9.11.24

CHE SUCCEDE IN KURDISTAN? OCALAN VERRÀ LIBERATO?

TRA KURDISTAN E PALESTINA


CRONACA E ANALISI: LA CRIPTICA APERTURA DEL LEADER DEI “LUPI GRIGI”, IL MESSAGGIO DI OCALAN, LA CONVERGENZA TRA DESTRA PALESTINESE, CURDA E TURCA, E L’ATTACCO ALLA TUSAS RIVENDICATO DALL’ALA ARMATA DEL PKK


STORIA, APPROFONDIMENTO E OPINIONI: LA NASCITA DELL’ISIS, IL RUOLO DELL’ITALIA NELL’ARRESTO DI OCALAN, LE “PURGHE” E I DISSIDI INTERNI AL PARTITO DEI LAVORATORI CURDO E IL CAMBIAMENTO DI PARADIGMA, DAL MARXISMO-LENINISMO AL CONFEDERALISMO DEMOCRATICO



Sullo sfondo un cielo nuvoloso e alcuni grigi palazzi, oltre ad alcune persone. Al centro risalta una bandiera con il volto di Ocalan e delle scritte in curdo. Si intravedono altre bandiere con Ocalan in uniforme e la stella rossa nel simbolo del KCK.
Foto di archivio di una manifestazione per la liberazione di Ocalan a Napoli de "Lo Skietto"



Ritorniamo a parlare di Kurdistan e Rojava con un articolo “long-form” e a “lunga scadenza”, ideato per essere sempre utile da leggere e per trascendere la stretta contemporaneità della cronaca, partendo comunque dagli eventi più recenti: la misteriosa apertura del “lupo grigio” a Ocalan, la notizia dell’incontro con il nipote di “Apo” dopo quasi 26 anni di prigionia in isolamento e 43 mesi senza che nessuno, nemmeno i suoi legali, aveva potuto visitarlo. Infine, l’attacco all’azienda aerospaziale Tusas rivendicato dal PKK (il “Partito dei Lavoratori del Kurdistan”). Secondo un comunicato dell’HPG (le “Forze di Difesa del Popolo”, ala armata del partito), non sarebbe connesso agli altri due eventi.

Affianchiamo poi alla cronaca, la “storia iper-contemporana”, altre tematiche: parliamo di politica e autogestione, e quindi del Confederalismo Democratico sperimentato nella DAANES (nota ai più con la metonimia “Rojava”). Poi, andiamo un po’ più indietro nel tempo, raccontando gli eventi che hanno portato al sequestro di Ocalan, non dimenticando il ruolo dell’allora governo di centrosinistra italiano. Lo facciamo con uno sguardo non agiografico su un Ocalan diverso, autoritario, prima della sua svolta libertaria, quello dei tempi delle prime “purghe” all’interno del PKK.

Non possono mancare altre questioni di “geopolitica popolare”, un tipo di ricerca e analisi che non intendiamo solo nel senso deterministico più diffuso, quello dell’incidenza dei fattori geografici sulle scelte politiche delle varie entità statali, ma soprattutto il contrario: parliamo di come le politiche influiscono sui, e nei confini perché vogliamo un mondo dove questi non esistono! A questo proposito, connetteremo virtuose lotte e ipocrisie più o meno pragmatiche che legano la Palestina al Kurdistan.

Infine, segnaliamo che questo articolo è incluso anche nel format di Fanrivista “Come va a finire?!, articoli nei quali si seguono degli eventi per domandarsi e capire, per l’appunto, quali saranno gli esiti. Gli eventi che seguiremo nei prossimi mesi, e forse nei prossimi anni, forniranno delle risposte a quesiti che tutti i militanti e i simpatizzanti della questione curda si fanno in questi giorni: il leader Abdullah Öcalan, ex marxista-leninista che ha adattato il municipalismo libertario al contesto curdo e dell’Asia occidentale, verrà liberato? Verrà perlomeno posta fine al suo isolamento sull’isola-carcere di Imrali? A quali condizioni? Come verrà risolta la questione curda? Ocalan svolgerà un ruolo simile a quello di Nelson Mandela nel Sudafrica dell’apartheid?

Ma prima di rispondere a queste fatidiche domande, bisogna tentare di dare risposta a un altro interrogativo più impellente: cosa hanno in mente adesso i governanti-fascisti turchi?!





L’INVITO AMBIGUO DEL “LUPO GRIGIO” E LA RISPOSTA DEL PKK

<<Se l’isolamento del leader dei terroristi viene revocato, lasciate che venga a parlare all’incontro del partito DEM in parlamento. Lasciategli gridare che il terrorismo è finito e che la sua organizzazione è smantellata>>, ha detto Devlet Bahçeli nel parlamento turco lo scorso 22 Ottobre. Lui è il leader del Partito del Movimento Nazionalista turco (MHP), successore del fondatore della “Gladio turca” e cofondatore dell’organizzazione neo-fascista dei “Lupi Grigi”, ritenuta da molti il cuore del “deep state” neo-ottomano (letteralmente “stato profondo”, ossia i veri manovratori della politica). Il destinatario del messaggio è Abdullah “Apo” Öcalan, uno dei fondatori e storico leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan in carcere dal 1999. Il parlamentare fascista turco, alleato del “Sultano” Erdogan, ha aggiunto che potrebbero esserci le condizioni di un suo rilascio in base all’articolo 3 della Convezione europea sui diritti umani, quello che regola il “diritto alla speranza” per chi è condannato alla pena perpetua dell’ergastolo.

