7.12.23

MERITO, PRIVILEGIO O FORTUNA?!

NON FACCIAMO CONFUSIONE...

 

In alto la scritta "Merito, fortuna e privilegi: non confondiamoli". Sotto tre omini: uno siede su una pila di lingotti d'oro, un altro fa fatica a salire in cima a un grafico a barre, un altro ha una corona. Ci sono anche dei dadi a simboleggiare la pura fortuna.

 

In questo post, che inaugura la rubrica "Cronache Precarie", parliamo della confusione tra i concetti di merito, privilegio e fortuna.

Sentiamo infatti spesso parlare di merito come criterio di giustificazione dello status sociale e delle ricchezze di cui possono godere solo pochi e della corrispettiva meritocrazia, la divisione in classi sociali basata sui criteri tecnocratici dettati dal “mercato”, e quindi dal culto del profitto e dell’accumulazione infinita, che diventa anche ragione per decidere chi deve decidere, chi deve comandare e chi deve ubbidire. Ma determinare e valutare chi è più qualificato nello svolgere un singolo compito, oppure un insieme di mansioni specifiche, non equivale ad avere un metro oggettivo che, deterministicamente, può essere adottato per stabilire chi deve avere più ricchezza e potere decisionale. E pure ammettendo che un tale strumento esista e che sia “scientificamente” imparziale, sarebbe comunque giusto impiegarlo?! O forse sarebbe più sensato intervenire sulle condizioni di partenza che favoriscono o condannano singoli e gruppi, e che giustificano disuguaglianze economiche e gerarchiche, per rimuovere gli ostacoli o le circostanze favorevoli alla base delle disparità e dei privilegi, puntando al successo collettivo invece che a quello individuale?!


 

IL CRITERIO “MATEMATICO” DEL MERITO E LE PERSONE “SUPERIORI”

L'attuale paradigma sociale dominante tende a farci intendere il merito come qualcosa di matematicamente e incontestabilmente misurabile, qualcosa che fa ottenere riconoscimenti o condanne in maniera algoritmica, standardizzata e perfettamente funzionale allattuale sistema economico-produttivo, che a sua volta pervade quello sociale.

 

Solitamente tutto ciò che dovrebbe rientrare nei criteri della meritocrazia (quando questa in realtà non maschera o deriva direttamente da altri dispositivi e sistemi sociali come quello aristocratico-ereditario, nepotistico o clientelare) non tiene conto delle condizioni di partenza dei diversi contendenti in una “competizione” malsana, che finisce per alimentare l’individualismo invece che la cooperazione, non tenendo in considerazione le differenti potenzialità specifiche di ogni singolo individuo che dovrebbero essere viste come una risorsa, e che si traduce nell’affermazione dell’esistenza di persone “migliori”, e perciò superiori. Per questo non si può godere degli stessi diritti, perché non tutti siamo uguali... Questa argomentazione è l'elemento principale e più pericoloso della narrazione meritocratica, e alimenta negli “eletti” di questo sistema sentimenti come l’egoismo, l’egocentrismo, l’arroganza e la discriminazione. Sono le singole persone a essere esaltate, mentre passano in secondo piano le circostanze di cui hanno beneficiato singolarmente, e quindi le condizioni di partenza migliori, o per meglio dire quelle più “vincenti” nel sistema economico e sociale vigente, che possono essere caratteristiche genetiche, strategie educative, eventi fortuiti o frutto di sopraffazione e sacrificio di altre persone "inferiori".


Ma anche se fosse possibile stabilire “matematicamente” chi dovrebbe avere più ricchezza e potere, e anche se non si avesse alcun “merito” secondo l’attuale paradigma dominante del successo, sarebbe comunque giusto lasciare indietro e abbandonare a loro stessi i più svantaggiati, in conseguenza di una presunta colpa o anche semplicemente per un infausto destino?! Non sarebbe meglio, anche solo pragmaticamente parlando, concentrarsi sul diffondere il benessere nella maniera più equa e ampia possibile, visto che siamo degli animali sociali e che alla fine siamo tutti sulla stessa barca?! Non è forse arrivata l’ora di incentivare il “successo” collettivo invece che quello individuale?! Invece di ricercare criteri scientifici per determinare chi e come possa salire i gradini della “scala sociale”, non dovremmo forse buttare giù quella scala gerarchica per elaborare un sistema in cui tutti lavorino insieme e sullo stesso piano?

