2.12.23

LE “MIGLIORI” PRIGIONI DEL MONDO

LA SERIE “DENTRO LE PRIGIONI PIÙ DURE DEL MONDO”, LE PUNTANTE E LE CARCERI “ATIPICHE”

 

Sullo sfondo una prigione tetra. A sinistra due volti sovrapposti: nella testa di uno ci sono delle sbarre con una rappresentazione di sé stesso all'interno. Nella parte posteriore  un volto femminile con all'interno della sua bocca una persona dietro le sbarre. Campeggia la scritta "Le "migliori" prigioni del mondo", e sotto: "parliamo di carceri atipiche, prendendo spunto dalla serie "Dentro le peggiori prigioni del mondo".




In questo post della rubrica RecenTips ci sentiamo di consigliare la visione di una serie documentaristica (e in particolare di alcune puntate di questa, non tanto quelle della prima stagione), con alcuni tratti dei “reality show” prodotta dalla britannica “Emporium Productions” e targata “Netflix” nonostante alcuni aspetti specificamente narrativi che forse vanno a discapito della sua connotazione principalmente documentaristica, e nonostante il fatto che non siamo dei fan della stra-nota piattaforma di streaming statunitense, riteniamo comunque che la serie "Dentro le prigioni più dure del Mondo" possa essere utilizzata come strumento di analisi dei diversi dispositivi di contenzione fisica e mentale, nonché delle similitudini e delle differenze nel funzionamento delle istituzioni carcerarie, oltre che di quelle politiche e sociali, attorno al globo.

Scopo dichiarato della serie è infatti quello di capire se il carcere riabilita davvero, e se lo fa comprendere come lo fa.

Osservando poi alcune “prigioni modello” e le poche puntate dedicate a queste (perché poche sono le prigioni che adottano il “principio di normalità”), parleremo anche delle cosiddette prospettive “riduzionista” e “abolizionista”, che consistono nel ridurre la contenzione fisica solo a casi estremi, e che in prospettiva potrebbero tradursi nell’abolire completamente l’istituzione carceraria, perlomeno nella maniera in cui è attualmente concepita, e cioè quella che segue la logica dello “sbattere in cella e buttare via la chiave” lasciando “marcire” i detenuti, trattati come animali e non come esseri umani, a prescindere da ciò che li ha portati lì dentro.

 

Oltre a questo, nel secondo paragrafo di questo “mini-saggio” che vi apprestate a leggere (ci vuole un po’ di pazienza per arrivare fino in fondo, ma siamo certi che verrà ripagata! Va letto con calma, come la maggior parte degli approfondimenti che trovate su questa “zine”...) troverete una digressione con una breve critica e analisi sulla “veridicità” di questo peculiare “docu-reality” (come forse è corretto definirlo, o forse è adeguato categorizzarlo come un documentario tout-court?) e, più in generale, sulla spontaneità delle azioni davanti a una telecamera. Chiariamo e ribadiamo da subito: anche ammettendo che sia “tutto preparato”, “tutto finto” (cosa che onestamente non tendiamo a credere), l’aspetto prettamente documentaristico della serie resta comunque molto utile per chi vuole approfondire il funzionamento delle istituzioni detentive (e anche se non vorrete o potrete guardare la serie questo maxi-post vi fornirà dei preziosi spunti di riflessione).

Infine, per chi già conosce questa serie e vuole saperne qualcosa in più, all'interno di questa maxi-recensione e "riassuntazzo" si parla di vari aspetti "filmici" della serie e di alcuni eventi di cronaca connessi, mentre  in calce all’articolo troverete un approfondimento con degli "extra" sul "dietro le quinte" e sulla vita del conduttore, Raphael Rowe, che ha trascorso 12 anni nelle prigioni di massima sicurezza britanniche prima di dimostrare la sua innocenza lottando con il suo corpo, con la sua mente e con la sua penna…

 

Buona lettura!

 

immagine di un volto maschile con all'interno della sua testa il suo stesso volto dietro delle sbarre

 

UN EX-DETENUTO “DENTRO LE PRIGIONI PIÙ  DURE DEL MONDO”

 

La prima delle attualmente sette stagioni della serie-documentario che entra con gli occhi delle telecamere “Dentro le prigioni più dure del Mondo” (titolo originale “Inside the World’s Toughest Prisons”), per un totale di 27 episodi e altrettante carceri visitate, è andata in onda a partire dal 2016 e a condurla era Paul Connolly, giornalista investigativo irlandese ed esperto di crimine. Secondo chi scrive la pecca dei primi quattro episodi risiede purtroppo nel tono molto più sensazionalistico e naive del conduttore.

 

A partire dalla seconda stagione il presentatore è Raphael Rowe, giornalista britannico che ha speso 12 anni da detenuto per un omicidio e delle rapine che non aveva commesso: da innocente e da condannato originariamente all’ergastolo aveva intrapreso un percorso di studio per corrispondenza che lo ha reso un giornalista di professione, pur non avendolo mai terminato. Lo aveva iniziato proprio per combattere con carta e penna il sistema che lo aveva ingiustamente ingabbiato, prima da ritornare a essere libero e completamente riabilitato. Il punto di vista di una persona che ha speso più di un decennio da recluso rappresenta un punto di forza in favore del “realismo” della serie, sia perché lo facilita nell’entrare in empatia e nel comunicare con i ristretti intervistati (palesando sin da subito il suo passato, di solito), ma soprattutto perché la sua prospettiva è quella di una persona che ha provato sulla sua pelle la prigionia, permettendogli di spiegare meglio le dinamiche documentate, oltre a fare raffronti con la sua esperienza specifica e a interagire con detenuti e guardie in una maniera molto meno forzata, meno distaccata e più umana del precedente conduttore. Il suo vissuto risulta quindi fondamentale, dato che in ogni puntata il presentatore veste direttamente i panni di un carcerato, vivendo come uno di questi, seppure in maniera fittizia, e rivivendo i momenti della sua “vera” prigionia spesa in regime di alta sicurezza.