La dichiarazione è stata interpretata come una possibile o ipocrita apertura per risolvere la questione curda, che riguarda la minoranza più numerosa e perseguitata della Turchia (circa il 20% della popolazione totale). Questione che si estende ai confini politici degli altri stati che comprendono la regione del Kurdistan (Iraq, Siria e Iran oltre alla Turchia e, secondo alcune visioni, anche un pezzo di Armenia). Questione di cui Ocalan è storicamente un simbolo, oltre che una spina nel fianco del regime turco con la guerriglia lanciata nell’84.



La regione curda evidenziata su un mappamondo evidenziata in verde, proiettata e ingrandita
Mappa della regione popolata dei curdi elaborata da Isochrone su Wikimedia


La richiesta di smantellare il PKK, e non solo di chiederne il suo disarmo, è apparsa da subito pretestuosa. Bisogna inoltre tenere presente che quando i regnanti fascisti turchi si riferiscono al “PKK” intendono, in realtà, tutti i partiti e le organizzazioni che derivano da esso o che si rifanno al rinnovato pensiero di Ocalan (come il KCK che raggruppa il PYD siriano, il PJAK iraniano e il PÇDK iracheno).

Il giorno dopo la stampa diffondeva la notizia dell’imminente visita di Ömer Öcalan, parlamentare del DEM (Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli) a suo zio, la prima permessa in 43 mesi a Ocalan. In quasi 4 lunghissimi anni non aveva potuto incontrare nemmeno i suoi legali, con alcuni che lo credevano addirittura morto o gravemente malato. Anche se la propaganda di regime l’ha pubblicizzata come un avvio ufficiale del processo di pace, arrivando a diffondere la fake-news di un invito al disarmo rivolto ai suoi compagni, ufficialmente si è trattata solo di una visita familiare. Tuttavia Ocalan ha parlato con suo nipote della situazione politica e ha inviato un messaggio, che suonerebbe più o meno così: <<Il mio isolamento continua. Se ci sono le condizioni ho gli strumenti pratici e teorici per avviare un cambiamento, spostando questo processo dal conflitto e dalla violenza a un piano politico e legale>>.

La dichiarazione del “lupo grigio” e la visita hanno destato tanto speranza quanto perplessità, come emerge dalle dichiarazioni dei vertici del partito. Helin Ümit ha dichiarato in un’intervista televisiva: <<se esiste un processo di pace o meno è opinabile. Non è normale per i membri del partito di Devlet Bacheli, uno degli architetti delle politiche genocide in Turchia, stringere la mano a quelli dei DEM in parlamento. Tutti discutono e cercano di capire cosa sta succedendo (…) assistiamo a un nuovo gioco di guerra (...) il MHP è un partito di “Gladio”, fondato da Alparslan Türkeş che andò negli USA per ricevere addestramento>> nell’ambito dell’organizzazione clandestina statunitense “Stay Behind”. Per lei l’“apertura” è <<solo una strategia speciale di guerra, non c’è niente né di serio né di buono. La terza guerra mondiale si sta intensificando ed è una minaccia per la Turchia. Solo una pace storica curdo-turca la può salvare>>.

Più positiva, ma con molte riserve, la lettura di Duran Kalkan: <<C’è un cambiamento, anche se solo parziale>>. La liberazione di Ocalan diventa un obiettivo più <<concreto>>, anche se irrealizzabile senza la fine del <<sistema di tortura, isolamento e genocidio di Imrali>> e una mobilitazione popolare internazionale, come è <<internazionale>> la <<congiura>> di cui Ocalan è considerato vittima. Avere sue notizie è stato rincuorante, <<ha cambiato l’atmosfera>>, suscitando <<entusiasmo. Allo stesso tempo ha anche influito sull’ambiente politico. Ciò indica il livello di influenza sulla società di Rêber Apo>> , è cioè del “leader” Ocalan, <<l’unico che può portare a compimento una soluzione politica e democratica alla questione curda, che può assicurare la pace in Turchia, che può guidare questo processo>>.

Decifrare sul breve termine le intenzioni dei vari attori in gioco è un compito che, forse, sarà più facile per gli storici. Sul breve termine la mossa del Sultano Erdogan, delegata al suo emissario kemalista, potrebbe essere finalizzata a una pacificazione interna, anche solo parziale, dato che la guerra genocida israeliana sembra prossima a seminare ulteriore caos oltre che in Libano anche in Siria. In più, i segnali di “apertura” verso i nemici giurati del sultanato nazional-islamista di Erdogan potrebbero rifletterne la sua debolezza.

Prima del 7 Ottobre, e dei piani per un possibile confronto diretto con l’Iran, il ritiro degli USA da Sira e Iraq sembrava a molti analisti imminente (si pensava a un paio d’anni al massimo). Il ritiro di NATO-USA rimescolerebbe ulteriormente il quadro delle alleanze tattiche e strategiche tra le svariate formazioni militari nella regione, oltre a lasciare in eredità esperienza e strumenti militari. Il regime turco attualmente si oppone a quello di Damasco nel ginepraio della guerra civile siriana, anche foraggiando diverse milizie jihadiste.

Nonostante ciò il Sultano atlantista-islamico sembra tentare un riavvicinamento con Assad anche per contrastare la “minaccia” della regione autogovernata del Rojava (la regione curda con cui si indica metonimicamente l’intera area autonoma nel nord-est della Siria). Con questo riavvicinamento potrebbe ottenere più campo libero e collaborazione nella repressione delle formazioni militari a guida curda (e a maggioranza araba) o lasciare che se ne occupi direttamente Assad (infastidendo però gli Stati Uniti che, a partire dalla guerra contro l’ISIS, per adesso sostengono le Forze Democratiche Siriane). Poi la Turchia, con il supporto degli USA, potrebbe chiudere i conti con Siria e Iran ed essere “garante” degli interessi occidentali nell’area (principalmente il petrolio), insieme all’Iraq dove operano i “peshmerga”, vale a dire i curdi che stanno “simpatici” all’Occidente.