 

Dovremmo concentrarci sul rimuovere gli ostacoli che avvantaggiano alcuni a scapito di altri, sul fornire opportunità che siano le più eque possibili, che valorizzino le differenze e le specificità di ognun@ senza lasciare nessun@ “indietro”. Dobbiamo smontare le narrative tossiche, parziali ed escludenti, che confondono le virtù autentiche con i privilegi derivanti dall’appartenenza a una “casta” o dal fato, e che comunque non dovrebbero giustificare e alimentare egoismo e disuguaglianza, ma cooperazione e solidarietà.



CHI FA LA STORIA TRA MERITO, FORTUNA E SFRUTTAMENTO

Si dice che dietro ogni grande fortuna c’è un delitto, e in questo caso si intende per "fortuna" un certo grado di ricchezza o potere, dei privilegi acquisiti in maniera fortuita, casuale oppure pianificata.

 

A volte è un delitto vero e proprio: è un privilegio acquisito dallo “sfruttamento dell’uomo su un altro uomo”, da un furto legalizzato o meno. A volte assomiglia a una sorta di peccato originale con cui ci si nasce, così come si nasce con la “colpa” di essere poveri, e solo i più “meritevoli” tra i poveri godranno, o dovrebbero godere, degli stessi diritti dei ricchi non “meritevoli”.

 

I fortunati nascono dunque con un’ “eredità” più o meno cospicua, non solo materiale, cui dovrebbe seguire un impegno a ridistribuire quanto si è ricevuto per nascita, considerando che gli sforzi fatti per ottenere quella fortuna non sono solo quelli di chi ti ha generato o accudito, del tuo eventuale impegno, ma anche quelli dell’intera collettività, e in ultima istanza dell’intero ecosistema (per esempio non potremmo vivere senza il “lavoro non salariato” delle piante che ci danno aria, piante che noi distruggiamo arbitrariamente e ferocemente perché gli umani sono nati con una particolare dote o “fortuna”). 

 

E invece no! Se sei povero te lo sei meritato! Non interessa capire da dove e come si parte, così come non è importante comprendere la "partenza" di chi ha il privilegio di nascere da non “"sfigato".


Anche quando quel privilegio viene “conquistato” (ammesso che esistano dei privilegi che si conquistino davvero, nel senso pieno del termine) non bisogna mai dimenticare che si usufruisce di beni, materiali e immateriali, concepiti e costruiti dalla collettività nei secoli. Siamo degli animali sociali (anche se tendiamo a vivere la nostra socialità in maniera “tribale” e “clanica”, e cioè tendiamo ad avvantaggiare solo una ristretta parte della collettività, un gruppo sempre più piccolo dell’intera umanità), le nostre vite sono capillarmente interconnesse in una maniera impossibile da cogliere nella sua totalità, per questo non possiamo dimenticarci di chi “non ce la fa”, di chi “fallisce”, di chi è svantaggiato, degli scompensi che vive per “colpa” personale o sociale, perché quegli scompensi, quegli svantaggi, riguardano anche gli altri, soprattutto chi è più fortunato, e alla fine si ripercuotono su tutti.


I meriti della collettività sono quelli meno narrati e più sfruttati, sono i risultati ottenuti che fanno silenziosamente e letteralmente la storia, in maniera meno visibile ma più permeabile, più difficile da raccontare di quella dei singoli... E bisogna anche sforzarsi di capire chi sono quei singoli e come fanno realmente “la storia”: sono i miliardari “visionari”, speculatori, sfruttatori e manipolatori, oppure sono gli eroi sconosciuti, i coraggiosi bistrattati, gli arguti mistificati, etichettati come “idealisti” sovversivi, a volte anche fannulloni, ma che agendo al di fuori delle logiche culturali imperanti (quelle delle mercato in questa fase storica) con il loro sacrificio riescono a creare progresso. Non vengono quasi mai definiti “visionari” i singoli e i gruppi che non hanno l’onore di salire alla ribalta delle cronache e di finire nei libri di storia, destino in comune con la maggioranza di menefreghisti, indifferenti e rassegnati.