 

 

IL “COPIONE” DELLE VARIE PUNTATE, A METÀ STRADA TRA IL DOCUMENTARIO E IL “REALITY-SHOW”: È TUTTO VERO?!

 




Lo schema narrativo di ogni puntata è pressoché identico: il conduttore descrive a grandi linee la struttura carceraria, con svariate inquadrature dall'alto, mentre viene trasportato ammanettato in un veicolo della polizia. Entra in carcere, viene denudato e perquisito a fondo, fotografando il momento in cui si perde la propria identità per diventare “un numero”, per poi essere assegnato a uno specifico braccio e quindi a una cella, e così iniziando la prima giornata da recluso e venendo istruito sulle regole dello spazio, sia scritte che non. Spesso i suoi compagni “temporanei” di detenzione sembrano eccitati e quasi istigati dalla presenza delle telecamere (o forse dal fatto che non hanno nulla o molto poco da perdere) a comportarsi in maniera sfacciatamente autoritaria e intimidatoria, in pratica da “bulli”, arrivando perfino a minacciarlo apertamente, come avviene per esempio nella puntata della “Prigione dei Narcos” in Colombia, quando gli viene imposto un “pizzo” per usufruire del suo letto intimandogli che <<se vai a parlare dalle guardie ti attaccheremo con un coltello>>, o quando in Lesotho, dove ci sono moltissimi detenuti per violenze sessuali, viene minacciato di dover diventare <<la moglie da prigione>> di qualcuno, e cioè di essere violentato. In altre occasioni invece alcuni prigionieri diventerebbero gelosi di quelli che vengono intervistati, e per questo in un fuori onda lui e la sua crew sarebbero stati attaccati da un prigioniero che si era offerto, invano, per un’intervista, con il lancio di due palle da biliardo, e rompendo anche una telecamera.

 

Altre volte i compagni di cella, oltre a fornire confidenze sui motivi per cui sono finiti dietro le sbarre, arrivano anche a fare ammissioni su fatti che potrebbero creare loro ulteriori problemi, come quando un ristretto del carcere di Pilsen in Repubblica Ceca, detto “Il carcere della metanfetamina”, pur essendo stato assegnato a una speciale sezione in cui ci sono una serie di benefici a patto di non usare droghe (libertà condizionale inclusa) ammette di non riuscire a smettere di drogarsi anche in carcere: la presenza delle droghe dentro le quattro mura è un “segreto di Pulcinella” vigente in tutto il Mondo, ma che pochi ammetterebbero davanti a una telecamera. Perfino una guardia, nel “carcere delle evasioni” in Papa Nuova Guinea, minaccia e ammette davanti al personaggio-detenuto e giornalista Rowe che lo picchierà, <<anche se contro la legge>>, qualora non dovesse obbedire.

 

Davanti a queste scene sorge spontaneamente qualche dubbio sull’autenticità di queste dichiarazioni: è possibile ipotizzare “complottisticamente” che alcuni dei ristretti agiscano da “undercover” o “informatori” all’interno delle prigioni, oppure che l’istituzione abbia scelto sapientemente l’assegnazione del giornalista a determinati compagni di cella per usarlo come uno strumento di indagine e controllo, anche se Rowe afferma che tra le condizioni che negoziano con le autorità le condizioni per filmare c’è quella di non avere particolari limiti sulle persone da intervistare e sui luoghi da visitare, fatta eccezione per eventuali ragioni di sicurezza della struttura stessa... Oppure più semplicemente l’ingenuità, la spontaneità, la rassegnazione dei ristretti, o ancora la loro voglia di auto-spettacolarizzazione sono dei sentimenti “non preparati” e sostanzialmente autentici, specialmente nei casi in cui delle persone non hanno la possibilità di raccontare il proprio vissuto, specialmente quando non ci sono psicologi e operatori ad ascoltarti... Resta il fatto che sapere di essere ripresi, come in tutti i reality-show e in tutte le interviste “normali”, ha sicuramente una qualche influenza sul comportamento di chi si trova davanti all’obiettivo, e questo aspetto va forse a discapito della spontaneità del racconto, che comunque risulta un mezzo di conoscenza del funzionamento delle istituzioni totali, a prescindere dalla veridicità di quello che dicono gli “attori” o i “partecipanti” di questo surreale reality-documentario. Il presentatore inoltre ha affermato che i detenuti sanno di essere ripresi per un documentario, ma se non gli viene chiesto esplicitamente o se non hanno mai visto in tv lo show, tendono a pensare che lui è un nuovo detenuto: <<noi non li inganniamo ma a volte gli lasciamo credere che io sono un detenuto che viene filmato>> . Quando invece lo conoscono o quando la troupe, che entra una settimana prima di lui per tastare il terreno e per pianificare una serie di misure di sicurezza, <<li avvisano che sono un giornalista, ma non sempre>>. È allora che il suo atteggiamento (linguaggio del corpo e storia personale inclusa) realizzerebbe una sorta di magia scenica per cui viene visto effettivamente come un detenuto e non come un “personaggio-detenuto”. E ovviamente ha anche affermato che non ci sono dei discorsi “preparati” prima, fatta eccezione per l’invito a trattarlo come se fosse un prigioniero, e che quindi la dinamica del format è sostanzialmente <<organica>>.