Un’altra lettura dell’ipocrita “apertura” a PKK e altre formazioni che ruotano nella sua orbita potrebbe essere la seguente (lettura che non esclude le ipotesi succitate, date le ambivalenze nel “Risiko” delle varie potenze statali): curdi e alleati “di sinistra” dovrebbero cessare di scontrarsi con la Turchia e ottenere libertà di operare altrove, divenendo un suo “alleato indiretto”. Potrebbero contribuire al rovescio della teocrazia iraniana, mentre in una Siria senza il regime baathista si guadagnerebbero l’agognata autonomia (di cui parliamo meglio nella conclusione di questo articolo). Gli Stati Uniti -o la NATO che dirsi voglia- potrebbero ottenere un ridimensionamento del ruolo della Russia nell’area, protagonista principale nella guerra civile insieme all'Iran e contro la Turchia. La Russia perderebbe un alleato e, in più, taglierebbero fuori la Cina dalla ricostruzione post-bellica oltre che da un accesso al Mediterraneo.

Di sicuro, oltre alle complicazioni del quadro medio-orientale derivanti dall’apice del genocidio incrementale in Palestina, ci sono le ipocrisie del regime di Erdogan. I suo attacchi allo stato di apartheid israeliano sono solo quelli attuati con le armi della retorica, non con quelle diplomatiche e tantomeno con quelle commerciali. Tra i vari rapporti economici e militari che legano Israele alla Turchia ce n’è uno particolarmente significativo in questo periodo: gli aerei da guerra israeliani possono materialmente volare grazie al carburante che arriva dai porti turchi passando per gli oleodotti del regime panturco “cugino”, quello dell’Azerbaijan, sostenuto dallo stesso Israele con armi e addestramento.



PULIZIA ETNICHE E CONVERGENZE DI VARI "ASSI"

Erdogan è legato ad Hamas dalla matrice politica dei “Fratelli Musulmani”, una sorta di partito democristiano islamico, ufficialmente bandito e combattuto dal padre di Assad negli anni ‘60 e che ha “cavalcato” la primavera araba siriana. Nonostante le relazioni politiche altalenanti sia con l’Egitto di al-Sisi (che ha rovesciato il “fratello musulmano” Morsi) sia con la fratellanza musulmana all’interno della Turchia, i legami con l’autocrate panturco si riflettono anche in un piano di colonialismo di insediamento e ingegneria demografica” (o di “sostituzione etnica”), attuato dalle milizie antigovernative siriane supportate da Ankara a partire dall’invasione di Afrin nel 2018. Vengono costruiti insediamenti nei territori occupati nel nord della Siria dove sono trasferiti, volontariamente o meno, decine di migliaia di persone, in prevalenza rifugiati interni siriani (anche palestinesi) oltre alle famiglie di alcuni combattenti. Tutto ciò avviene a danno delle comunità di altri gruppi etnici locali che sono dovuti fuggire o che sono stati forzati a “integrarsi”.

Il piano viene messo in pratica da diverse organizzazioni non governative turche, palestinesi, pachistane e dei paesi del Golfo sotto il “mantello” delle operazioni umanitarie, e per questi scopi hanno anche sfruttato la tragedia del terremoto che ha provocato devastazioni tra Siria e Turchia.

Ricordiamoci di tutto ciò quando sentiamo dire dai fascisti sionisti israeliani e dai fanatici ebraici che i palestinesi non esistono, che la Palestina è un falso storico e che sono solo “arabi” da sfollare verso altri paesi “arabi” per adempiere la promessa divina della “Grande Israele”... Seguendo questa rozza e perversa logica, un gruppo etno-religioso potrebbe portare a compimento la pulizia etnica dell'attuale Canada o di Malta: parlano tutti inglese e sono tutti “angli”, per cui se ne vadano a vivere nei paesi anglofoni o accettino lo sterminio...

Davide Grasso, ricercatore ed ex combattente delle YPG, ha recentemente pubblicato una ricerca su questa “pulizia etno-politica”, e un articolo intitolato “Colonialismo d’insediamento e solidarietà transnazionale: quale critica verso nuovi assi della resistenza?” (apparso il 28/10/2024 su “Dinamo Press”).

Grasso invita tutti i movimenti a una convergenza in nome della solidarietà e, di riflesso, contro le convergenze dei diversi tipi di colonialismo e oppressione, riscontrando una certa lontananza, se non addirittura ostilità, proprio tra le basi dei movimenti per la liberazione di Kurdistan e Palestina. Movimenti che, storicamente, hanno avuto e continuano ad avere molti punti di contatto, anche sul campo di battaglia. Il ricercatore critica (come abbiamo fatto tra queste pagine digitali) il cosiddetto “asse della resistenza”, ossia tutte le organizzazioni orbitanti nella sfera di influenza iraniana. Un “asse” <<tutt’altro che omogeneo>> e che molti “a sinistra” identificano come l’alfiere dell’anti-imperialismo statunitense ma che, in realtà, costituisce un altro “asse della repressione”. Pragmaticamente, argomenta Grasso, non si può biasimare un popolo oppresso che resiste in ogni maniera e con ogni alleato a una decennale occupazione illegale, dopo che tutto il presunto “mondo civilizzato” lo ha abbandonato. E questa è una considerazione condivisa anche da tante vittime arabe innocenti imprigionate, torturate, affamate e parenti di quelle uccise dal governo siriano, da Hezbollah e dell’Iran. Nonostante tutto restano comunque solidali con la lotta palestinese senza farsi troppe illusioni e senza vedere nelle organizzazioni militari, sia sciite che sunnite, degli eroici salvatori senza macchia.