 

Le menti più raffinate della società, quelle con il quoziente intellettivo più alto (o quelle con il quoziente di insensibilità più alto), quelle che hanno compiuto più sforzi (ammesso che li abbiano compiuti davvero e che non siano partiti avvantaggiati) potrebbero “farsi” realmente da soli? Il mito del “self-made man” (l’uomo che si fa da sé) è solo un mito, per l’appunto: tutte le scoperte e le innovazioni scientifiche-culturali più importanti sono il risultato di un impegno secolare e collettivo, e tutto quello che riescono a raggiungere i “geni” del bene o del male, gli stacanovisti più indefessi, gli imprenditori di sé stessi più "creativi" (creatività che non deve mai travalicare le logiche del profitto),  possono raggiungerlo grazie al prodotto di compiti e lavori considerati più “umili”, ma comunque essenziali, e per questo chi li svolge non dovrebbe essere trattato secondo le logiche della “schiavitù istituzionalizzata e legale” (e cioè quella che per secoli è stata prevista per legge) o della più recente e più blanda “schiavitù istituzionalizzata nascosta” (ossia le varie forme di precariato esistenti nei cosiddetti paesi sviluppati).

 

Chi non è particolarmente marginalizzato non può voltarsi dall’altra parte, ma deve impiegare quel margine di privilegio concessogli per difendere sé stesso e soprattutto chi è più sfortunato. Ha il dovere di lavorare e lottare insieme a questi, a chi è stato condannato a vivere nei piani più bassi nel sistema delle caste che oggi vengono stabilite principalmente dal “mercato”. É un suo dovere morale e materiale, perché il merito è un falso mito, mentre la ricchezza individuale è un’anomalia, che nasconde perlomeno il delitto dell’indifferenza, e che più concretamente di solito si spiega con la virtù di chi meglio evade o elude le tasse, di chi sfrutta direttamente e consciamente altre persone, di chi manipola per tornaconto personale e del suo “clan” (che può essere un’azienda, un partito, un gruppo familiare ecc.), insieme alla vasta platea di chi li sfrutta indirettamente con il proprio menefreghismo, di chi nasce con pochi o molti privilegi ma l'idea del restituire qualcosa non li sfiora nemmeno...

 

Non possiamo non pensare a chi nasce con delle diverse abilità, con delle differenze che non vengono valorizzate: se sei disabile tenderai a essere ancora meno “funzionale” agli attuali modelli produttivi e culturali rispetto alla media, dunque sarai meno o non “produttivo”, e quindi sarai meno o non “meritevole”: non è un caso che tra i primi a usare il termine “meritocrazia” è stato Michael Young in un saggio romanzesco e distopico, “L’ascesa della meritocrazia”, in cui si descriveva un mondo guidato da un’élite di persone con un quoziente intellettivo altissimo, un mondo in cui la stratificazione sociale è basata sul criterio positivista della misurazione matematica dell’intelligenza. Oggi quel termine viene usato, seriamente, da moltissimi politici e sostenitori di un determinismo liberista basato sul merito...



FALLIMENTO, MODELLI DI SUCCESSO E ISTRUZIONE


Fa sorridere amaro quando il principio del merito viene sbandierato dal neoministro Valditara per “l’Istruzione e il merito” (prima si chiamava ministero per l’istruzione “pubblica”, ma quella parola è stata cancellata, in tutti i sensi) che auspica una scuola come <<vero ascensore sociale che non lasci nessuno indietro>>, e che lo rivendica come valore costituzionale, semplificando e distorcendo il significato della nostra legge fondamentale in senso liberista-meritocratico...