 

Gli aspetti tipici e i tratti del reality show, che si materializzano quando il conduttore “recita” la parte del carcerato insieme a chi lo è davvero, potrebbero dunque contrastare con la struttura più documentaristica della narrazione, o tuttavia potrebbero contribuire a fornire una riproduzione molto fedele della vita concreta di quelle strutture e, come sostiene lui, vivendo direttamente a contatto con loro e come loro, riesce a farli aprire molto emotivamente. Per essere certi del fatto che questo “metodo” sia tra i più realistici possibili, un ipotetico studioso di qualsivoglia materia o disciplina che si appresti ad analizzare quelle determinate prigioni e la maniera in cui queste vengono raccontate, e quindi che assuma una prospettiva antropologica, cinematografica o storica, così come gli spettatori dello “show” se non addirittura degli investigatori, dovrebbero scontare direttamente una condanna lì dentro per essere certi della sua validità... O magari, spingendoci molto in là con l’immaginazione riguardo a un ipotetico metodo di analisi che preservi al massimo la spontaneità e dunque la “verità” delle azioni in un contesto come quello carcerario, si potrebbe speculare sulla possibilità di piazzare delle telecamere nascoste senza limitarsi allo strumento di analisi e di racconto rappresentato dall’intervista “classica” (per chi segue le cronache giudiziarie, la “confessione” del principe Vittorio Emanuele ricorderà qualcosa in merito) o dall’intervista più “empatica” e ibridata con un reality-show... Insomma, sarebbe comunque difficile entrare in un carcere con delle telecamere per registrare le condizioni di vita dei detenuti senza che questi ne fossero a conoscenza per catturare le loro azioni e al contempo preservandone la spontaneità “assoluta”, anche solo per i problemi legali che questo comporterebbe, a cominciare dal rispetto della privacy dei ristretti.

 

Ovviamente esistono altri tentativi di raccontare e documentare la vita nelle carceri senza vestire direttamente le uniformi dei ristretti tramite lo strumento filmico-documentaristico... Senza rivolgersi alle innumerevoli serie-concorrenti prodotte negli USA, in Italia molti esperimenti e documentazioni del genere sono disponibili sul sito della RAI: c’è il documentario “Caine” ambientato nei penitenziari femminili di Pozzuoli e Fuorni-Salerno; oppure la miniserie in due puntate “Fratelli e sorelle, Storie di Carcere” che attraversa le carceri italiane lungo tutto lo stivale; e ancora la prima puntata della miniserie “Il Prezzo, Indagine sulla Mafia” e “Robinù” (quest’ultimo non più disponibile su Raiplay) che entrano in vari istituti di pena per minorenni.

 

Altri elementi ricorrenti nella struttura della narrazione che, stando a quanto dichiarato, si svolge in una settimana e che in alcune puntate includerebbe il “pernottamento” con tanto di telecamera notturna e inquadrature mentre si dorme, oltre alle routine finalizzate a “impegnare” la vita all’interno dell’istituzione totale per antonomasia, ci sono le visite alle celle in cui vige il regime di isolamento, il confronto con alcuni detenuti “speciali” che si distinguono per l’efferatezza di delitti commessi, nonché lo scambio di ruoli quando il conduttore si toglie i panni da detenuto per vestire quelli di una guardia. Nella conclusione il conduttore intervista il direttore o la direttrice del carcere, per poi passare alle considerazioni finali sugli elementi che, a torto o a ragione, vengono ritenuti gli aspetti positivi o le criticità del funzionamento delle specifiche prigioni appena visitate.

 

Nel descrivere le carceri tra le più “infami” del pianeta, si mettono in evidenza le specificità delle varie strutture, ma emergono anche le comunanze dei vari dispositivi di controllo delle vite dei ristretti, oltre alle gravi problematiche che si traducono in palesi violazioni dei diritti umani, e che spaziano dalla mancanza di cibo al sovraffollamento che le fa assomigliare a dei veri e propri “allevamenti intensivi” per umani, delle “discariche sociali” e “scuole di criminalità” non in grado di fornire alcuna speranza di miglioramento a chi vi è rinchiuso, alle future vittime e alla società intera. In alcune prigioni le persone vengono “normalmente” rinchiuse per 23 ore al giorno, in altre la violenza è incontenibile ed è spesso riconducibile all’appartenenza “clanica” a gang in competizione dentro e fuori le mura, in altre ancora la struttura è controllata all’interno dai detenuti, talvolta addirittura armati dalla stessa istituzione per mantenere “l’ordine” nei diversi bracci o blocchi, mentre le guardie carcerarie controllano soltanto il perimetro esterno. 

Molti spazi sono claustrofobicamente sovraffollati e si è costretti a dormire letteralmente attaccati l’un l’altro, a meno che non ci si possa permettere un posto letto garantito dal gruppo o dal “capo” cui è affidata la gestione di una sezione. Altre volte si possono osservare delle “città dentro una città”, dove si scava in delle discariche a cielo aperto alla ricerca di qualcosa da vendere o barattare, e mentre mancano acqua pulita e basilari attrezzature per cucinare come dei fornelli, le droghe invece abbondano e sono consumate apertamente, mentre all’opposto in altre strutture si arriva perfino a vietare il consumo di sigarette.

 

Oltre alle prigioni di massima sicurezza, a quelle dove l’istituzione controlla meticolosamente e in maniera invasiva ogni aspetto della vita dei detenuti, e quelle in cui sostanzialmente non viene proposta alcuna attività durante la giornata, ci sono anche delle prigioni “modello”: sono quelle che più si allontano dal paradigma dello “sbattere in cella è buttare via la chiave”, un ritornello che sembra andare per la maggiore nella nostra società, in barba agli scopi rieducativi che sarebbero previsti dalle convenzioni internazionali e anche dalla nostra costituzione oltre che dal buon senso, e sono per l’appunto queste puntate e le rispettive strutture che vogliamo segnalarvi nello specifico.