Ricordiamo questo a tutti quelli che dicono, con polemico vittimismo: “dove erano i pro-Pal quando Assad ed Hezbollah massacravano palestinesi ed altri arabi?! Protestano solo ora perché ce l’hanno a morte con Israele”. A questi ingenui polemisti bisognerebbe spiegare che i cosiddetti “pro-Pal” occidentali devono prioritariamente protestare contro i loro governi, quelli che finanziano e hanno strettissimi rapporti con altri governi “occidentali” i quali attuano politiche illegali di colonizzazione e genocidio da decenni. Perché i cittadini dei paesi NATO dovrebbero avere la priorità di protestare contro l’Iran se la NATO (o gli USA che dirsi voglia) finanziano direttamente Israele (anche con donazioni di armi), e non certo l’ “asse del male” iraniano?! Poi, con questi polemisti vittimisti, bisognerebbe anche discutere su come l’“asse del male” statunitense soffia sul fuoco di queste guerre, come stiamo facendo tra queste righe digitali...

Messe da parte le considerazioni realistiche di breve termine, la critica delle dinamiche coloniali e oppressive dovrebbe superare questi pragmatismi tattici per costruire degli “assi della convergenza” coerenti e strategici. Nell’articolo si parla delle succitate convergenze della fratellanza musulmana e dei settori reazionari in Palestina, Turchia e nei paesi del Golfo: <<la branca di Hamas attiva nella guerra siriana, Aknaf Bayt al-Maqdis, ha approfittato nel 2018 delle politiche neo-coloniali turche per insediare i propri militanti e le rispettive famiglie nella provincia di Aleppo con gli stessi gruppi che saccheggiano le risorse e l’ecologia locale (ad esempio la produzione e il commercio di olio di oliva ad Afrin). Personalità legate ad Hamas si sono non a caso congratulate pubblicamente con Erdoğan per l’invasione di Afrin nel 2018 («Si spera che saremo tutti benedetti dalle vittorie della Ummah islamica in molte parti del mondo, come ad Afrin»), come con Aliye per quella delle regioni dell’Artzakh che, nel 2023, avrebbero condotto all’espulsione dalle loro terre di centinaia di migliaia di abitanti armeni>>. Ci sono poi dei settori conservatori curdi che convergono con Israele in chiave anti-araba, oltre che in chiave anti-Ayatollah. Ricordiamo che lo slogan “donna, vita e libertà”, scandito in tutto il globo nelle proteste contro la teocrazia iraniana a partire dal pestaggio mortale della curda Mahsa Amini, deriva proprio dalla resistenza curda. Tante forze conservatrici, incluse quelle israeliane, hanno fatto proprio questo motto snaturandone il suo significato originario. Le forze conservatrici curde, presenti in maggioranza nel nord dell’Iraq (oppure quelle appoggiate dai politici del governo regionale semi-autonomo del Kurdistan iracheno, come il Consiglio Nazionale Curdo in Siria) <<dagli anni Settanta cooperano con Israele e sono ostili al movimento socialista in Rojava, supportano in Siria (per un paradosso soltanto apparente) proprio le forze che Hamas ha a lungo sostenuto (ad esempio Liwa Omar Ibn al-Khattab, parte di Jaish al-Haramoun), e che sono sostenute anche da Israele stesso>> in chiave anti-Califfato e anti-Assad. Mentre Hamas, negli ultimi anni, “ha fatto pace” con il dittatore siriano su spinta di Iran e Hezbollah per contrastare la normalizzazione di vari paesi arabi con il sedicente stato ebraico (i cosiddetti “accordi di Abramo”).

Le vere intenzioni delle varie potenze statali e parastatali, e quelle delle singole persone che le costituiscono, non potranno mai essere comprese nella loro interezza, così come non si possono afferrare tutte le sfaccettature delle ragioni della guerra o tutte le sfumature delle intenzioni di un singolo leader. Tuttavia possono e devono essere raccolti, descritti, ipotizzati e verificati tanti “pezzetti” di verità. Ancora più arduo, poi, è metterli in relazione. Secondo alcuni ci sarebbero dei collegamenti molto precisi tra le varie diramazioni dell’organizzazione dell’islam politico più diffusa al mondo (la Fratellanza musulmana), il regime vassallo della NATO di Erdogan che si proclama alfiere della “Umma” (la comunità islamica) e il sedicente stato islamico, nonché sulle connessioni tra forze reazionarie palestinesi e turche. Khaled Meshal, possibile successore di Yahya Sinwar al vertice di Hamas, nel 2011 avrebbe convinto Erdogan che il rovesciamento di Assad era fattibile. In quel periodo e a tal fine, con l’approvazione dell’allora segretaria di stato USA Hillary Clinton, la Turchia avrebbe quantomeno chiuso un occhio sui passaggi di combattenti tramite la cosiddetta “autostrada della Jihad”. Si tratta del corridoio che ingrossava le file dei combattenti di “Daesh”, provenienti anche dall’UE, facendoli transitare dai confini della “Sublime porta” alla Siria. L’allora vice presidente USA “Genocide” Joe Biden, nel 2014 ammise che la Turchia <<aveva lasciato troppi “foreign fighters” attraversare i suoi confini verso la Siria (…) il problema più grande erano i nostri alleati. I turchi, i sauditi, gli emiratini, ecc., che stavano facendo? Erano così determinati a buttare giù Assad e, di fatto, a combattere una guerra per procura tra sunniti e sciiti. Cosa hanno fatto? Hanno fatto piovere miliardi di dollari e decide di migliaia di armi nelle mani di chiunque avesse combattuto Assad>>. I nord-americani, inoltre, avevano previsto la costruzione di un’entità statale salafita. Infatti, dopo una frattura con al-Qaeda, nascerà l’ISIS nel 2014. “Genocide” Joe Biden ritrattò parzialmente la dichiarazione, chiarendo che Stati Uniti e alleati non avevano deliberatamente contribuito alla nascita del Califfato.

