia di morti.

Nei contenuti del video, sostanzialmente, si ribadisce quanto già detto negli ultimi messaggi scritti, sottolineando che <<è importante deporre le armi volontariamente e garantire le attività approfondite di una commissione legalmente autorizzata, da costituire nella Grande Assemblea Nazionale Turca. Pur essendo diffidente nell’addentrarmi negli illogici approcci del “prima tu e poi io”, bisogna fare questo passo senza esitazione. So che non sarà vano. Vedo sincerità e ho fiducia>>. Ocalan ha annunciato anche la diffusione di un nuovo "Manifesto della Civiltà Democratica" (tre dei suoi compagni di prigionia, degli intellettuali accusati di essere contigui al PKK, si troverebbero lì proprio per questo scopo), ha invitato i destinatari a muovere <<ogni sorta di critica>>, e ha dichiarato che gli incontri in carcere con le delegazioni del partito DEM si sono svolti <<liberamente>>.

Da quando è tornato a comunicare con l’esterno, dopo anni di completo e totale isolamento, “Apo” ha confermato quanto espresso nei volumi del “Manifesto della Società Democratica”, scritto sotto forma di autodifesa per evitare i divieti di comunicare con l’esterno: con la fine dell’Unione Sovietica e dei vari esperimenti di socialismo reale (o presunto tale), nati insieme al partito comunista curdo nel <<secolo più violento della storia>>, sono finite anche le ambizioni di creare uno stato curdo sul modello sovietico, che finirebbe col replicare le distorsioni e i problemi comuni a tutti i moderni stati-nazione. Per Ocalan, dunque, allo stato attuale delle cose, è svuotata di senso anche la stessa lotta armata, che comunque ha portato al riconoscimento dell’esistenza dei curdi, nonostante le vessazioni che continuano a subire.

Al video è seguita una cerimonia nei pressi di una grotta nella provincia di Sulaymaniyya, sulle montagne del Nord dell’Iraq, al confine con l’Iran, otto giorni fa. Alla cerimonia hanno preso parte diversi quadri della resistenza curda, tra cui Bese Hozat, co-presidente del KCK (“Unione delle Comunità del Kurdistan”, organizzazione ombrello che racchiude diversi partiti e associazione con lo scopo di implementare il Confederalismo Democratico, il paradigma libertario di democrazia radicale elaborato da “Apo” in carcere).

Durante l’iniziativa, una trentina di combattentə del PKK, appartenenti al “Gruppo per la pace e la società democratica”, hanno posto i propri fucili in un enorme braciere. Il gesto, compiuto alla presenza di funzionari turchi, iracheni e del partito di opposizione turco DEM (“Partito Popolare dell’Uguaglianza e della Democrazia”), vuole dimostrare la disponibilità a continuare il processo di pace, ed è simbolicamente molto denso. Il fuoco che ha reso le armi inutilizzabili simboleggia non tanto la fine della lotta armata, e men che meno l’annuncio di una resa incondizionata, ma l’auspicio per l’inizio di un’era di convivenza tra i popoli curdo e turco, oltre che di pace per tutto il Medio Oriente. Gli auspici, però, si scontrano con una realtà politica tutt’altro che favorevole alla convivenza pacifica...





LA RICERCA DELLA PACE, TRA INCOGNITE E PERPLESSITÀ

Nonostante l’annuncio dell’auto-scioglimento del partito, restano ancora una serie di incognite legate al come dovrà essere sciolto e alle modalità con cui dovrebbero essere consegnate e distrutte le armi, in maniera non soltanto simbolica, oltre che alla re-integrazione nella società civile delle migliaia di guerriglieri, tra quelli che non espatrieranno.

Non sappiamo quello che accade dietro le quinte delle negoziazioni, per cui, al momento, possiamo limitarci a fare almeno due ipotesi, che non si escludono a vicenda: la prima è che Ocalan con il suo messaggio abbia voluto esercitare maggiore pressione sulla Turchia, ribadendo sostanzialmente quanto già detto, in attesa di passi concreti dalla controparte. La proposta provocatoria fatta a Novembre da Baceli, il neofascista “lupo grigio” alleato di Erdogan, che invitava i <<terroristi>> a deporre le armi, è stata accolta perlomeno parzialmente, ma presuppone che il governo turco faccia qualcosa da parte sua. 

A questa prima ipotesi se ne può affiancare un’altra: il “Gramsci Curdo” potrebbe aver voluto fare pressione anche sui quadri del PKK, i quali continuano a chiedere la sua liberazione come condizione necessaria. Eppure, si può pensare che lo stesso Ocalan non punti a un’immediata liberazione. Il “Mandela Curdo”, proprio come il Mandela sudafricano, dovrebbe ottenere qualcosa di più concreto, inclusa la liberazione di altri prigionieri politici, prima di uscire dal carcere a testa alta e con prospettive di pace solide. Ricordiamo che a Nelson Mandela fu offerto di uscire di prigione nell’85, ma a condizione di ritirarsi dalla politica, cosa che rifiutò. Inoltre, l’insistenza su questo punto dei vertici del partito, disciolto per adesso solo in potenza, potrebbe anche riflettere delle divisioni all’interno del movimento di resistenza curdo. Oppure, quantomeno, può essere sintomo dello scetticismo di alcune sue componenti sul porre fine alla lotta armata alle attuali condizioni. Scetticismo che è presente anche in un ampio settore della società turca: è difficile fare la pace “oggi” se fino a “ieri” ci si è ammazzati, ed è ancora più difficile se una parte viene etichettata come “terrorista”, senza pensare agli abusi che ha subito in decenni, inclusa la negazione stessa dell’identità curda (similmente a quanto avviene con i palestinesi con cui, nel passato, i curdi del PKK hanno combattuto insieme). Ma, al di là di ipotesi più “dietrologiche”, mosse fin dall’inizio del tortuoso processo di pace che coincise con l’attacco alla TUSAS, restano altri dubbi più prossimi e concreti.