 

immagine di una prigione tetra

LE MIGLIORI TRA LE PRIGIONI PEGGIORI: LE ISTITUZIONI CARCERARIE E LE PUNTATE “ATIPICHE”

 

Nei modelli di istituzione carceraria più vicini all’orizzonte “abolizionista” e “riduzionista” (termini che abbiamo già trattato in un precedente post e che chiariamo ulteriormente nella conclusione di quest’articolo) l’afflittività della pena non consiste in un regime di detenzione “duro”, nel creare delle prigioni punitive che dovrebbero fungere da deterrente verso una serie di azioni ma che di fatto, secondo l’opinione di chi scrive, non fanno altro che peggiorare il carattere di chi vi entra, aumentando il tasso di recidiva e mettendo in pericolo nuove vittime, oltre a vittimizzare le persone stesse sottoposte a trattamenti disumani e degradanti, che molto spesso se non quasi sempre hanno una storia di marginalità e disagio alle spalle, cosa che se non le giustifica quantomeno dovrebbe aiutarci a comprendere i “perché” alla base di una serie di azioni, di quegli atti considerati dei reati in un dato periodo e in una specifica area geografica.

L’unica “punizione” dovrebbe essere quella di essere ristretti in un posto, di non poter uscire liberamente da esso, ma in quel posto dovrebbero esserci tantissime opportunità per intraprendere dei percorsi diversi, si dovrebbero offrire delle “alternative” che assecondino l’affermazione della propria personalità, garantendo al contempo delle possibilità di sostenibilità socio-economica una volta che si esce fuori

In questo senso esistono delle prigioni “modello”, un modello che magari non è utopico, ma perlomeno rispetta una serie di criteri che dovrebbero essere garantiti dalle democrazie liberali: l’unica “punizione” consiste dunque in una sorta di “esilio” dal resto della società per trattenere in sicurezza qualcuno che si è macchiato di crimini molto gravi e violenti come l’omicidio o lo stupro, e che si presuppone costituisca ancora un pericolo, dato che per tutta un’altra serie di condotte (come quelle sanzionate dalle politiche sugli stupefacenti che portano all’incirca il 30% di detenuti dietro le sbarre in Italia, mentre globalmente siamo intorno al 20%) chi scrive ritiene che il carcere sia eccessivo e che ci siano altre forme di riparazione dei danni effettuati che tengano conto anche delle vittime, le grandi dimenticate dell’attuale sistema giudiziario “retributivo” (anche su questo altro termine ci ritorniamo nella conclusione e ne abbiamo già parlato tra queste righe). Nonostante questa sorta di “esilio” (che era anche una delle punizioni più in voga prima dell’affermarsi del moderno sistema carcerario) quelle persone rimangono degli esseri umani, e dovrebbero quindi avere gli stessi diritti e le stesse possibilità che hanno gli altri all’infuori delle mura carcerarie e che non costituiscono un pericolo imminente o concreto per il resto della popolazione.

 

È questa la logica che troviamo nelle “puntate” e nelle rispettive carceri “atipiche”, riassumibile nell’espressione del “principio di normalità”: rendere la vita in prigione il più simile possibile a quella del mondo esterno e preparare il rientro dei ristretti in esso, trattandoli in maniera umana, perché se verranno trattati come animali cominceranno ad agire come tali (considerazioni de-umanizzanti e anti-speciste a parte).

 

Norvegia, La prigione perfetta?” è il titolo della 12esima puntata (la quarta e ultima della terza stagione) ed è ambientata nella prigione di massima sicurezza di “Halden”. In Norvegia attualmente il massimo della pena per i più gravi reati non supera i 21 anni, non esiste dunque in quell’ordinamento la condanna capitale alla “morte perpetua” dell’ergastolo e da vari decenni, come in altri paesi nord-europei, il sistema giudiziario si limita appunto a “esiliare” i condannati, senza infliggere ulteriori tormenti. C’è però un eccezione, quella del terrorista neonazista Breivik che nel 2011 uccise decine di persone colpevoli, secondo lui, di essere fautrici del multiculturalismo: dopo i due attentati senza precedenti nella storia del paese scandinavo l’ordinamento è stato modificato, prevedendo la possibilità di estendere la detenzione di persone pericolose oltre il periodo dei 21 anni, qualora queste rappresentino ancora un pericolo per la società.

Ritornando alla puntata sul carcere di Halden, il conduttore spiega che l’approccio principalmente riabilitativo, opposto a quello punitivo, scatena comunque polemiche e controversie per la sua presunta eccessiva “morbidezza” (in realtà “pragmatismo” secondo molti norvegesi), ma i dati sul tasso di recidiva (e cioè delle persone che uscite dal carcere commettono di nuovo crimini) suggeriscono che lo “sbattere dentro e buttare via la chiave” lasciando i detenuti “a marcire in cella” non è efficace: nella puntata si spiega che in Norvegia era tra i più bassi del globo e si aggirava intorno al 30% (fonti più recenti parlano del 20% nei primi 5 anni), mentre in Italia siamo quasi al 70%, lo stesso tasso della Norvegia negli anni ‘80 e leggermente più basso di quello attuale negli Stati Uniti. 

La spesa del modello riabilitativo è invece maggiore: nel documentario si parla di circa 120mila dollari all’anno per ogni detenuto, la metà di quello che si spende annualmente per ogni persona incarcerata in Italia, anche se per interpretare meglio questi dati bisognerebbe raffrontarli al costo della vita nei diversi paesi, e bisognerebbe analizzare come vengono spesi questi soldi nel dettaglio per comprendere se vengono investiti con cura e soprattutto per comprendere chi guadagna maggiormente dal “business delle carceri”... Inoltre bisogna includere nel conto i costi sociali ed economici derivanti dalla commissione di nuovi reati, inclusi quelli giudiziari e di una nuova detenzione, che tornano ad alimentare i profitti che avvantaggiano solo quelli che possono ottenere un guadagno economico dal “business”, sicuramente una minoranza di aziende e persone più fortunate dei ristretti.