In parole povere, i diversi interessi dell’ “Occidente”, le sue singole identità, aziende, i vari scopi dei gruppi di potere e i governi che fanno gli interessi del complesso militare industriale, non avrebbero “creato” l’ISIS solo con il risentimento causato dagli spargimenti di sangue, dalle torture nelle prigioni, dall’uccisione di tantissimi innocenti, con il vuoto di potere e la mancanza di riferimenti politico-economici seguito alle “guerre per esportare la democrazia” e “lottare il terrorismo” in Afghanistan e in Iraq. Lo ha fatto anche facendo transitare armi e “foreign fighters” (per alcuni addirittura in maniera intenzionale e studiata) seguendo dei calcoli cinici e, presumibilmente, anche errati per gli affari di alcuni attori in gioco. Si tratta di un “gioco degli scacchi”, di una “partita a Risiko” di cui a pagarne le conseguenze sono le masse di oppressi e marginalizzati, inclusi alcuni fanatici combattenti illusi e impiegati come “carne da cannone”.



L’ATTACCO ALLA TUSAS DEL “BATTAGLIONE DEGLI IMMORTALI” A UN ANNO DI DISTANZA DA UN ALTRO RIVENDICATO DALL’HPG, E A DUE ANNI DA UN ALTRO A ISTANBUL, ANCORA SENZA MANDANTI

Il 23 Ottobre, poche ore dopo le dichiarazioni del “lupo grigio” e la notizia della visita a Ocalan, è arrivata un’altra notizia. Due persone armate e a volto scoperto hanno attaccato ad Ankara la sede della TUSAŞ, azienda aerospaziale e militare di stato, dove si producono strumenti di morte ed erano presenti anche dei dipendenti dell’italiana Leonardo. Stando a quanto riportano le cronache, dopo l’intervento delle forze speciali ci sono stati circa venti feriti e cinque morti, oltre ai due guerriglieri. Due giorni dopo arriva la rivendicazione delleForze di Difesa del Popolo” (HPG), l’ala militare del PKK. Si afferma che non c’è nessun collegamento con i recenti eventi politici, incluse le dichiarazioni di Bacheli, in quanto questo genere di azioni militari vengono pianificate in largo anticipo e non sono frequenti. L’attacco è definito come un’<<azione sacrificale>> di due membri di <<un team autonomo del Battaglione degli Immortali>>, Mine Sevjîn Alçiçek (nome di battaglia Asya Ali) e Ali Örek (nome di battaglia Rojger Hêlîn). <<Non c’è un’azione più legittima per ogni organizzazione patriottica, istituzione e persona del Kurdistan, di agire contro dei centri in cui le armi per i massacri vengono prodotti>>, si legge nel comunicato. Si afferma poi che non vengono <<mai presi di mira civili anche se in passato si sono verificati fatti del genere, sia involontariamente, per necessità o in altre maniere>> non meglio specificate... <<Il nostro Movimento ha spiegato e fatto auto-critica su ciò ai nostri popoli. A ogni modo, la TUSAS era un obiettivo militare, nessun obiettivo civile è stato colpito in questa azione, eccetto una persona per necessità. Crediamo che se le persone sinceramente patriottiche, democratiche, di sinistra e dei circoli socialisti in Turchia guardassero a questo incidente con empatia, vedrebbero la giusta verità>>. A questo proposito, bisognerebbe parlare a lungo del coinvolgimento dei civili in azioni militari da un punto di vista legale e morale... Intanto, per chi volesse approfondire l’argomento da una prospettiva legale, segnaliamo questo articolo in cui si fornisce una concisa definizione di “civile” in un conflitto armato, quest’altro sui cosiddetti “scudi umani e, infine, la registrazione di un seminario (in inglese) dell’Institute for Palestine Studies, in cui si affrontano i principi fondamentali del “diritto umanitario internazionale” (le leggi di guerra).

Relativamente alle considerazioni politiche e morali riguardo all’attacco è utile citare Selahattin Demirtaş, fondatore dell’HDP (il partito “genitore” del DEM) che dalle galere turche condusse una campagna elettorale “a distanza”: <<Condanniamo l’attacco. Possa Dio perdonare quelli che hanno perso la loro vita. Esprimiamo condoglianze alle loro famiglie e auguriamo una pronta guarigione ai feriti. La visione che cerca di prevenire la risoluzione dei nostri problemi tramite dialogo e politica dovrebbe farci capire che se Ocalan prende l’iniziativa e vuole aprire la via per la politica noi lo supporteremo con tutta la nostra forza>>.