 

L’articolo 34 della nostra Costituzione infatti afferma che <<i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi>>, un principio che se interpretato alla lettera e senza tenere conto di altri articoli costituzionali diventa molto pericoloso... In primis perché i “non capaci e non meritevoli” che non sono privi di mezzi (più ricchi o più fortunati), godrebbero di più diritti. Inoltre che ne sarebbe dei “non capaci e non meritevoli” che sono privi di mezzi (più poveri o meno fortunati), li lasciamo a loro stessi? Loro possono solo scendere le scale senza prendere “l’ascensore sociale”, o al massimo provare a salire svariati piani a piedi?!Se così fosse verrebbe violato sia il principio dell’uguaglianza formale, e cioè che nessuno può essere formalmente discriminato per delle <<condizioni personali e sociali>>, ma soprattutto quello dell’uguaglianza sostanziale, e cioè di tutte quelle condizioni e <<ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese>> (art.3), ostacoli che andrebbero rimossi dalla Repubblica, e non usati come criterio per far funzionare “l’ascensore sociale”, che magicamente non dovrebbe lasciare nessuno in basso. La Costituzione valorizza il merito “solidale”, non certo quello individuale, e non è un caso che nella costituzione si parla di <<adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale>>, e quindi chi ha più “merito” o “fortuna” dovrebbe condividere anche di più!

 

Come spesso si dice in questi casi: il problema è che la Costituzione non viene applicata, ma anzi distorta... Inoltre il sistema scolastico viene sempre più inglobato in una strategia meccanicista, con dei rigorosi sistemi di valutazione sempre più standardizzati e applicati su scala internazionale, che sono funzionali alla “catena di montaggio scolastica” e che non lasciano spazio alla soggettivazione, tendendo a trasformare chi apprende in un robot senza particolare autonomia, piuttosto che in un essere pensante critico, dotato di capacità di adattamento e immaginazione, mentre quest’ultima è concepita come pura fantasticheria se non è utile al funzionamento omologato dell’enorme fabbrica planetaria.

 

Così come il successo anche il fallimento viene definito come tale in relazione a un modello che determina chi “merita” la condanna all’indifferenza, a essere relegato negli strati sociali più bassi della società, un modello che va ribaltato: è un fallito chi non riesce a ottenere il tipo di “successo” definito dallo standard di una cultura iper-specializzata e atomizzata, riflesso del paradigma taylorista-fordista e funzionale alle sue rigide divisioni, assorbite nella "catena di montaggio educativa" che, anche ai suoi livelli più alti, riesce a farti svolgere un compito specifico in maniera eccellente, sacrificando però le parti del sapere che ti rendono un animale sociale, spingendoti a “coltivare il tuo orto” in un deserto di povertà e violazioni dei più basilari diritti umani che si credevano dati per acquisiti, ma che invece sono diventati un optional, e quindi dei privilegi, a vantaggio solo delle popolazioni più fortunate, e nemmeno sempre per la maggioranza di queste. Tantissime persone hanno idee e potenzialità inespresse proprio perché il valore di queste non è riconosciuto come tale dal sistema sociale ed economico, e cioè dal “mercato”, da ciò che fa alzare il volume d’affari, il principale comandamento della religione del profitto, l’unico sentimento che conta e che è quantificabile come “merito”, tutto il resto è futile debolezza, peccato di inedia o vizio di eversione.

 

Fallisce dunque chi si prodiga per cambiare l’attuale sistema egemonico, chi non si lascia imbrigliare dalla ristretta divisione tra scienze “dure” e “molli”, con le seconde ritenute praticamente inutili se non funzionali alle manipolazioni mediatiche e alle strategie di marketing, e cioè finalizzate a farti votare qualcuno, a venderti qualcosa o a sorvegliarti, piuttosto che a sondare la complessità dei costrutti sociali e ad elaborarne di migliori. Chi cerca anche solo di comprendere il sistema dominante, per poi provare a mutarlo, viene tacciato di essere un perditempo sovversivo, che non ha voluto sottomettersi all’acquisire le “skills” funzionali all’enorme fabbrica del profitto, basata sull’accumulazione di ricchezza e sulla crescita del volume di affari all’infinito, in un sistema ambientale, sociale, materiale che invece è limitato.

