LA PARTECIPAZIONE PALESTINESE E IL "BOTTINO" DEL TEAM DEI RIFUGIATI
Da una settimana si sono concluse le Olimpiadi di Parigi 2024 e a breve inizieranno i Giochi Paralimpici.
Gli organi di stampa dominanti continuano a parlare di "bottini" delle singole nazioni in medaglie e di "medaglieri". Invece in questo articolo, per la rubrica "DiSport", tracciamo un bilancio alternativo al mainstream, con dei conteggi che non riguardano le medaglie conquistate dai vari paesi.
Iniziamo parlando degli atleti palestinesi che non ci sono più e quelli che sono riusciti a partecipare. Anche se non hanno conquistato nemmeno una medaglia sono loro i vincitori e le vincitrici morali di questa edizione, l'ottava a cui ha preso parte la delegazione palestinese (in tutto sono 9, considerando l'atleta paralimpico che si cimenterà nel lancio del peso). Hanno gareggiato e alzato la bandiera che li rappresenta, nonostante il fatto che qualcuno continui a negare l'esistenza stessa dei palestinesi, definendoli genericamente "arabi", per legittimare la pulizia etnica "dal fiume al mare".
Concludiamo parlando di altri "momenti mediali salienti" di queste Olimpiadi, in particolare della pugile DONNA (scriviamolo a lettere grandi) Imane Khelif e del team dei rifugiati. E facciamo pure qualche considerazione sui valori dello sport mercificato e sul ruolo dello sportwashing.
Foto di Amada MA da Unsplash |
GAREGGIARE PER RESISTERE ED ESISTERE
Si parla sempre dello spirito dello sport e delle emozioni che dovrebbe generare, della sorellanza dei popoli che dovrebbe stimolare. Purtroppo nell'attuale sistema socio-economico capitalista lo sport valorizza la competizione più esasperata possibile, il tifo da stadio diventa paradigma della dialettica politica -intendendo la parola "politica" in senso lato- mentre la politica -in senso partitico- sfrutta lo sport per aumentare la "polarizzazione" degli elettori-tifosi. Oppure, più semplicemente, per domare la voglia di cambiamento stonando l'opinione pubblico a suon di "pane e circo".
Questa maniera di sfruttare gli eventi sportivi per fini politici-mediatici, nel solco della tradizione dello sportwashing (ripulire l'immagine di un paese o di un politico tramite lo sport), era evidente già prima dell'inizio degli ultimi giochi olimpici:dopo l'invasione dell'Ucraina da parte russa nel 2022 si è scelto di far partecipare gli atleti russi e bielorussi senza esporre le bandiere e intonare i rispettivi inni nazionali. Nonostante le plateali violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale lo stesso provvedimento non è stato adottato nei confronti dello stato di apartheid israeliano, ennesimo esempio di "doppiostandard" o "due-pesismo".
Oggi, come società collettiva e non come singole individualità e collettività, siamo "troppo dentro" questa funesta fase storica per accorgerci che i giochi olimpici parigini verranno ricordati come le Olimpiadi durante il genocidio palestinese: da Ottobre 2023, l'inizio della vendetta e punizione collettiva israeliana per lo smacco militare inferto durante il sanguinoso atto terroristico guidato da Hamas, sono stati massacrati almeno 300 tra atleti, allenatori, arbitri e ufficiali di gara palestinesi (dato fornito da Mustafa Siyam della Palestinian Sports Media Association). Si stima che tra questi più di 60 avrebbero potuto competere alle ultime Olimpiadi. Stando a quanto riportato dal sito israeliano Haaretz (che non cita fonti specifiche) anche <<molte dozzine di atleti israeliani, di tutti i livelli, inclusi quelli giovani, sono morti durante o dopo il 7 Ottobre (...) potrebbero essere oltre 100>>. Non possiamo dire se nel funesto conteggio della testata israeliana sono stati inclusi anche i dodici ragazzini uccisi da un'esplosione in un campetto di calcio di Majdal Shams, villaggio illegalmente occupato da Israele: di sicuro quei bambini non avevano la cittadinanza israeliana, ampiamente rifiutata dalla maggioranza della comunità drusa del posto (a differenza di quanto affermato da molti).
