15.2.25

L'ARRESTO ILLEGALE DI OCALAN, IL "MANDELA" E "GRAMSCI" CURDO

  • IL RUOLO DELL'ITALIA NEL SEQUESTRO DEL "GRAMSCI" CURDO
  • IL CAMBIO DI PARADIGMA POLITICO DURANTE LA PRIGIONIA DEL FUTURIBILE "MANDELA" CURDO


Abdullah Ocalan in un primo piano: sorride mostrando i denti, appoggia la mano sulla sua guancia e ha capelli e baffi brizzolati.
Abdullah Ocalan in una foto di Halil Uysal da Wikimedia rilasciata con licenza Creative Commons.


Ventisei anni fa Ocalan, il “Mandela curdo”, veniva sequestrato in Kenya alla fine di un tortuoso e insidioso percorso. Avrebbe dovuto raggiungere il Sudafrica, dove sarebbe stato protetto dal “vero” Mandela. In occasione di questo anniversario, e mentre si attende un nuovo messaggio di Ocalan, ripercorriamo le tappe che lo hanno portato all’arresto e riproponiamo alcuni approfondimenti già pubblicati tra queste pagine digitali, insieme a degli aggiornamenti. Iniziamo spiegando perché in questi giorni si sente spesso parlare del leader curdo.


UNA SOLUZIONE PACIFICA DELLA QUESTIONE CURDA O UNA PACIFICAZIONE TEMPORANEA?

Il 15 febbraio 1999 l’intelligence israeliana e quella turca sequestravano in Kenya Abdullah “Apo” Öcalan, tra i fondatori e storico leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in acronimo PKK).

Ocalan è un simbolo della questione curda, problema pluridecennale che riguarda la minoranza più numerosa e perseguitata della Turchia, di cui costituisce circa il 20% della popolazione. Questione che si estende ai confini politici degli altri stati che comprendono la regione del Kurdistan. Lo stato mai nato, per il popolo più numeroso che non ne ha uno, si estende oltre che in Turchia, in Iraq, Siria e Iran (e, secondo alcune visioni, anche in Armenia).




La regione curda evidenziata su un mappamondo evidenziata in verde, proiettata e ingrandita
Mappa della regione popolata dei curdi elaborata da Isochrone su Wikimedia



Prima del rapimento Abdullah Ocalan pensava già a una soluzione pacifica della questione curda e del conflitto armato iniziato nei primi anni ’80 con la Turchia. Soluzione di cui si è ritornato a parlare lo scorso ottobre, quando il “lupo grigio”, “gladiatore” e neofascista Devlet Bahçeli ha invitato <<il leader dei terroristi>> a sciogliere il PKK (e, implicitamente, tutti i partiti e le organizzazioni collegati, incluso il KCK, organismo “ombrello” che raggruppa il PYD siriano, il PJAK iraniano e il PÇDK iracheno). In quell’occasione gli è stata permessa una visita per la prima volta dopo 43 mesi di totale e illegale isolamento. Nemmeno i suoi avvocati potevano incontrarlo e alcuni temevano per la sua salute. Dopo aver incontrato Ömer Öcalan, suo nipote e parlamentare del DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli turco), gli è stata concessa una seconda visita a dicembre, con altri delegati dello stesso partito. Insomma, sembra un po’ difficile pensare che una trattativa sia intrapresa seriamente quando al principale negoziatore non è nemmeno permesso di comunicare liberamente…

La richiesta di smantellare organizzazioni civili e militari legate al PKK ha preceduto di poco la caduta “morbida” di Assad in Siria. Tra queste pagine virtuali abbiamo già sintetizzato e approfondito il caotico contesto della guerra civile siriana, il passaggio ideologico dal paradigma marxista-leninista a quello municipalista libertario di Ocalan, l’applicazione e la sperimentazione dei principi di democrazia diretta e radicale di questo paradigma nel Nord-Est della Siria (nella DAANES o “Rojava, attualmente l’unica democrazia del Medio Oriente). E, infine, abbiamo parlato delle trattative che accompagnano la misteriosa “apertura” al movimento curdo dei governanti turchi, con la richiesta di una “zona cuscinetto” al confine con la Siria e i bombardamenti incessanti della Turchia e dei suoi proxy (ossia delle fazioni armate che foraggia e arma). Probabilmente il “Sultano” Erdogan ha deciso di mettere in pausa il conflitto in vista della crescente competizione con Israele e, forse, in preparazione di un conflitto più aperto tra le estensioni della NATO (incluso il membro de facto israeliano) e l’Iran.