 

Allora sei tu l’ingenuo, quello che non ha voluto o potuto piegarsi all’indifferenza verso la sofferenza sempre più diffusa, che non vuole sacrificare la sua vita per accumulare nozioni di un sapere polverizzato ma perfettamente funzionale al modello produttivo, sopprimendo ogni aspirazione olistica e organica della conoscenza, per meritarti e ottenere il mitico “posto fisso” e un “posto al sole”, disinteressandoti delle tenebre intorno e provando ad accendere una luce: sei un fallito! Ti verrà detto che sei quello che critica perché cialtrone, perché non riuscendo ad arrivare all’uva ti metti a dire che è acerba, perché sei un fallito! Hai fallito perché non ti sei impegnato abbastanza, hai fallito perché hai scelto male, e non certo perché le possibilità e le scelte sono limitate da una sfilza di problemi e condizioni materiali, perché l’impegno richiesto è eccessivo (a volte anche futile) e non hai superato la “selezione naturale”, perché i tuoi sforzi non sono compatibili con il “sistema”...

 

Certo, anche se le opzioni sono sempre più limitate abbiamo comunque la possibilità di una scelta, inclusa la “non scelta” del modello di successo dominante, e lo vediamo nel fenomeno sempre più vasto della “Great Resignation”, (detta anche "Big Quit" e traducibile letteralmente come "Grandi Dimissioni") e cioè nella scelta del continuare a lavorare ma di meno (o di non lavorare più), nel rifiutare lavori malpagati e a nero, mettendo a rischio la tua esistenza (se non già intrinsecamente precaria fin dalla “partenza”) per scegliere la solidarietà, la giustizia sociale, il successo collettivo e la cura della propria dimensione individuale.

 

Hai fallito perché non ti sei impegnato, perché non sei sempre stato attivo h24, perché le questioni problematiche del tuo vissuto non contano se altri più dotati o fortunati ci riescono, vai a fare lo schiavo e stai zitto! Fare degli errori, fallire, non è più concepito come parte dei processi di crescita e apprendimento, ma una colpa, uno stigma che solo pochi avranno il lusso di poter lavare via o addirittura ostentare, se di lusso puoi permettertene parecchio...

 

“Fallisce” dunque chi crede più nella dimensione del successo collettivo, opposta all’individualismo imperante e alla competizione sfrenata, oltre che falsata nelle sue stesse norme.

 

Ma se quello che altri definiscono “fallimento” corrisponde in realtà a degli obiettivi “rivoluzionari”, anche se gli annessi risultati non ti pagano l’affitto e non ti sfamano, hai raggiunto comunque un altro tipo di “successo”. Dai tanti “fallimenti collettivi”, dal sangue versato da chi aveva più titolo e “merito” per reprimere, sono nati e stanno nascendo importantissimi cambiamenti sociali, per questo dovremmo continuare a combattere il tabù e lo stigma del fallimento, dovremmo rischiare di fallire se in cuor nostro sappiamo che quella è la scelta più corretta eticamente, ma non economicamente... D’altronde sbagliando si impara, ed evitando di ripetere gli stessi errori si cresce. Per questo il vero fallimento è non provare a fare qualcosa, e non il commettere degli errori dopo un tentativo.

 

Ma anche dando per assodato che il reale successo sia quello propugnato dagli alfieri del merito, dai finti “underdog” (svantaggiati e sfavoriti) che nascondono raccomandazioni e forme di arrivismo, menefreghismo e prepotenze varie, e quindi ipotizzando che non si abbia nessun “merito”, sarebbe comunque giusto e conveniente relegare qualcuno ai margini socio-economici della società?

 

Fortunatamente sono sempre più, anche quelli delle generazioni più anziane, che si rendono conto delle disuguaglianze lampanti, che vedono loro stessi o i propri figli sacrificarsi tantissimo senza ottenere l’agognato “successo”: oramai successo, per i più, significa soddisfare i propri bisogni basilari, pagarsi vitto e alloggio senza avere tempo libero (al massimo un po’ di “pizza e serie-tv” o di “pane e calcio”), vivere all’insegna del “produci, consuma e crepa” perché anche il riprodursi è fine a sé stesso, perché non puoi stare abbastanza con la tua famiglia (se sei ricco, coraggioso o spericolato abbastanza per creartela) dato che anche nel tuo piccolo sei costantemente invischiato nel giogo della produzione infinita, finalizzata però a un sostentamento più o meno dignitoso (sempre meno dignitoso rispetto alla generazione dei “boomer”). E anche questo “successo limitato” non riesce più a essere garantito come nei tempi del boom economico.

 

Guai se ti concedi un po’ di sano ozio o se ti dedichi ad attività costruttive ma non “produttive”: sei solo un nullafacente perché non sei riuscito a “capitalizzare” il tuo tempo, meriti una vita di sfruttamento e scherno, fallito! Se invece campi letteralmente di rendita, se la tua ricchezza si basa sul lavoro altrui (sia quello dei tuoi avi che di altre persone direttamente sfruttate), se il tuo modello di business è vincente perché parte da una posizione di vantaggio (come le banche dati online che continuamente alimentiamo, sottraendo tempo a noi stessi e fornendo ettolitri del “nuovo petrolio”, i dati per l’appunto), allora avrai molto prestigio! A breve dovremmo cambiare anche l’articolo uno della nostra Costituzione, che reciterà approssimativamente: <<L’Italia è una Repubblica Presidenziale, tecnocratica e oligarchica, fondata sul merito della rendita e sull’abilità nello sfruttamento del lavoro altrui. La sovranità appartiene al governo, anche se eletto da una minoranza degli aventi diritto al voto, che la esercita nei limiti che ritiene più opportuni a salvaguardare gli interessi di quella stessa minoranza>>.

 

Se ci sono persone e aziende che possono avvalersi di quella ricchezza prodotta collettivamente, perché non potremmo ridistribuirne di più? Davvero si arriva a pensare che ci siano orde di persone disposte a non fare niente in cambio di un dignitoso “reddito di base”, oppure non è più realistico pensare che quel “reddito universale” venga impiegato, per lo meno dai più, per studiare, per emanciparsi da una relazione tossica con annesse “stringhe economiche”, per rimettersi in sesto dopo un periodo difficile, per coltivare la propria dimensione individuale finalizzandola al benessere collettivo? Non sarebbe più corretto ritenere ingiusto che una piccola parte della popolazione mondiale campi di rendita, di sfruttamento,  detenendo la maggior parte della ricchezza, mentre la gran parte viene tacciata di essere “fannullona” e "divanista"?! Chi è il vero fannullone? Vanno abolite le misure a sostegno di chi è più svantaggiato come l’insufficiente reddito di cittadinanza, o vanno aboliti gli enormi privilegi e i “meriti” legati alle eredità e alle rendite?

 

 

PORTARE AVANTI CHI PARTE  INDIETRO


Il merito, sbandierato come un criterio oggettivo, per essere valutato in maniera più obiettiva dovrebbe includere le condizioni di partenza di una persona o di un gruppo sociale, che andrebbero “livellate” e abbinate a dei parametri atti a valutare non tanto gli sforzi individuali o collettivi per assegnare dei premi, ma a determinare le capacità per portare a termine un compito o un obiettivo. Bisognerebbe creare le condizioni per un maggiore equilibrio invece di gratificare ulteriormente chi è stato già premiato per altre ragioni, al di là del fatto che queste vengano ritenute meritorie o meno.

 

<<Socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro>>, recita un detto, e per questo dovremmo concentrarci sul rimuovere degli ostacoli, anche quelli più specifici, come specifiche sono le nostre singolarità, valorizzando potenzialità e debolezze di ciascunə con una prospettiva armonica e in maniera interdipendente.

 

Caio Perr


Come di solito vi salutiamo allegando una citazione musicale in armonia con quanto scritto: "‘O Sfruttamento" dei Bisca e 99Posse.




Vi segnaliamo anche la visione di una presentazione del libro “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo!” di Maura Gancitano, che si è tenuta a Settembre all' "EX-OPG Je So Pazzo", centro sociale partenopeo e sede di "Potere al Popolo", e che ha in larga parte ispirato questo scritto.


 

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