Tra i volti più noti delle vittime "sportive" del genocidio palestinese c'è Majed Abu Maraheel, calciatore, corridore e primo atleta olimpico della storia palestinese. Uno degli innumerevoli bombardamenti aerei israeliani, con il pretestuoso obiettivo di "eradicare il terrorismo" esercitando una forma di "terrorismo di stato", ha comportato l'amputazione di una gamba e la morte di Nagham Abu Samra, karateka, laureata in scienze motorie e fondatrice della prima palestra di karate per donne a Gaza. Tra le tante vite e i rispettivi sogni spezzati sono stati uccisi anche Hani Al-Masdar, assistente allenatore della nazionale di calcio, i calciatori Ahmad Abu Al-Atta, Shadi Abu al-Araj e Mohammed Hussein Al-Sulibi, i pallavolisti Hassan Abu Zuaiter e Ibrahim Qusaya, il corridore Wasem Ayman Abu Deeb e il nuotatore paralimpico Majdi al-Tatr.
Sono 8 in tutto i palestinesi che sono riusciti a competere: tra questi c'è il primo pugile olimpionico a rappresentare la Palestina, Wasim Abusal, nato e cresciuto in Cisgiordania, la nuotatrice Valerie Rose Tarazi, nata negli USA da una famiglia cristiana, e il nuotatore Yazan Al-Bawwab, nato in Arabia Saudita, figlio di un rifugiato palestinese che è diventato ingegnere in Italia e che gli ha trasmesso la cittadinanza italiana.
L'unico atleta palestinese che parteciperà ai Giochi paralimpici che inizieranno fra pochi giorni nella capitale francese si chiama Fadi Deeb e viene da Gaza. Altri non hanno avuto la possibilità o il permesso di arrivare a Parigi, permessi che dovrebbero essere garantiti secondo la tradizione millenaria della cosiddetta "tregua olimpica": la tregua non riguarda solo la cessazione delle ostilità durante i giochi, che secondo le Nazioni Unite dovrebbero aiutare a creare <<una finestra di opportunità per il dialogo e la riconciliazione>>, ma anche la possibilità di far muovere liberamente gli atleti per gareggiare, insieme agli spettatori.
Fadi Deeb vive su una sedia a rotelle dopo essere stato sparato alla schiena da un cecchino israeliano nel 2001. <<La Palestina non è solo guerra e sangue. C'è vita, speranza, ci sono obiettivi, sogni. Voglio mostrare la bandiera del mio paese e mostrare alla gente che siamo ancora qui>>, ha affermato con tono calmo e deciso ai microfoni di DemocracyNow! pochi giorni fa. Ha raccontato di aver iniziato a praticare sport da giovane, giocando a pallavolo, e ha deciso di continuare a fare sport, un <<qualcosa di fondamentale per gli abitanti di Gaza, ci dà la possibilità di uscire da sentimenti negativi>>. Da disabile ha praticato diverse discipline, dal ping pong alla pallacanestro, passando per il tiro al piattello. Dentro la Striscia di Gaza, racconta, le strutture per praticare sport erano praticamente inesistenti, mentre quelle che c'erano sono state quasi tutte distrutte, così come il resto di Gaza è stata ridotta in macerie. Anche l'equipaggiamento sportivo era praticamente nullo a causa dell'occupazione illegale israeliana e del relativo embargo. Per questo spesso ci si allenava in strada, usando attrezzi improvvisati: una roccia al posto della sfera metallica per il getto del peso, qualche pezzo di metallo che assomiglia a un disco da lanciare, <<anche se più pesante di solito>>. Fadi Deeb nel <<genocidio, perché non si può chiamare guerra>>, ha perso <<più di 17 persone della sua famiglia>>, tra cui un fratello e due nipoti. Racconta che la sua famiglia è divisa in 4 gruppi, <<così se muore un gruppo un altro resta vivo>>, dato che non c'è nessun posto sicuro a Gaza, nonostante le dichiarazioni di "zone sicure" o "umanitarie" emesse da Israele per mantenere goffamente qualche parvenza di legalità. <<Non fa differenza se sei un dottore o un atleta, se sei un bambino o una donna, se sei in un'abitazione o in un ospedale, se sei palestinese sei un obiettivo>>, e in questo tragico contesto sta cercando di focalizzarsi sulle prossime gare di getto del peso. Nell'intervista si parla anche della prossima generazione di disabili gazawi, con Save The Children che a Gennaio stimava una media di circa 10 bambini amputati al giorno, spesso senza anestesia né cure adeguate.