 

Senza “spoilerare” troppo già dell’inizio il presentatore, che di prigioni ne ha visitate molte, avverte qualcosa di differente: viene accolto con una stretta di mano e con rispetto, e non percepisce il sentimento di costante contrasto con le guardie, che non sono armate e condividono gli spazi interagendo con loro, applicando una strategia di “sicurezza dinamica” che sono riluttanti a definire “sorveglianza”. Le stesse guardie vengono formate per un periodo di due anni studiando diverse materie, tra cui la psicologia e la gestione dei conflitti. Le attività sono svariate, dallo sport alla musica passando per un’officina dove si riparano automobili e uno studio di registrazione musicale; le celle sono singole con un bagno privato, molto pulite (<<meglio di molti hotel in cui ho alloggiato>> confessa Rowe), e viene offerto un pasto al giorno, mentre altri cibi possono essere cucinati in uno spazio comune ed esiste perfino un vero e proprio mini-market all’interno, dove si fa la spesa con una carta che viene ricaricata con i compensi percepiti per i lavori all’interno della struttura, che non presenta sbarre ma solo porte blindate. I detenuti sono incentivati a uscire dalle proprie celle per lavorare o per partecipare a dei corsi, altrimenti vi resterebbero rinchiusi per svariate ore e difficilmente qualcuno vorrebbe restare a non fare niente. <<Entrare in una cella del genere per persone che hanno sempre avuto una vita di merda, senza mai avere gioie, ed essere trattati in questa maniera mette alla prova tutto quello che si era imparato>>, e per questo Rowe pensa che per molti versi la condanna sia ancora più dura, perché viene a mancare l’elemento conflittuale che connota la vita di molti, un elemento che in un certo senso giustifica lo stato di “guerra” tra il detenuto e il resto della società, e che nelle carceri si traduce in un conflitto perenne con le guardie, con altri detenuti e operatori, un conflitto doloroso per tutti e difficilmente gestibile. Questo approccio “soft” tende a far comportare i detenuti in maniera diversa da quello che facevano precedentemente fuori, non li porta a dover obbedire cecamente o “combattere”, cosa che si traduce in ulteriore cattiveria, trattandoli da esseri umani con una dignità, a prescindere da quanto grave sia stata la loro condotta, ed è questa la chiave del successo della riabilitazione insieme al rendere il tempo dietro le sbarre in qualche maniera utile, imparando qualcosa dalla pena cui si è sottoposti, capendo meglio come gestire la propria vita. La prigione di Halden <<non è sicuramente quella più dura di tutte, ma ha il compito più duro di tutte>>, e cioè quello di focalizzarsi completamente sulla riabilitazione e non sul rinchiudere e punire.

 

L’approccio del penitenziario norvegese di Halden è simile a quello tedesco del “Carcere terapeutico” di Schwalmstadt in Germania (la 14esima puntata e seconda della quarta stagione): alla terapia "classica" (e troppo spesso abusata) con farmaci vengono abbinate delle intense sedute con gli psicologi, che prevedono per esempio l’affrontare apertamente e davanti ad altri l’entità delle proprie condotte, ossia degli atti di violenza fisica che arrivano fino all’omicidio, di solito commessi per futili motivi.

Un detenuto, condannato per narcotraffico e per un’aggressione violenta, in un primo momento ammette all’intervistatore di aver intrapreso la terapia psicologica per “aggirare” il sistema e ottenere un rilascio anticipato: dei ragazzi in una piscina stavano fumando degli spinelli davanti ai suoi figli, e pare che questi lo abbiano vagamente intimidito scatenando la sua reazione, e quindi colpendone uno con un pugno e un altro con un minifrigo. In un secondo momento mentre gli psicologi e gli altri detenuti gli fanno notare, durante un tipo di terapia di gruppo noto come “la sedia che scotta”, che avrebbe potuto evitare l’escalation di violenza allontanandosi insieme a moglie e bambini, ma lui non sembra convinto di questo ma anzi, sostiene di essere la vera vittima, mettendosi perfino a ridere quando gli fanno notare che le effettive vittime hanno dovuto mangiare per mesi tramite una cannuccia a causa dei danni arrecati alla loro mandibola. Alla fine, dopo l’incontro che sembra comunque averlo provato, ammette anche che parlarne insieme ad altri detenuti, e non solo con un singolo assistente sociale o psicologo, lo conduce a riflettere in maniera diversa.

 

Rowe spiega di avere dei seri dubbi sul fatto che l’approccio della terapia intensiva possa produrre dei risultati ottimali, e anche i numeri suggeriscono che il successo sia solo parziale, dato che il tasso recidiva è di un terzo, cioè uno su tre torna a commettere reati, <<ma comunque ne vale la pena. Molti non usciranno mai da qui, ma per altri questo posto rappresenta la migliore “seconda possibilità” che può essere loro offerta>>. I dubbi più forti però emergono quanto intervista Spencer, un detenuto corpulento sulla sessantina che rappresenta uno dei “casi limite” per cui è oggettivamente difficile pensare a un’alternativa alla detenzione, per sua stessa ammissione: è in carcere da diverse decadi, da quando esisteva la Germania dell’Est, originariamente condannato per un’aggressione ed è <<il prodotto della punizione, anziché della terapia>> come fa notare Rowe, una punizione fatta di torture brutali, come metterlo in isolamento in una stanza con l’acqua letteralmente alla gola, dove da immerso poteva respirare solo tramite il naso. <<Ho sessant’anni e ragiono in modo diverso, ma è troppo tardi perché non so come si vive la fuori>> spiega con molta franchezza, e sono molte le persone che in effetti hanno paura di ritornare nel mondo “normale”, che hanno ancora meno strumenti per vivere una vita degna una volta uscite, persone per le quali la vita carceraria fa parte della “normalità” se non addirittura una parte del loro "lavoro", anche se il caso di Spencer è molto particolare...

 

Nel 19esimo episodio (terzo e ultimo della quinta stagione) Rowe arriva nel “Carcere tra i ghiacci” di Nuuk, capitale della Groenlandia. Quando la troupe di Rowe era entrata nella prigione questa era stata inaugurata da pochi mesi. Anche qui ritroviamo l’approccio scandinavo improntato al “principio di normalità”, e declinato secondo il modello danese. Tuttavia le criticità, almeno all’epoca, erano molte perché sia i detenuti che le guardie carcerarie mancavano degli strumenti metodologici e della formazione che doveva essere fornita dal Regno di Danimarca, dove originariamente venivano inviati i detenuti nel regime di massima sicurezza e da cui molti erano stati appena trasferiti, ritornando più vicini alle loro famiglie e affetti che, non bisogna mai dimenticare, anche loro vivono la carcerazione, seppur dal “di fuori”. 

La Danimarca, come si fa notare nell’introduzione dell’episodio e come emerge anche dalla storia personale di un ristretto, ha lasciato una pesante eredità di violenza coloniale con un tasso di omicidi e stupri altissimo sull’isola più grande del pianeta e con solo quasi 60mila abitanti, un posto con una densità abitativa bassissima e dove praticamente si conoscono quasi tutti. Molti detenuti la considerano “come un hotel”, <<ma un posto del genere>> reso molto confortevole anche dall’architettura <<può fotterti mentalmente>> proprio per quella disarmante comodità, e anche perché a partire dalle 9 di sera non sei libero di uscire dalla tua comoda cella, un ricordo costante del fatto che se anche ti trovi in un posto umano e bello da vedere sei comunque sottomesso, e non puoi non riflettere su quello che stai perdendo.

 

Spostandoci dallo scenario nordico a quello Mediterraneo, troviamo lo stesso approccio “progressista” alla detenzione in un contesto legale e culturale radicalmente diverso, quello del “Carcere utopico” di Nicosia, a Cipro, mostrato nella 21esima puntata (la seconda della sesta stagione). La struttura era originariamente nota per la brutalità delle guardie, come ammettono alcune di esse quando vengono intervistate, oltre ai detenuti che hanno subito abusi e violenze, un contesto in cui nemmeno gli ispettori venivano fatti entrare e che ha portato al suicidio di 6 detenuti in meno di un anno. Una di queste, tra le circa trecento che sono rimaste nella struttura insieme a molti detenuti dopo il cambio di regime e approccio all’interno della prigione, viene intervistata al margine di un corso per immobilizzare eventuali ristretti riottosi senza arrecare danni fisici, e ammette che <<alcuni prigionieri venivano trattati come degli schiavi delle guardie>> e si riteneva giusto picchiarli e punirli per ogni minima sciocchezza perché quello doveva essere lo scopo del carcere. L’approccio meramente punitivo punta quindi a rendere il carcere come un inferno, un posto in cui non ci si vuole tornare, ma il risultato raggiunto non è altro che l’innesco di una spirale di violenza e crimine. Il nuovo approccio informale e rilassato del carcere cipriota si basa sul già visto “principio della normalità”, con svariate attività educative (inclusi gli studi universitari), lavorative e per il tempo libero, e i risultati parlano da sé, anche per le vittime e familiari che nutrono un comprensibile ma non legittimo desiderio di vendetta, vittime e affetti che sono dimenticate dall’attuale paradigma retributivo eccetto che per un risarcimento economico, quando possibile: il tasso di recidiva in quel carcere è sceso dal 50% al 15%.


La nuova strategia riabilitativa veniva intrapresa dalla Direttrice ed esperta in diritti umani che si è insediata nel 2014, Anna Aristotelous, che aveva anche partecipato alla stesura delle riforme governative per il sistema carcerario prima di metterle in pratica direttamente. Inizialmente il giornalista britannico è molto scettico nei suoi confronti, soprattutto quando i detenuti la accolgono cantando, intonando dei cori in onore della “regina delle prigioni”. Andando avanti nel suo viaggio all’interno del carcere cipriota si rende però conto come quello che sembra una sorta di “culto” della direttrice progressista e con idee molto radicali rispetto alla media, è invece sincero apprezzamento. La maggioranza dei detenuti che la riceveva a suon di festeggiamenti e cori proveniva dall’Africa ed era stata condannata in base allo status di “clandestino”, ossia per aver varcato un confine senza autorizzazione. In quel momento erano circa 300 i richiedenti asilo su un totale di 800 detenuti, e fortunatamente la legge è recentemente cambiata, trattando il problema dell’ingresso senza i documenti come una questione amministrativa e non penale, come la stessa direttrice auspicava. Oltre ai momenti di socialità con le detenute del braccio femminile come il bingo o la danza, ai matrimoni celebrati all’interno e al giardino con una splendida fontana da cui si sentiva la musica, il giornalista britannico resta colpito da un aspetto che abbiamo già affrontato: non ha “avvertito” segnali dell’uso di droghe, le sostanze illegali che con più o meno facilità trovano sempre una maniera per entrare dietro le sbarre. Qualcosa però, circa un anno dopo la messa in onda dell’episodio, sembra essere andato storto, stando a quanto si può leggere tra le cronache dei giornali locali: un poliziotto avrebbe provato, con l’aiuto di un narcotrafficante e detenuto, a cercare o a produrre dei video che potessero mettere in imbarazzo lei e la sua vice facendo leva sulle loro vite personali, oltre ad altri filmati girati dall’interno delle mura che avrebbero dovuto mostrare che le cose andavano molto male e la prigione sfuggiva al suo controllo, mettendo il suo operato in cattiva luce proprio dopo aver ricevuto una grande attenzione per la visita di Rowe, cosa che evidentemente non sarebbe stata gradita ad alcuni. Il telefono con cui l’ergastolano narcotrafficante comunicava con il poliziotto sarebbe stato scoperto e confiscato grazie all’aiuto di altri ristretti dopo un’indagine interna al carcere. Dopo questi fatti è arrivato l’annuncio secondo cui dovrebbe lasciare a breve la guida della prigione per dedicarsi a un dipartimento che si occupa del problema delle persone scomparse sull’isola o forse per essere assegnata all’ufficio del Presidente della Repubblica.

 

Ritorniamo di nuovo nella regione scandinava per l’ultima puntata dedicata a una prigione “alternativa”, la 24esima (primo episodio della settima stagione), ambientata nel “Carcere della libera scelta” di Kylmäkoski in Finlandia: <<l’elemento chiave del sistema finlandese consiste nella crescita personale e nella riabilitazione, ma i programmi riabilitativi non sono obbligatori>> . Dalla possibilità di intraprenderli o meno deriva per l’appunto il titolo della puntata, e cioè dal fatto che la scelta di cambiare deve partire dall’individuo. All’inizio il giornalista spiega che <<i finlandesi hanno un approccio molto progressista per quanto riguarda il sistema penale>> e per questo la maggioranza dei condannati scontano la pena con lavori socialmente utili o confinati in delle strutture detentive “aperte”, una modalità di esecuzione della pena che esiste anche in Italia. Chi invece ha commesso dei reati gravi ed è considerato molto pericoloso viene ristretto in strutture come quella visitata.

 

L'atmosfera della puntata oscilla tra un ambiente rilassato e un’inquietudine “gangsta rap”, pervaso da una sorta di immobilismo e dominato da una cultura decisamente machista e con il timore che all’interno delle celle, quando non ci sono gli occhi delle telecamere di sicurezza, i detenuti più forti e violenti prendano il sopravvento, cosa che è accaduta durante la visita del cronista, stando al suo racconto e alla testimonianza di uno dei ristretti più problematici, protagonista di una scazzottata con un nuovo arrivato, “reo” di aver fatto la spia in passato su una questione di droga. Nessuna guardia ha visto niente, e quindi non ci sono state conseguenze.


Protagonista indiscusso di quello specifico episodio di violenza e della puntata in generale è l’eccentrico rapper Tony (aka “C8 Superman”) che ci tiene a mostrare al cronista anche uno dei suoi video musicali.

Si trova lì dentro per un rapimento: dopo aver sequestrato una persona l’ha legata e gli ha rotto le ossa con un martello, poi lo ha trafitto con una freccia, <<ma era per lo più un tipo di violenza mentale, qualcosa legato ad asservimento e sottomissione>>, dice mentre non sembra particolarmente pentito. Più schivo e riservato il suo amico e complice Olli, che poco dopo la messa in onda e la sua scarcerazione è stato ucciso: insieme a lui pianificava di fare musica sperando di non ritornare più in cella.

 

L’abuso di droghe sembra un problema molto serio all’interno, quello del “subutex” in particolare, un farmaco simile al metadone che però viene contrabbandato illegalmente, trasferendo così anche molto potere “bio-politico” ed economico a chi controlla il traffico, in maniera molto simile a quello che avviene fuori. La compagna di uno dei detenuti, autorizzato ad avere visite intime con lei, era stata avvicinata all’esterno per essere convinta a portare di nascosto delle sostanze all’interno del penitenziario. Lui si è ribellato e per questo si è fatto spostare nell’ “ala delle lucertole”, il settore dove sono ristretti sex-offenders e “spie” per evitare rappresaglie dal resto della popolazione carceraria.

 

Molti scelgono di non fare nessuna delle tante attività offerte e restano chiusi a fare altro, come tatuarsi con un macchinario improvvisato usando un joystick (sì, se ve lo state chiedendo è permesso tenere un console per videogiochi, così come in altre carceri). Fortunatamente c’è anche chi riesce a beneficiare delle attività riabilitative, quando nasce spontaneamente la voglia di intraprenderle.

 

Hanna, consulente per chi si è macchiato di azioni violente, spiega che oltre a un uso problematico di droghe e alcol quasi sempre questo genere di persone ha alle spalle <<delle vite molto dure e complesse, con dei problemi familiari. Spesso sono cresciuti in affido o in istituti, subendo maltrattamenti da piccoli. Nessuno vive delle vite regolari e poi di colpo decide di picchiare qualcuno iniziando a fare crimini>>, oltre a delle peculiarità della società e del sistema scolastico finlandese che tende a considerare <<distruttivo e problematico>> qualunque comportamento che non sia particolarmente calmo e composto.

 

Secondo Rowe l’approccio della libera scelta non sembra funzionare perché le persone che sono state imprigionate <<potrebbero essere spronate a intraprendere un percorso diverso, magari indicandoglielo, ma non mi sembra che ciò avvenga>>. E questo purtroppo sembra confermato anche dai dati sulla recidiva, <<il 57% in 5 anni per i delinquenti violenti>> nell’intero paese. Invece il direttore della prigione è completamente in linea con il principio della libera scelta: <<se si vuole cambiare davvero, il nostro sistema penitenziario fornisce tutti gli strumenti necessari (…) i nostri valori sono il rispetto della dignità degli esseri umani, giustizia e fiducia nella capacità di svilupparsi e maturare>> oltre a una motivazione sincera e forte, ammettendo però che gli servirebbero pure più consulenti come Hanna, insieme ai percorsi di giustizia riparativa.

 
VERSO L’ABOLIZIONISMO COME ORIZZONTE IDEALE, E PER IL RIDUZIONISMO DA SUBITO!

 


Di questa serie in realtà ne avevamo già parlato in un altro post di filosofia spicciola, intitolato “Come abolire il carcere partendo dalle politiche sugli stupefacenti”. Chi scrive pensa che dobbiamo avvicinarci il più possibile a una società in cui le carceri non esistano affatto, ossia la cosiddetta prospettiva “abolizionista”, che sostiene quindi l’abolizione completa della contenzione fisica (contenzione che in realtà è anche psicologica). Per realizzare questa impresa le condizioni socio-economiche, che portano la stragrande maggioranze di persone dentro una cella, vanno stravolte e rivoluzionate. Quando si pensa ad atti come le violenze sessuali e gli omicidi è molto difficile immaginare degli strumenti, diversi da una qualsiasi forma di contenzione, che separino chi li ha compiuti dal resto della società al fine di proteggere potenziali vittime da altri omicidi e violenze carnali. Per questo, non vivendo ancora in una società “utopica”, è davvero difficile immaginare, per quei tipi di crimini violenti e oggettivamente gravissimi, la fine di qualsivoglia dispositivo di restrizione fisica “a protezione” di potenziali vittime, restrizioni che però non dovrebbero trasformarsi in punizioni "medioevali" o vendette, ma finalizzate solo a essere una protezione da pericoli concreti, non attuabile diversamente. Per questo ritengo che, sin da subito, dovremmo cominciare a essere “riduzionisti” ispirandoci a paradigmi alternativi a quello “retributivo”, come quello della “giustizia riparativa” che non lascia a loro stesse le vittime, mettendole in comunicazione con chi ha causato loro un danno e con il resto della società, per cercare di salvare il salvabile delle complesse e dolorose relazioni umane, se non si può riparare quel danno del tutto (e vi invitiamo a leggere questo post dove spieghiamo brevemente in cosa consiste il modello “riparativo” e come può affiancare, e forse perfino sostituire, quello “riabilitativo” e “retributivo”).

 

Quindi, in sostanza, la posizione di chi ha scritto questo post è così riassumibile: avere l’abolizionismo come orizzonte ideale, ma cominciare ad applicare da subito strategie e politiche riduzioniste che tendano il più possibile e siano finalizzate all’abolizione dell’istituzione carceraria e di tutte le forme di contenzione fisica, mentale e psico-fisica: forse potrà sembrare qualcosa di utopico, di irraggiungibile, ma comunque possiamo sforzarci di avvicinarci sempre di più a quell'orizzonte.

 

 

Amleto Reclusen

 

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Vi lasciamo con una serie di contenuti e video, (purtroppo disponibili solo in inglese) sulla vita del giornalista britannico e sul “dietro le quinte” dello show-documentario che abbiamo rintracciato online.





In questa intervista di tre anni fa al canale "Happy Hour Podcast", oltre a raccontare della sua giovinezza complicata ha spiegato i motivi specifici della sua ingiusta carcerazione: sostanzialmente gli investigatori in un primo momento erano certi di aver arrestato il colpevole di quei crimini, anche se una delle vittime aveva indicato che i colpevoli erano due bianchi e un nero. A finire in prigione furono tre persone di colore nero. Quando poi gli investigatori si erano resi conto di avere tra le grinfie della giustizia la persona sbagliata, hanno comunque continuato a ignorare deliberatamente le evidenze. I reali colpevoli non sono mai stati scoperti.

Per capire meglio come funziona la scelta di un carcere, i contatti che ha la produzione con le strutture, come queste scelgono le celle in cui ospitare il giornalista e le sua troupe è interessante notare quanto dichiarato al programma "This Morning" un anno faRowe spiega che una delle ragioni per cui delle amministrazioni detentive straniere lo lasciano entrare, esponendosi al “rischio” che un’inchiesta giornalistica ne riveli le evidenti lacune, risiede proprio nel fatto che vogliono rendere pubbliche le enormi difficoltà del paradigma retributivo-riabilitativo, specialmente quando le prigioni devono gestire una serie di problematiche come il sottofinanziamento. Non a caso nei paesi più poveri anche l’intento riabilitativo viene totalmente a mancare lasciando spazio solo alla pura punizione.

In un’altra intervista fatta da Melissa Llarena due anni fa, oltre a ribadire che <<niente è preparato, non c’è finzione. Scopri le cose così come lo scopro io, perché il format del programma>> è concepito così, dichiara che la paura che a volte si può leggere sul suo volto, come quando in una puntata viene minacciato di essere violentato, è un sentimento naturale che deriva da eventi inaspettati e problematici. In quasi tutte le interviste ci tiene a sottolineare che quello che noi scopriamo durante la visione coincide con quello che sta appena scoprendo anche lui, timore incluso, sentimento che può essere suscitato ugualmente negli spettatori non scettici. Dalle suo parole ci pare di capire che non c’è nessun addetto alla sicurezza nella troupe, perché questa è affidata alla creazione di <<fiducia con i detenuti che sono “al comando” o che hanno qualche forma di controllo, se non con le stesse guardie. Di solito c’è una guardia che ci fa da guida e che ci permette di stare in sicurezza nelle celle (...) c’è un elenco di criteri da rispettare, come per esempio la presenza di una guardia fuori al complesso in cui ci troviamo. Altrimenti non possiamo essere presenti>> anche per questioni relative ai contratti con le compagnie assicurative.

 



Infine, in quest'ultimo video di pochi mesi fa a "Second Chance Podcast", racconta in cosa consiste la fondazione a cui ha dato vita: migliorare le condizioni di vita dei detenuti partendo dal soddisfacimento di bisogni basilari.


Alcuni scatti del “dietro le quinte” dai profili social della serie.





                                            

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