Ritorniamo alla cronaca ricordando che un anno prima, il primo ottobre del 2023, lo stesso battaglione aveva compiuto un altro attacco “sacrificale” e <<atto di eroismo>> contro il direttorato della sicurezza del ministero degli interni turco poco prima dell’inizio della stagione parlamentare. Un luogo <<in relativa vicinanza a una struttura considerata un centro di tortura e massacro>>, come si spiega nel comunicato diffuso allora. Secondo il centro di comando militare del PKK, i dati ufficiali di due membri delle forze armate turche feriti rappresentavano una negazione <<delle perdite sofferte in questa azione (...) Questa azione è un atto di legittima difesa contro il disprezzo dei diritti umani calpestati, contro le leggi nazionali e internazionali; contro le pratiche inumane e le politiche di isolamento implementate in tutte le prigioni della Turchia e del Kurdistan; contro l’impiego di armi chimiche dirette alle forze della nostra guerriglia, nonostante la validità universale della Convenzione sulle Armi Chimiche; contro il saccheggio della nostra natura e l’ecocidio in Kurdistan; contro l’oppressione del popolo curdo e di tutti i circoli democratici. Se il regime dell’AKP/MHP non fermerà i suoi crimini genocidi e motivati dal fascismo, continueranno le azioni legittime nel senso della giustizia rivoluzionaria>>.

Ricordiamo anche che ci fu un altro attentato dinamitardo nel centro di Istanbul nel Novembre del 2022, mai rivendicato dal PKK o da altre organizzazioni orbitanti nella sinistra curda e di cui non si conoscono ancora i mandanti. I responsabili di quei 6 morti e circa 80 feriti, forse, li scopriranno gli storici consultando qualche archivio segreto. Ci sono state diverse ipotesi a riguardo: potrebbe essere stato compiuto da gruppi affini ai “Falchi per la libertà del Kurdistan” (TAK) che alcuni considerano un’emanazione dei servizi segreti turchi, mentre altri li ritengono uno strumento nell’orbita di alcuni settori del PKK per compiere “lavori sporchi” (o forse entrambe le cose); si è ipotizzato il coinvolgimento dei più volte citati “lupi grigi”, dato che dall’utenza di un politico ultra-nazionalista dell’MHP erano partite telefonate alla presunta attentatrice (ufficialmente condannata dal sistema il-legale turco dopo che il caso era stato risolto in una giornata); infine, si è ipotizzato un legame tra la presunta attentatrice con l’Esercito Nazionale Siriano (precedentemente nominato “Esercito Libero Siriano” e noto con gli acronimi FSA o TFSA) appoggiato dalla Turchia contro la Siria.




Sopra un frame dell'attacco, con i guerriglieri che imbracciano dei fucili di assalto. Sotto il sito di "Gerila tv", dove si vede un'immagine dei due sorridenti, che con la mano fanno il simbolo della vittoria. Si intravedono anche altri elementi del sito come dei video dedicati a "Reber Apo".
Immagini dei due guerriglieri dell'attacco alla Tusas diffuse da "Gerila tv".


Di sicuro c’è una cosa: dopo ogni attacco o attentato, con delle responsabilità rivendicate oppure occulte, i raid contro la guerriglia del PKK e di altre formazioni “sorelle” vengono intensificati, oltre a essere ignorati, colpiti da una sorta di "embargo mediatico". A farne le spese non sono solo obiettivi militari ma soprattutto infrastrutture e persone civili. Mentre, giustamente, una significativa -ma ancora insufficiente- parte della società civile osserva e denuncia gli orrori e i crimini di guerra nelle martoriate terre di Palestina, un altro stato criminale agisce in maniera ancora più indisturbata del solito. Mentre si protesta, giustamente, contro l’invasione illegale di Putin dell’Ucraina, altri premier e criminali di guerra possono invadere via terra e via aria altri paesi sovrani. Ciò avviene perché i nostri governanti, insieme al ruolo fondamentale dei nostri colleghi dell’industria dei media, applicano un “doppio standard”, un doppio metro di giudizio diplomatico, legale e mediatico. Quando i crimini li commettono gli alleati di chi ti paga lo stipendio allora, devi difendere l’indifendibile, minimizzando oltre ogni logica le loro malefatte e amplificando fino all’inverosimile quelle della parte avversa.



STATO CURDO “SOVIETICO” O CONFEDERALISMO DEMOCRATICO?!

“Apo” pensava a una soluzione pacifica della questione curda da prima del rapimento nel Febbraio ‘99 in Kenya, ufficialmente operato dall’intelligence turca, ma secondo lui attuato anche dai servizi segreti israeliani grazie al tradimento di Russia, Italia e Grecia - sotto la regia della CIA, naturalmente. Prima dell’arresto-rapimento a Nairobi era passato anche per Roma, tappa di un tortuoso percorso geografico e diplomatico, quando al governo c’era Massimo D’Alema. Ramon Mantovani nel ‘98 lo aveva accompagnato in aereo da Mosca a Fiumicino. L’allora deputato di Rifondazione Comunista chiama in causa le autorità italiane in relazione al <<sequestro illegale in un territorio terzo>> di Ocalan. In quelle ore politici come Berlusconi parlavano dell’arrivo di un pericoloso terrorista. Il governo italiano subiva una serie di pressioni dalla Turchia e dal complesso militare industriale per farlo allontanare “di sua spontanea volontà”.



Ocalan bendato e ammanettato con sullo sfondo delle bandiere turche.
Immagine originale di Emertulker da Wikimedia


Ocalan avrebbe inteso avviare un processo di pace proprio dall’Italia. Le cronache dell’epoca riportano un frammento di un suo comunicato, apparso sul sito del movimento guerrigliero che aveva dato molto filo da torcere a uno degli stati più potenti della NATO. Ocalan, da alcuni considerato terrorista e da altri liberatore (una classica, dicotomica, manichea e polarizzante (di)visione che si ripete sempre) disse: <<mi oppongo a qualunque forma di terrore, anche se è originata da noi. Sono pronto a fare qualunque cosa in mio potere in maniera che termini immediatamente>>.