Da parte turca, portare avanti delle trattative mentre si tiene sotto chiave il principale negoziatore non sembra essere segno di una sincera volontà nel farle continuare. Invece, la strategia di Ankara, potrebbe nascondere l’intenzione del dittatore (“nostro” alleato) Erdogan, di seminare divisione nella resistenza curda e nell’intero arco dell’opposizione turca, mantenendo al contempo un’immagine “pulita” di fronte al suo paese e al resto del mondo. A questo bisogna aggiungere la più che plausibile intenzione di “mettere in pausa” il conflitto con la resistenza curda, per concentrarsi su altri fronti in una fase particolarmente caotica, indotta dai bombardamenti israeliani in tutta la regione, inclusi quelli in Siria, dove al governo c’è l’ex-membro di Al-Qaeda sponsorizzato anche da Erdogan.

Dal lato curdo ci si aspettano riconoscimenti sostanziali e normativi che dovrebbero partire sia dal parlamento che dalla società civile. Richieste che, al momento, non sono state ancora formalizzate: la fine delle discriminazioni linguistiche e culturali, con una piena libertà di utilizzare la propria lingua madre in scuole, teatri, concerti, ecc., senza essere puniti o stigmatizzati; la fine della repressione e delle politiche di “golpismo perenne”, con una riforma del sistema penale e delle leggi antiterrorismo, al momento strumentali per arrestare giornalisti, attivisti, sindaci e amministratori locali; il riconoscimento di maggiore autonomia amministrativa e di piena rappresentanza politica. A queste si aggiungono la fine delle operazioni militari turche in Iraq e in Siria. Insomma, i curdi, come le altre minoranze, chiedono di essere riconosciuti, non “assimilati”. 

È difficile aspettarsi tutto ciò dall’attuale governo, che in questi giorni continua ad attaccare tutte le organizzazioni del KCK, invece che tentare di avviare un serio dialogo con esse. Pretendere che si auto-sciolgano tutte come il partito "madre", il PKK, risulta pretestuoso. L’unico passo concreto che è stato fatto consiste nell'annuncio della costituzione di una commissione parlamentare con il partito DEM che, ricordiamo, è stato costituito perché il suo partito “padre” fu messo al bando. La prospettiva che questo processo di riconciliazione si areni, come quello terminato nel 2015, resta alta.

Ed è ancora più difficile se si pensa che nelle galere turche ci sono migliaia di prigionieri politici, incluso il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu. Non è un caso che lo stesso Ocalan, nel video, ha dichiarato di ritenere la sua libertà strettamente collegata a quella collettiva.

Infine, nuove domande, su questioni che abbiamo già trattato tra queste pagine digitali, attendono una risposta nostra e della storia: avevamo parlato dell’accordo tra le forze armate del Rojava e Al Jolani, che sembra fallito. Menzionavamo il “corteggiamento”, da parte dell’etno-teocrazia israeliana, delle forze a maggioranza curda nel “Rojava” e della comunità drusa. Come moltə di voi sapranno, proprio in questi giorni gli scontri nella provincia di Sweida tra drusi, clan beduini e forze armate di Ahmad al-Sharaa, sono stati sfruttati come pretesto dai fascio-sionisti guidati da Netanyahu per sferrare un attacco direttamente su Damasco, reclamando l’intenzione di allargare la “zona cuscinetto” al confine con la Siria. Invocando ulteriori e indefinite estensioni delle “zone cuscinetto”, oltre i limiti dei territori già occupati illegalmente, vorrebbero coronare l’estremista sogno biblico della “Grande Israele”, estesa “dal fiume al fiume” (ossia dall’Eufrate al Nilo).

È possibile prevedere, ma non auspicare, che il focolaio della guerra civile siriana si riaccenda con conseguenze più dirette anche sullo scenario turco. Sta a noi, società civile globale, fare il possibile per spegnere i focolai di guerra in tutta l’Asia Occidentale (o Medio Oriente, secondo la prospettiva colonialista) e in tutto il Mondo. Le forze globali che credono in una società più libera dovrebbero guardare con molta più attenzione alla soluzione “senza stato”, e contro il modello di stato, per il più numeroso popolo senza uno stato: ispirandoci al paradigma libertario elaborato da Ocalan e alla sua implementazione della Siria del Nord Est, forse troveremo strumenti e pratiche che potrebbero far finire le guerre coloniali in Asia Occidentale, e far progredire le società “occidentali” verso delle democrazie sostanziali, non solo formali.

PMA



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ultima modifica 20/07/2025 15:17

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