Tra le altre sfide, che a latitudini più vicine alla nostra non sono nemmeno concepibili come tali, c'è quella di ricevere un permesso per uscire dal campo di concentramento più grande del pianeta, che oggi è anche uno dei posti più bombardati della storia, Gaza. Se sei rinchiuso illegalmente in una prigione israeliana o se non hai un permesso non puoi partecipare a una gara, anche se ti sei allenato e impegnato tanto. Queste difficoltà sono ben rappresentate dalla vicenda dei ciclisti paralimpici della squadra "Gaza Sunbirds": nei primi mesi della guerra genocida si erano impegnati per distribuire aiuti alimentari con le loro bici e con le loro protesi al posto delle gambe, oltre ad avviare una campagna per ottenere i permessi di viaggio necessari per le qualificazioni e per avere le bici necessarie alle competizioni. Alaa Al-Dali è uno dei fondatori della squadra: sognava di gareggiare al Giro d'Italia prima di venire reso disabile da uno sparo di un fucile israeliano, durante la pacifica Marcia del Ritorno del 2018. Dopo essere arrivato in Italia non è riuscito a qualificarsi per le paralimpiadi parigine. Una settimana fa, però, comunicava con entusiasmo che il team dovrebbe essere presente ai prossimi campionati mondiali in Svizzera. Due giorni fa è stato investito da un pirata della strada in provincia di Venezia: i danni alla bici e una decina di giorni di prognosi potrebbero mettere a rischio la sua competizione a Zurigo (è attiva una raccolta fonda per comprare una bici nuova).
Immagine di Alaa Al-Dali mentre annunciava, pochi giorni fa, la partecipazione ai campionati mondiali in Svizzera, tratta dal profilo Instagram dei "Gaza Sunbirds" |
Altro esempio di resilienza e resistenza tramite lo sport è quello di Mohammed Khamis Haidar Hamada, il primo atleta palestinese a competere nel sollevamento pesi alle Olimpiadi, quelle di Tokyo nel 2020. Il giovane bodylifter non ce l'ha fatta a qualificarsi quest'anno: il record dei pesi che è riuscito ad alzare alle qualificazioni si è abbassato insieme ai quasi 20 kg persi di peso corporeo. Si era ridotto, come molti altri gazawi, a magiare erbe e mangime per animali. Insieme a suo fratello e allenatore si era recato alle qualificazioni in Thailandia tra mille difficoltà, inclusa quella di lasciare la propria famiglia nell'inferno di Gaza. Anche prima dell'ultima offensiva contro Gaza le cose non andavano molto bene: gli integratori alimentari sono fondamentali per un bodylifter, e il regime di occupazione israeliano controlla anche le calorie medie che spettano a ogni singolo abitante di Gaza sotto assedio. Per questo quando usciva dalla Striscia faceva sempre scorta di integratori. Una volta nel 2022, racconta in documentario, quando si trovava negli Emirati Arabi Uniti per degli allenamenti ne fece scorta. Dopo delle analisi anti-doping si scoprì che all'interno erano state inseriti sostanze vietate, evento che gli costò una sospensione per "uso non intenzionale di sostanze non permesse". Adesso i due si sono trasferiti in Bahrein e si stanno preparando per le Olimpiadi di Los Angeles del 2028.
Un'altra vicenda che sarebbe degna dei disonori delle cronache è quella Peter Paltchik, judoka israeliano che ha alzato la bandiera dello stato teocratico ed etnocratico alla cerimonia olimpica. Sui suoi profili social aveva mostrato delle bombe pronte a essere lanciate su Gaza da lui autografate. Non è una sua trovata originale: diversi "VIP", politici e perfino il presidente israeliano Herzog (quello che dice che affamare una popolazione può essere moralmente accettabile e che <<l'intera popolazione di Gaza è responsabile -del 7 Ottobre-. Questa retorica dei civili non consapevoli e non complici è assolutamente falsa>>, nonché giovialmente accolto dal presidente Mattarella) hanno autografato bombe e missili con delle "affettuose" dediche. La politica statunitense Nikki Haley oltre alla sua firma ha scritto sopra <<uccideteli>> (<<finish them>> in inglese), mentre l'atleta israeliano nel post sui social aveva scritto: <<Da me a voi con piacere>>, accompagnato da un hashtag che equipara Hamas ai tagliagole dell'ISIS e un emoticon con un abbraccio affettuoso.
Il post osceno di Peter Paltchik |
La vicenda è esemplificativa della militarizzazione della popolazione israeliana che avviene fin dalla tenera infanzia, della visione della guerra come qualcosa di eccitante più che necessario, di una società continuamente ri-traumatizzata strumentalmente con l'Olocausto, con l'obiettivo di disumanizzare i palestinesi, identificati tutti come terroristi da sterminare con bombe e missili autografati da "VIP", invece che contemplare l'opzione di porre fine a un'occupazione illegale e avviare una qualunque forma di soluzione negoziale con la popolazione soggiogata.
ALTRI "HIGHLIGHTS" DEI "GENOCIDE OLYMPICS"
Le contraddizioni e le strumentalizzazioni dell'ultima edizione dei giochi olimpici non hanno riguardato solo l'occupazione della Palestina...
In primis, più di mille "persone in movimento" e in difficoltà sono state "sfrattate" da Parigi per fare posto agli sfarzi olimpici, sbattute in centri per migranti, in tende o semplicemente in mezzo alla strada. Sono più di mille storie che non entreranno nella "storia mainstream" di queste Olimpiaidi.
Si è parlato tantissimo, anche troppo, della pugile algerina Imane Khelif, prima medaglia d'oro olimpica femminile nella storia del pugilato algerino, conquistata nella categoria dei pesi welter. Le polemiche sono iniziate quando ha sconfitto Angela Carini. A nemmeno un minuto della prima ripresa, dopo che la pugile italiana si era già fermata per farsi aggiustare il caschetto e qualche scambio di colpi, tenta di colpire l'algerina con un gancio destro, abbassando fatalmente la sua guardia "non ortodossa". A quel punto viene colpita da un diretto destro e torna all'angolo ritirandosi dall'incontro: aveva troppo dolore al naso. La storia dovrebbe finire qui: una pugile, nata donna, che si identifica come donna, che ha partecipato (e anche perso) a tantissime altre competizioni come donna, sferra un bel destro a un'altra pugile donna che si ritira dall'incontro. Invece su Khelif si è abbattuto uno "shitstorm" ("tempesta di cacca") patriarcale e transomofobico: la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa, l'ha chiamata <<transgender algerino>>, similmente a quanto detto da Donald Trump. Meloni ha parlato di gara <<non alla pari. Le atlete con caratteristiche genetiche maschili non dovrebbero gareggiare con le atlete donne>> e ha criticato, insieme a Roberto Vannacci, la decisione del Comitato Olimpico di far competere l'algerina e la taiwanese Lin Yu-ting (anche lei medaglia d'oro, ma dei pesi piuma). Il Comitato ha specificato che <<età e genere degli atleti sono basati sul loro passaporto>>, e che testare il DNA degli e delle atlete equivale a violare i loro diritti umani.
Imane Khelif ai Giochi panarabi del 2023. Foto di "Algeria Press Service" da Wikimedia rilasciata con licenza Creative Commons. |
Le organizzazioni e federazioni sportive negli anni hanno eseguito diversi tipi di "test di genere" controversi, discriminanti, umilianti e criticati: a volte si sono fatte delle "analisi" sugli organi riproduttivi, in altri casi è stata valutata la presenza di alcuni ormoni, come il testosterone, o del cromosoma Y. Sono elementi che da soli non sempre bastano a definire il sesso di una persona (a cui spetterebbe la facoltà di identificarsi come meglio crede), specialmente rifacendosi alle categorie binarie imposte dalla società e non indagando le complesse relazioni tra ambiente, ormoni e cromosomi. E non possono nemmeno determinare con certezza eventuali vantaggi o svantaggi in competizioni sportive. Le polemiche nel caso specifico sono state alimentate da una decisione della "Associazione internazionale boxe amatori", associazione disconosciuta dal CIO e che aveva offerto 50mila dollari alla Carini, l'equivalente del premio in denaro per la medaglia d'oro. L'IBA aveva escluso l'atleta algerina e quella taiwanese dagli scorsi mondiali perché, stando ai test previsti da loro, avrebbero avuto un livello di testosterone troppo alto insieme alla presenza del cromosoma Y. Tra l'altro anche la validità "tecnica" dei test è stata contestata dal CIO, e anche se fosse confermata, la pugile algerina potrebbe -forse- essere definita una donna intersessuale (e cioè una DONNA che presenta naturali variazioni delle caratteristiche sessuali), non transessuale. Anche ammesso che ciò corrisponda al vero (e sono fatti suoi, riguarderebbe la sua privacy!), la natura offre una serie di vantaggi e svantaggi a tutte e tutti: se una persona è molto alta avrà un vantaggio naturale nel giocare a pallacanestro nel ruolo di "centro" (quello che "butta" la palla dentro il canestro), mentre se sarà più bassa sarà naturalmente portata a essere agile e a fare da "playmaker" (quello che "porta la palla").
Inoltre, perché questo genere di test non è previsto anche per gli uomini?! Se degli uomini hanno naturalmente un livello di testosterone più alto la loro competizione non è definibile "alla pari", seguendo questa logica.
Giustamente la pugile algerina ha presentato una denuncia alla procura di Parigi per gli insulti e le varie forme di cyberbullismo subiti, derivanti da ideali estetici non conformi alle regole binarie e patriarcali della nostra società. Sicuramente, invece di contestare la validità della partecipazione delle due pugili, sarebbe più utile parlare di come rendere le prossime competizioni più inclusive nei confronti delle e degli atleti transessuali (ossia persone che hanno intrapreso un percorso di transizione di genere), invece che alimentare polemiche, discriminazioni e campagne omolesbotransfobiche. Da tempo si dibatte sulla partecipazione delle donne trans negli sport femminili, spesso valutata caso per caso: alcuni pensano che dopo una terapia ormonale "conserverebbero" dei vantaggi biologici, essendo nate maschi. Altri invece pensano che prendendo ormoni femminili quei vantaggi verrebbero annullati o livellati, elemento che viene preso in considerazione da diversi organismi sportivi. Similmente, per alcune federazioni e associazioni dello sport, la terapia ormonale intrapresa da uomini trans viene considerata sufficiente per competere con atleti nati uomini. Altri regolamenti prevedono l'impossibilità di una donna trans di gareggiare con altre donne se ha terminato il periodo della pubertà da maschio, e cioè se ha intrapreso il percorso di transizione di genere dopo la pubertà.