Marco Minniti, all’epoca sottosegretario di D’Alema, ha raccontato proprio in questi giorni che Ocalan stava per essere estradato dall’Italia in Germania, dove era stato spiccato un mandato di cattura internazionale <<per omicidio aggravato dal terrorismo>> di un oppositore politico interno al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (ci risulta che era ricercato in Germania anche per degli attacchi incendiari ad attività commerciali turche). Come in tutte le strutture autoritarie di “sinistra” erano necessarie delle “purghe”, eufemismo che indica l’eliminazione ideologica e fisica di qualunque dissidio e dissidente interno, di traditori veri, fittizi, o anche solo presunti. Eliminazioni funzionali a evitare divisioni, a non compromettere l’organizzazione e l’operatività di una struttura. Il prezzo è quello di snaturare gli stessi obiettivi ideali della lotta sotto la pressione di raggiungere obiettivi politici-militari per tentare di sfuggire, dannandosi, ad altre ingiustizie, in un ciclo di violenza continua.

Si sa pochissimo di Zülfü Gök, ammazzato nella Germania Ovest (a Rüsselsheim) nell’84, vicenda per cui Ocalan era ancora ricercato dopo la riunione tedesca. Però, la giornalista Aliza Marcus spiega che era uno di quattro militanti che avevano rotto con il partito e che furono assassinati nello stesso periodo in Europa. Avevano tutti lavorato con Çetin Güngör, alias “Semir”, vittima tra le più importanti della furia autoritaria all’interno del partito, sacrificata in nome di un supposto e burocratico “socialismo reale” che non ammette sfide ai dogmi e alla leadership. Un tipo di presunto “socialismo” che poi, negli anni, verrà abbandonato e criticato dallo stesso “leader Apo”, quando si renderà conto che ogni tipo di “dogma” genera “culti oppressivi”. Inviato all’inizio degli anni ‘80 in Europa per dare vita a delle reti di supporto nella diaspora curda, Semir nutriva già <<delle vaghe preoccupazioni sulla struttura autoritaria del PKK. Semir pensava che il PKK doveva ripensare le sue attività in Europa, al tempo dirette a raccogliere soldi e quadri per la pianificazione della guerra. Pensava invece che gli attivisti del PKK in Europa dovevano rafforzare le comunità curde locali educando e assistendo la gente nei problemi quotidiani (…) e aveva bisogno di espandere le sue relazioni al di là dei gruppi marginali di sinistra, includendo partiti politici più mainstream e organizzazioni non governative (…) “Semir non era una persona dogmatica”, spiega Selman Arslan, precedentemente un militante del PKK che aveva lavorato con lui in Europa. “Per lui, tutto poteva essere messo in discussione, dibattuto, le decisioni non dovevano arrivare dall’alto… Voleva che le persone impiegassero le proprie esperienze, la propria autonomia, che prendessero decisioni (…) Nonostante la crescente pressione degli emissari di Ocalan, Semir (…) si rifiutò di cedere sulle sue idee, chiarendo che il PKK aveva bisogno di moderare la sua struttura interna di governo, di stampo leninista (…) in una lettera aperta ai suoi compagni in Europa del 10 Maggio dell’83 scrisse: “Il dogmatismo interno del partito si è rivelato essere più forte di me. Per questo lasciare i ranghi del partito [per adesso] è un’onorabile e necessaria decisione”>> (citazioni tradotte da “Blood and Belief. The Pkk and the Kurdish Fight For Independence” di Aliza Marcus, New York University Press, 2007, cap. “The PKK Consolidates Power” pg. 89-91). Semir, alcuni anni prima, era stato sequestrato e rinchiuso nel suo appartamento in quanto sospettato di aver collaborato con un informatore, Sahin Donmez. Il partito gli impose di non rivelare la vicenda o la sua vita sarebbe stata a rischio. Rimase dedicato alla causa curda ma continuò anche a scontrarsi duramente con la logica autoritaria del partito, arrivando a definirla “fascista” e chiamando Ocalan uno “psicotico”. A sua volta era stato definito “traditore” da un giornale interno al partito, il ché equivaleva a una condanna a morte, perlomeno politica... Braccato da membri operativi del partito in Germania, si trasferì e ottenne asilo in Svezia, dove si trovavano anche altri dissidenti del PKK. Dopo aver tenuto un basso profilo e pubblicato alcuni scritti sulla democrazia, decise di ritornare sulla scena politica e, così facendo, sfidando apertemente la leadership di Ocalan. Fu freddato, sparato alle spalle da un altro curdo durante la sua prima apparizione in pubblico a un incontro di attivisti a Stoccolma. L’assassino provò a scappare invano da una finestra. Ha dichiarato che l’omicidio era dovuto a questioni personali. Eppure, un volantino del PKK definiva Semir come <<un agente provocatore portato di fronte alla giustizia dal nostro popolo>> mentre “Reber Apo” dichiarò che <<sarebbe stato ucciso dovunque si fosse trovato>>. Molte altre vittime delle "purghe" erano legate proprio a Semir, e non tutte furono assassinate in Europa...