Il rischio, dunque, è che queste trattative servano solo a ritardare le intenzioni turche di risolvere la questione curda violentemente, mentre si preparerebbe guerra aperta all’Iran. Inoltre, Erdogan potrebbe avere bisogno di più consenso per approvare una nuova riforma costituzionale. Per questo gli converrebbe calmare le acque, perlomeno momentaneamente.


DALL’ARRESTO ALL’AUTOCRITICA

Prima dell’arresto-rapimento a Nairobi “Apo” era passato anche per Roma, tappa di un tortuoso percorso geografico e diplomatico iniziato in Siria. Da lì era stato mandato via sotto pressione della Turchia. Quando Ocalan arriva nella capitale al governo c’era Massimo D’Alema. Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista, nel ‘98 lo aveva accompagnato in aereo da Mosca a Fiumicino. Secondo lui le autorità italiane dell’epoca condividono pesanti responsabilità nel <<sequestro illegale in un territorio terzo>> di Ocalan

In quei giorni politici come Berlusconi parlavano dell’arrivo di un pericoloso terrorista. Il governo italiano subiva una serie di pressioni dalla Turchia e dal complesso militare industriale per farlo allontanare “di sua spontanea volontà”. Ocalan avrebbe voluto avviare il processo di pace proprio dall’Italia e in prossimità del Vaticano. Nelle cronache dell’epoca si trova un frammento di un suo comunicato, apparso sul sito del movimento guerrigliero che continua a dare molto filo da torcere a uno degli stati più potenti della NATO. Ocalan, da alcuni considerato terrorista e da altri liberatore (una classica, dicotomica, manichea e polarizzante (di)visione che si ripete sempre) disse: <<mi oppongo a qualunque forma di terrore, anche se è originata da noi. Sono pronto a fare qualunque cosa in mio potere in maniera che termini immediatamente>>.

Marco Minniti, all’epoca sottosegretario di D’Alema, ha ricordato proprio in questi mesi che Ocalan stava per essere estradato dall’Italia in Germania, dove era stato spiccato un mandato di cattura internazionale <<per omicidio aggravato dal terrorismo>>. Si trattava dell’omicidio di Zülfü Gök, un oppositore politico interno al PKK (ci risulta, tra l’altro, che Ocalan era ricercato in Germania pure per degli attacchi incendiari ad attività commerciali turche). Come in tutte le strutture autoritarie di “sinistra” erano necessarie delle “purghe”, eufemismo che indica l’eliminazione ideologica e fisica di qualunque dissidio e dissidente interno, di traditori veri, fittizi, o anche solo presunti. Eliminazioni funzionali a evitare divisioni, a non compromettere l’organizzazione e l’operatività di una struttura. Il prezzo è quello di snaturare gli stessi obiettivi ideali della lotta sotto la pressione di raggiungere obiettivi politici-militari per tentare di sfuggire, dannandosi, ad altre ingiustizie, in un ciclo di violenza continua. Si sa pochissimo di Zülfü Gök, ammazzato nella Germania Ovest, a Rüsselsheim nell’84. Vicenda per cui Ocalan era ancora ricercato dopo la riunione tedesca. Però, la giornalista Aliza Marcus spiega che era uno dei quattro militanti che avevano rotto con il partito e che furono assassinati nello stesso periodo in Europa.

Avevano tutti lavorato con Çetin Güngör, alias “Semir”, vittima tra le più importanti della furia autoritaria all’interno del PKKsacrificata in nome di un supposto e burocratico “socialismo reale” che non ammette sfide ai dogmi e alla leadership. Un tipo di presunto “socialismo” che poi, negli anni, verrà abbandonato e criticato dallo stesso “leader Apo”, quando si renderà conto che ogni tipo di “dogma” genera “culti oppressivi”. Inviato all’inizio degli anni ‘80 in Europa per dare vita a delle reti di supporto nella diaspora curda, Semir nutriva già <<delle vaghe preoccupazioni sulla struttura autoritaria del PKK. Semir pensava che il PKK doveva ripensare le sue attività in Europa, al tempo dirette a raccogliere soldi e quadri per la pianificazione della guerra. Pensava invece che gli attivisti del PKK in Europa dovevano rafforzare le comunità curde locali educando e assistendo la gente nei problemi quotidiani (…) e aveva bisogno di espandere le sue relazioni al di là dei gruppi marginali di sinistra, includendo partiti politici più mainstream e organizzazioni non governative (…) “Semir non era una persona dogmatica”, spiega Selman Arslan, precedentemente un militante del PKK che aveva lavorato con lui in Europa. “Per lui, tutto poteva essere messo in discussione, dibattuto, le decisioni non dovevano arrivare dall’alto… Voleva che le persone impiegassero le proprie esperienze, la propria autonomia, che prendessero decisioni (…) Nonostante la crescente pressione degli emissari di Ocalan, Semir (…) si rifiutò di cedere sulle sue idee, chiarendo che il PKK aveva bisogno di moderare la sua struttura interna di governo, di stampo leninista (…) in una lettera aperta ai suoi compagni in Europa del 10 Maggio dell’83 scrisse: “Il dogmatismo interno del partito si è rivelato essere più forte di me. Per questo lasciare i ranghi del partito [per adesso] è un’onorabile e necessaria decisione”>> (citazioni tradotte da “Blood and Belief. The Pkk and the Kurdish Fight For Independence” di Aliza Marcus, New York University Press, 2007, cap. The PKK Consolidates Power” pg. 89-91). 

Semir, alcuni anni prima, era stato sequestrato e rinchiuso nel suo appartamento in quanto sospettato di aver collaborato con un informatore, Sahin Donmez. Il partito gli impose di non rivelare la vicenda o la sua vita sarebbe stata a rischio. Rimase dedicato alla causa curda ma continuò a scontrarsi duramente con la logica autoritaria del partito, arrivando a definirla “fascista” e chiamando Ocalan uno “psicotico”A sua volta era stato definito “traditore” da un giornale interno al partito, il ché equivaleva a una condanna a morte, perlomeno politica... 

Braccato da membri operativi del partito in Germania, si trasferì e ottenne asilo in Svezia, dove si trovavano anche altri dissidenti del PKK. Dopo aver tenuto un basso profilo e pubblicato alcuni scritti sulla democrazia, decise di ritornare sulla scena politica e, così facendo, sfidò apertamente la leadership di Ocalan. Fu freddato, sparato alle spalle da un altro curdo durante la sua prima apparizione in pubblico a un incontro di attivisti a Stoccolma. L’assassino provò a scappare invano da una finestra. Ha dichiarato che l’omicidio era dovuto a questioni personali. Eppure un volantino del PKK definiva Semir come <<un agente provocatore portato di fronte alla giustizia dal nostro popolo>> mentre “Reber Apo” dichiarò che <<sarebbe stato ucciso dovunque si fosse trovato>>. Molte altre vittime delle "purghe" erano legate proprio a Semir, e non tutte furono assassinate in Europa...

Semir si rendeva conto di una questione cruciale, dibattuta sin dalle origini della "sinistra", che ancora oggi marca al suo interno una linea di divisione strategica e ideologica: la società ideale (che possiamo chiamare per comodità "socialista" o "democrazia pura") doveva essere raggiunta tramite la più complessa pratica della democrazia partecipata, inclusiva, plurale. Non tramite decisioni imposte dall’alto da un’avanguardia, sia che essa venga effettivamente scelta dalla massa o che si dichiari tale. In altre parole: la vera, fruttifera rivoluzione con effetti di lungo termine, permanenti, è insita in una dialettica tra pratica e teoria, tra ideale e concreto, che ammette costantemente dubbi, discussioni, con obiettivi verso cui tendere perennemente e indefinitamente. In parole ancora più povere: la società ideale (“socialista” o “democratica”) dovrebbe venire prima -o forse svilupparsi al contempo- della rivoluzione, e non viceversa. Le “dittature del proletariato”, i “colpi di mano”, le rivolte sono delle false -o comunque incomplete- rivoluzioni, delle “scorciatoie” politiche e militari che replicano le dinamiche oppressive che quella presunta rivoluzione dovrebbe risolvere.

Ritornando alla vicenda del sequestro dell’allora Presidente del PKK, questi non aveva timore di quel processo in quanto, a suo dire, era basato su accuse inconsistenti, come dichiarò sempre al parlamentare Mantovani. In effetti Marcus (la studiosa succitata) argomenta che molte esecuzioni dei “rinnegati” del PKK non erano state ordinate direttamente da lui. Tuttavia, all’interno del partito si era creato un clima per cui l’eliminazione di un “traditore” o una “traditrice” era scontata e avallata.

Ocalan, oltre che dalla Germania, era ricercato anche dalla Turchia, ma l’Italia non poteva accogliere la richiesta di estradizione turca in quanto lì vigeva la pena di morte. Minniti racconta che <<noi lo avevamo arrestato perché c’era un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Germania. La cosa era semplicissima da risolvere (…) lo avremmo mandato in Germania nel giro di 48 ore>>, scaricando così il barile sui tedeschi, dove si temevano scontri e sommosse se “Apo” fosse arrivato fisicamente lì. Però, l’equivalente della nostra Corte Costituzionale tedesca, derubricò il mandato di cattura da internazionale a nazionale, scaricando il barile sull’Italia e, così facendo, <<piegando la vicenda all’interesse nazionale>>. A ogni modo, le cronache di allora, parlano della possibilità, espressamente prevista dalla legge tedesca, di non implementare un’estradizione per ragioni di ordine pubblico. Dando per buona la visione di Minniti sulla legge tedesca, qualcuno potrebbe pensare che a “piegare” il diritto su questo supposto interesse nazionale (dovremmo chiamarlo interesse geopolitico del complesso militare industriale, visto che già all’epoca cerano tensioni per i rifornimenti di gas in Europa) furono anche le autorità italiane che dichiararono il falso. 

Il ministro della difesa Scognamiglio spiegò alla stampa che, siccome Ocalan era entrato illegalmente in Italia, e mancando una richiesta di estradizione dalla Germania, non c’era altra possibilità che espellerlo. Ma, secondo il già citato deputato di Rifondazione, le cose non stavano così: è vero che Ocalan al suo arrivo in Italia aveva un passaporto falso però, lo stesso Mantovani, gli aveva consigliato di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici e chiedere asilo. Un comportamento del genere non può essere inquadrato come un’entrata clandestina nel paese, per cui <<il governo mentì circa l’ingresso di Ocalan in Italia (...) Non tentò di passare clandestinamente la frontiera come disse la stazione di Polizia dell’aeroporto e poi il governo italiano>>, che minacciò anche la possibilità di togliergli la scorta. Secondo questa versione, anche se a mentire fossero stati solo gli organi di polizia con un verbale di arresto che attestava il falso (e cioè che aveva presentato un documento falso per poi essere arrestato) <<una volta appresa la verità il capo del governo avrebbe dovuto perseguire eventuali funzionari di stato infedeli>>. Dopo che i governanti di “centro-sinistra” si erano prima detti contrari a concedergli l’asilo, mentre al contempo affermavano di non avere voce in capitolo sulla vicenda, un tribunale italiano metterà nero su bianco che Ocalan godeva di quel diritto… Ma lo stabilirà mesi dopo il suo rapimento in Kenya e contro il parere dell’Avvocatura di stato!

A complicare ulteriormente la ricostruzione dell’”affaire Ocalan” ci si è messo lo stesso D’Alema con un’intervista di ieri a Chiara Cruciati de “Il Manifesto. Bisogna ricordare che, durante il soggiorno italiano, Ocalan viveva in una villa costantemente sorvegliata. C’era il concreto pericolo che apparati vicini alla Turchia potessero colpirlo con un attentato. La villa, sostiene D’Alema, era sorvegliata non solo dalle forze armate italiane, ma anche dai servizi segreti turchi, israeliani e statunitensi. Per questo, secondo l’allora premier, sarebbe stato comunque in pericolo anche se fosse rimasto in Italia. D’Alema si difende chiarendo che l’aver convinto Ocalan a optare per un ’”allontanamento volontario”, per prima cosa, era basato sulla decisione della commissione incaricata di concedere il diritto d’asilo, che si era detta contraria per l’accusa di omicidio (eppure membri del suo governo avevano pubblicamente affermato che l’asilo non andava concesso). <<Noi abbiamo fatto in modo che potesse lasciare in sicurezza l’Italia>> e raggiungere il Sudafrica, paese meno influenzato dell’occidente e luogo migliore per una questione che <<poteva essere affrontata solo tra compagni>>. A quel punto, secondo l’allora presidente dei Democratici di Sinistra, Ocalan fu fatto allontanare nell’ambito di una delicata “spy story” che nell’intervista viene solo accennata. Il leader del PKK doveva andare via senza che gli USA se ne accorgessero, sostiene D'Alema: <<Gli americani non si accorsero di nulla. Attraverso determinati accorgimenti, risultò a tutti essere ancora qui quando in realtà se n’era già andato. Fu un’operazione abbastanza complessa e fu gestita borderline: un’operazione così non poteva essere interamente gestita dai nostri apparati senza che gli americani lo sapessero. Il capo della polizia mi disse che avrei dovuto trovare io la via. Organizzammo tutto molto bene: lui scomparve e arrivò in una base militare di un altro paese. Da lì doveva andare in Sudafrica>>. D’Alema dichiara di essersi accordato sia con la Russia, ossia la destinazione intermedia di Ocalan (forse non l’unica), che con il Sudafrica, la destinazione finale. Ma, giunto a Mosca, il ministro degli esteri greco, il socialdemocratico Pangalos, lo invitò in diverse ambasciate greche in Africa (circostanza che sarebbe stata riferita a D’alema dal primo ministro Simitis, dello stesso partito di Pangalos). Si trattava di una trappola. A Nairobi, sempre secondo la ricostruzione di D’Alema, gli fu detto che avrebbe ricevuto asilo in un paese europeo. Invece, sempre secondo l’ex DS, fu catturato dai servizi israeliani e consegnato alla Turchia, dove i suoi diritti umani sono ancora violati. 

La versione di D’Alema sembra, a giudizio di chi scrive, incompatibile con quella di Minniti: il primo afferma di aver fatto di tutto per salvare Ocalan; il secondo ammette che l’Italia si liberò di una “patata bollente” <<piegando>> il diritto in funzione della ragion di stato. Presumibilmente, a diverso titolo, tutti i paesi coinvolti in questa vicenda -Russia inclusa- hanno tradito i valori democratici dello stato di diritto, insieme a Ocalan. Anche l'ex deputato di Rifondazione ha rilasciato delle dichiarazioni a Il Manifesto: definisce le parole di D'Alema come una <<auto-assoluzione>>, mette in luce le contraddizioni che emergono tra le dichiarazioni nell'intervista di ieri, quelle fatte all'epoca pubblicamente del suo Governo e l'accusa a Ocalan di aver usato un passaporto falso; altre discrepanze emergono tra le ingerenze statunitensi di allora e la rivendicazione di indipendenza dagli USA che fa oggi D'Alema; Mantovani, in più, chiarisce il ruolo svolto dal suo partito ed esprime comunque qualche dubbio sulle intenzioni reali di Ocalan. Quest'ultimo non aveva paura di un eventuale processo in Italia, ma temeva che il suo arresto sulla penisola avrebbe potuto <<provocare reazioni incontrollate e disperate nel movimento curdo>>.


Ocalan bendato e ammanettato con sullo sfondo delle bandiere turche.
Immagine originale di Emertulker da Wikimedia


Inizialmente Ocalan era stato condannato alla pena di morte ed era l’unico prigioniero sull’isola carcere di Imrali. Poi, sulla spinta del desiderio turco di entrare in UE, la pena di morte è stata abolita e una manciata di detenuti adesso è ristretta nello stesso carcere, una delle formalità legali di facciata che non ha garantito un processo equo e la possibilità di fare appello. 

Il “Gramsci curdo” ha potuto rompere temporaneamente l’isolamento sfruttando la possibilità di scrivere ai suoi avvocati durante un ricorso alla Corte europea per i diritti dell'uomo. Gli scritti per auto-difendersi sono diventati un pratico punto di riferimento per gli idealisti libertari e per la sinistra tutta. "Apo" in prigione sveste i panni dell'autoritario leader-guerrigliero per diventare autorevole studioso e teorico, profondo nella sua semplicità, scrivendo testi che abbracciano filosofia, antropologia, storia e scienza politica. Tra le varie cose quei testi dicono, insieme a qualche tremendo strafalcione, che non ci dovrebbe essere una separazione netta tra scienze “dure” e “molli”. E, ancora più importante, insegnano a criticare l’autore, un leader convinto che non ci devono essere singoli leader. Tutti dovrebbero esserlo!

Anche per questo, al di là delle opinioni politiche e dei giudizi storici, tutte quelle persone che credono nel rispetto diritti umani dovrebbero esigere la libertà di Ocalan, come quella di tutti i prigionieri politici. Invece, specialmente quelle persone che si definiscono “di sinistra” -in senso largo- trarrebbero beneficio dal concetto di autocritica. Non quella dei regimi di presunto “socialismo reale”, sfruttata per trovare più facilmente persone da epurare.

Paolo Maria Addabbo


Pubblicheremo un aggiornamento sotto questo articolo o in un prossimo post appena si saprà di più dell’atteso messaggio di Ocalan!


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