Un post su Facebook di Giorgia Meloni del 2021 in cui attacca Laurel Hubbard, prima donna apertamente transessuale ad aver partecipato alle Olimpiadi. |
Un altro esempio significativo riguardo alle terapie ormonali è quello di Pedro Spajari, nuotatore brasiliano: dopo che gli è stata riscontrata un'anomalia nei cromosomi gli è stato permesso di assumere terapie ormonali alle scorse Olimpiadi. Decisione diversa è stata presa nei confronti della corritrice keniana Margaret Wambui: avendo un livello di testosterone troppo alto è stata esclusa dalle competizioni mondiali di atletica nel 2019, dopo che aveva rifiutato terapie che ne riducessero i livelli: <<se non sono malata perché dovrei prendere dei medicinali>>, ha dichiarato. Le cose sono andate molto peggio per Annet Negesa, corritrice ugandese: durante le olimpiadi di Londra del 2012 si scoprì che il livello di ormoni maschili era superiore alla "norma" statistica. Le fu spiegato che con una semplice iniezione, atta a ridurne i livelli, avrebbe potuto gareggiare. In realtà si trattava di un intervento invasivo, la gonadectomia: al suo risveglio trovò degli inaspettati segni dell'operazione sul suo corpo, insieme a dei malori che hanno anche posto fine alla sua carriera sportiva.
Restando nel campo delle discriminazioni di genere non possiamo non parlare del divieto di indossare l'hijab, una vera e propria <<politica discriminatoria>> secondo Amnesty International: <<I divieti imposti in Francia sui copricapi sportivi contraddicono le regole di abbigliamento degli organismi sportivi internazionali come la FIFA, la FIBA e la FIVB. Amnesty International ha esaminato le norme di 38 Paesi europei e ha scoperto che la Francia è l'unico Paese ad aver sancito il divieto di indossare copricapi religiosi a livello di leggi nazionali o di regolamenti sportivi individuali (...) I divieti escludenti francesi causano umiliazioni, traumi e paura. Molte donne e ragazze sono state portate ad abbandonare gli sport che amavano o a cercare opportunità in altri Paesi. Impedire alle donne e alle ragazze musulmane di partecipare pienamente e liberamente allo sport, per svago o come carriera, può avere un impatto devastante su tutti gli aspetti della loro vita, compresa la loro salute mentale e fisica>>. Sifan Hassan, campionessa maratoneta con doppia nazionalità etiope e olandese, quando è salita sul podio per ricevere la medaglia d'oro lo ha indossato in segno di sfida e di solidarietà con tutte le donne musulmane, anche se solitamente non lo indossa durante le competizioni: se e quando indossarlo o meno dovrebbe essere una libera scelta!
E a proposito di scelte libere e consenso va menzionato anche il caso del pallavolista olandese Steven van de Velde: nel 2016 ha patteggiato una condanna a 4 anni per violenza sessuale nei confronti di una minorenne nel Regno Unito. Due anni prima, quando aveva 19 anni, aveva adescato la bambina di 12 anni su un social network. Da Amsterdam si era recato in Inghilterra, contando sul fatto che la bimba era sola: dopo averla drogata con dell'alcol l'ha violentata tre volte, anche mentre la vittima diceva di sentire dolore. Consigliò poi alla vittima di recarsi in una clinica per evitare una gravidanza indesiderata. Dopo l'estradizione nei Paesi Bassi ha scontato solo un quarto della pena. La decisione del Comitato Olimpico neerlandese di farlo gareggiare nel duo, che ha rappresentato l'Olanda nelle gare di beach volley, ha suscitato indignazione. Ju'Riese Colon, esponente di un'associazione no-profit statunitense per la sicurezza dei minori ha dichiarato: <<sono molto preoccupata che una persona condannata per violenza sessuale di un minore possa partecipare ai giochi olimpici. Con squadre da tutto il Mondo che arrivano a Parigi, molte delle quali includono atleti minorenni, ciò manda loro un messaggio pericoloso, ossia che i soldi e le medaglie valgono più della loro sicurezza. La partecipazione è un privilegio, non un diritto>>.
Sempre nel campo del pugilato femminile è assolutamente degna di nota la storica prima medaglia degli Atleti Olimpici Rifugiati, squadra "speciale" attiva dalle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016: si tratta del bronzo conquistato nella categoria dei 75kg (il massimo per le donne) dalla camerunese Cindy Winner Djankeu Ngamba. Bullizzata da bambina, schernita come "maschiaccio", sbattuta in un centro per migranti nel Regno Unito da adolescente e poi riconosciuta come rifugiata per il suo orientamento sessuale -dato che l'omosessualità è illegale in Cameroon- ha trovato riscatto nel pugilato, e spera di poter rappresentare l'Inghilterra alle prossime olimpiadi.
Nessuna medaglia ma un'onorevole squalifica per l'esposizione vietata di uno slogan politico si aggiunge al "bottino" del team dei rifugiati: Manizha Talash, setta "B-Girl Talash" ha esposto la scritta "Free Afghan Women" ("libertà per le donne afghane") al termine della sua esibizione di break-dance, disciplina che non sarà presente ai prossimi giochi olimpici. Quando i talebani hanno riconquistato il potere nel 2021 è fuggita prima in Pakistan e poi in Spagna, insieme ad altri membri della palestra di break-dance da lei fondata.
Lo sport trasmette emozioni... Queste Olimpiadi ci hanno trasmesso emozioni molto contrastanti: dalla voglia di riscatto di collettività e singolarità oppresse a un ordine globale imperniato sull'accumulazione di profitto, che nello sport si traduce in accumulazione di "punteggio". Un paradigma sportivo basato sulla "spettacolarizzazione" polarizzante, su una competizione esasperata che mira all'eliminazione dell'altro, e non alla cooperazione (eccetto con quelli della "propria" squadra). Purtroppo questi sono i principali valori che si riflettono in tutti i "giochi sportivi". Non importa la sorellanza dei popoli, non importa seguire uno stile di vita che sia il più sano possibile, non serve abbastanza divertirsi e gioire, anche quando si perde: ciò che importa è "sconfiggere" l'altro, ciò che conta è essere "spettatore", mero tifoso di qualcun altro.
Siamo d'accordo e concludiamo con le parole di Abdullah Ocalan: <<il capitalismo, con la sua spinta verso l'industrializzazione, ha distrutto fin dall'inizio il carattere amatoriale dello sport, trasformandolo in sport professionistico e integrandolo nel potere. Ciò lo rende un altro importante settore mercificato dello stordimento generale. Invece di prendere parte alla società attraverso lo sport con divertimento e costanza, ora si tratta di guadagnare soldi, risvegliare una competizione fanatica e trasformare la società in pubblico passivo. La cultura dell'arena (gettare i gladiatori in pasto ai leoni e costringerli ad ammazzarsi tra di loro) è stata estesa a tutti i campi dello sport. Applauso e record sono le due idee dominanti. Essere sostenitore di una squadra è diventato più importante che sostenere una religione o una filosofia (...) Quale religione o filosofia può svolgere per il governo di uno stato nazionale il ruolo che, ad esempio, svolge il calcio?>>.
La citazione di "Apo" Ocalan, si trova a pagina 54 del libro "La Civiltà Capitalista. Manifesto della civiltà democratica Volume 2", Edizioni Punto Rosso (traduzione dal tedesco di Simona Lavo e dal turco di Reimar Heider).
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ultima modifica 19/08/2024 20:00
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