Semir si rendeva conto di una questione cruciale, dibattuta sin dalle origini della “sinistra”, che ancora oggi marca al suo interno una linea di divisione strategica e ideologica: la società ideale (che possiamo chiamare “socialista” e di “pura democrazia”) doveva essere raggiunta tramite la più complessa pratica della democrazia partecipata, inclusiva, plurale, e non tramite decisioni imposte dall’alto da un’avanguardia, sia che essa venga effettivamente scelta dalla massa o che si dichiari tale. In altre parole: la vera, fruttifera rivoluzione con effetti di lungo termine, permanenti, è insita in una dialettica tra pratica e teoria che ammette costantemente dubbi, discussioni, con obiettivi verso cui si tende perennemente e indefinitamente. In parole ancora più povere: la società ideale (“socialista” o “democratica”) dovrebbe venire prima -o forse svilupparsi al contempo- della rivoluzione, e non viceversa. Le “dittature del proletariato”, i “colpi di mano”, le rivolte sono delle false -o comunque incomplete- rivoluzioni, delle “scorciatoie” politiche e militari che replicano le dinamiche oppressive che quella presunta rivoluzione dovrebbe risolvere.

Ritornando alla vicenda del sequestro dell’allora Presidente del PKK, questi non aveva timore di quel processo in quanto, a suo dire, era basato su accuse inconsistenti, come dichiarò sempre al parlamentare Mantovani. In effetti Marcus (la studiosa succitata) argomenta che molte esecuzioni dei “rinnegati” del PKK non erano state ordinate direttamente da lui, ma che comunque all’interno del partito si era creato un clima per cui l’eliminazione di un “traditore” o una “traditrice” era scontata e avallata.

Ocalan, oltre che dalla Germania, era ricercato anche dalla Turchia, ma l’Italia non poteva accogliere la richiesta turca in quanto lì vigeva la pena di morte. Minniti racconta che <<noi lo avevamo arrestato perché c’era un mandato di cattura internazionale spiccato dalla Germania. La cosa era semplicissima da risolvere (…) lo avremmo mandato in Germania nel giro di 48 ore>>, scaricando così il barile sui tedeschi, dove si temevano scontri e sommosse se “Apo” fosse arrivato fisicamente lì. Però, l’equivalente della nostra Corte Costituzionale tedesca, derubricò il mandato di cattura da internazionale a nazionale, scaricando il barile sull’Italia e, così facendo, <<piegando la vicenda all’interesse nazionale>>. Tuttavia, le cronache di allora, parlano della possibilità, espressamente prevista dalla legge tedesca, di non implementare un’estradizione per ragioni di ordine pubblico. Dando per buona la visione di Minniti sulla legge tedesca, qualcuno pensa che a “piegare” il diritto su questo supposto interesse nazionale (dovremmo chiamarlo interesse geopolitico del complesso militare industriale) furono anche le autorità italiane che dichiararono il falso. Il ministro della difesa Scognamiglio spiegò alla stampa che, siccome Ocalan era entrato illegalmente in Italia, e mancando una richiesta di estradizione dalla Germania, non c’era altra possibilità che espellerlo. Ma, secondo il già citato deputato di Rifondazione, le cose non stavano così: è vero che Ocalan al suo arrivo in Italia aveva un passaporto falso però, lo stesso Mantovani, gli aveva consigliato di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici e chiedere asilo. Un comportamento del genere non può essere inquadrato come un’entrata clandestina nel paese, per cui <<il governo mentì circa l’ingresso di Ocalan in Italia (...) Non tentò di passare clandestinamente la frontiera come disse la stazione di Polizia dell’aeroporto e poi il governo italiano>>, che minacciò anche la possibilità di togliergli la scorta. Secondo questa versione, anche se a mentire fossero stati solo gli organi di polizia con un verbale di arresto che attestava il falso, e cioè che aveva presentato un documento falso per poi essere arrestato, <<una volta appresa la verità il capo del governo avrebbe dovuto perseguire eventuali funzionari di stato infedeli>>. Dopo che i governati di “centro-sinistra” si erano prima detti contrari a concedergli l’asilo, mentre al contempo affermavano di non avere voce in capitolo sulla vicenda, un tribunale italiano metterà nero su bianco che Ocalan godeva di quel diritto… Ma lo stabilirà mesi dopo il suo rapimento in Kenya e contro il parere dell’Avvocatura di stato!

Il “Gramsci curdo” in prigione sveste i panni dell'autoritario leader-guerrigliero per diventare autorevole studioso e teorico, profondo nella sua semplicità, scrivendo testi che abbracciano filosofia, antropologia, storia e scienza politica. I suoi scritti sono diventati un pratico punto di riferimento per gli idealisti libertari e per la sinistra tutta. Mettendo da parte le aspirazioni irredentiste e gli aspetti deterministici e dogmatici del materialismo storico marxista, dalla prigione teorizza il modello del Confederalismo Democratico. Secondo il mutato pensiero dell’ex guerrigliero marxista-leninista, dando vita a uno stato curdo si replicherebbero le dinamiche gerarchiche e oppressive, quelle tipiche di nazionalismo e capitalismo, un connubio micidiale che amplifica le sopraffazioni insite in tutte le strutture di potere. Strutture esistenti fin dai tempi dei Sumeri in diverse forme, con il passaggio da un modello di schiavitù privata a una “statale”. La sostanza però è la stessa, quella dell’oppressione specista, patriarcale e capitalista. L’obiettivo non dovrebbe essere, dunque, quello di creare un nuovo stato-nazione curdo indipendente, ma di guadagnarsi spazi di autonomia all’interno dei confini politici -e artificiali- dei vari stati-nazione, accettando alcuni compromessi per diffondere gradualmente un modello di democrazia assembleare e diretta, ispirato dal “Municpalismo libertario” di Murray Bookchin.

La convivenza degli organismi autogestiti all’interno delle strutture statali resta uno degli aspetti più contraddittori e controversi di questo pensiero: <<Né il completo riconoscimento né il totale rifiuto dello stato sono utili per gli sforzi democratici di una società civile>> scrive Ocalan. