14.2.25

FORAGERS

UN DOCU-FILM SULLA COLONIZZAZIONE DELLA FLORA PALESTINESE

Per la rubrica "RecenTips" consigliamo la visione di “Foragers” , documentario di Jumana Manna sulla colonizzazione della fauna in Palestina, recensito da Filippo Scolaro, studente dell'Università Orientale di Napoli. Abbiamo avuto modo di vederlo a marzo 2024 nel corso della rassegna organizzata da "Napoli Monitor", dal titolo “A FUOCO! Decifrare un conflitto”.

Il lungometraggio ci dà l’opportunità di esplorare come le dinamiche coloniali negano l’accessibilità alle popolazioni native delle proprie risorse basilari. Risorse depredate che poi, come si spiega in questa breve recensione, vengono sfruttate per speculazioni agricole.

La pellicola, sottotitolata in inglese, è reperibile su richiesta all’organizzazione di artisti britannica “LUX”.



Sullo sfondo di questo collage si notano delle colline, vegetazione, e un fuoristrada che percorre un sentiero deserto. Al centro, appoggiata al sentiero con il gomito, una donna. Sempre al centro una mano grande quanto l'automobile raccoglie una pianta, altre sono conservate in una busta di palstica. Sempre al centro un uomo che raccoglie altre piante, una donna con lo sguardo non rivolto verso la camera, una cane e una pianta spinosa ancora più grande che sovrasta tutto il resto.


Nel riquadro qui sopra (o a questo link se non lo visualizzi) il trailer del docu-film



"Foragers" è un film-documentario uscito nel 2022, diretto e prodotto da Jumana Manna, artista visiva di origine palestinese nata negli USA.

La pellicola si focalizza su un aspetto peculiare del regime di apartheid israeliano: le restrizioni governative alla raccolta di talune piante selvatiche, molto importanti per la cucina locale tradizionale. Girato tra le alture del Golan, la Galilea e Gerusalemme, il film impiega attori non professionisti, tra cui i genitori della stessa regista.

La telecamera segue le vicende di diverse persone impegnate nella raccolta e nel consumo di alcune specie vegetali (principalmente lo Za’atar e l’Akkoub), e le conseguenti frizioni con l'autorità dei parchi ed il sistema giudiziario israeliano.

Za’atar e ’Akkoub sono entrambe piante native dell’area, storicamente presenti nella cultura culinaria palestinese. Ciononostante Il governo israeliano ha gradualmente proibito per legge la loro raccolta (rispettivamente nel 1977 e 2005).

Le motivazioni ufficiali dell’autorità israeliana circa questo divieto sono di natura conservazionista: il governo sostiene infatti che un’ eccessiva raccolta di queste piante possa portare alla loro estinzione. Dal canto loro alcuni “foragers (letteralmente “persone che cercano cibo”) protagonisti del documentario sostengono invece che la raccolta di queste specie, se effettuata in maniera corretta, possa tradursi in un beneficio per le stesse, rafforzandone la crescita.

Al netto delle motivazioni di natura ambientale risulta inevitabile inserire queste proibizioni nel contesto del regime di occupazione coloniale portato avanti da Israele in Palestina.

Manna, nel corso di una presentazione del suo film alla Columbia University nell’aprile del 2023, si sofferma sul concetto di conservazione nello schema di pensiero occidentale collegandolo direttamente al retaggio coloniale. La regista sottolinea come in tutte le sue espressioni (archivi, musei, banche di semi etc.) esso ricalchi la contingenza di dominio: in prima istanza la volontà di musealizzare qualcosa (pratiche culturali, specie viventi, etc.) presuppone una negazione della sua stessa vitalità, dell’ inevitabile trasformazione che deve attraversare per rispondere alle esigenze di un gruppo umano “vivo”; in secondo luogo nella scelta di cosa e come debba essere preservato, viene spesso operata una <<conservazione gerarchica>> in cui le esigenze del colonizzato non vengono considerate, generando un <<conflitto tra il tessuto sociale e ambientale>> per questi gruppi.

Possiamo quindi intravedere i contorni di un’ ulteriore tentacolo del’ oppressivo regime di apartheid israeliano che, nella repressione di pratiche locali tradizionali, si adopera nel tentativo di disconnettere le popolazioni native dal loro territorio e, più in generale, dalla loro cultura ancestrale. Una volontà, deliberata e sistematica, di eradicare pezzo per pezzo l’identità millenaria della popolazione palestinese che ancora resiste in queste regioni. Una tecnica di espropriazione attuata nei contesti coloniali da sempre.

Un altro aspetto su cui si sofferma l’opera è quello economico: viene infatti mostrato come, proprio a partire dagli anni ‘70, diverse imprese agricole israeliane hanno avviato una redditizia attività di coltivazione e vendita di questi vegetali, ponendosi sempre più come un’alternativa alla “rischiosa” raccolta manuale ed arrivando ad esportare in grandi quantità anche nei paesi arabi circostanti, a prezzi di molto superiori rispetto al valore effettivo del prodotto selvatico. Nonostante ciò sono sempre meno i palestinesi disposti a incorrere nelle pesanti sanzioni connesse alla raccolta e che optano per l’alternativa “legale”.

In conclusione, senza considerare i conflitti di interessi dei commercianti israeliani, e anche ammettendo che la raccolta di queste piante da parte della popolazione nativa possa portare alla loro estinzione, la decisione ultima su come utilizzarle spetterebbe ai nativi, a chi ne dipende per la propria sussistenza, non a chi occupa territori illegalmente, come sancito anche dal diritto internazionale.

Filippo Scolaro


Se avete trovate utile questo post vi consigliamo di leggere anche la recensione di "This Is My Land"documentario che illustra come si insegna la storia in Palestina e in Israele, e "This Land Is Mine", un brevissimo cartone animato che sintetizza millenni di guerre in Palestina.

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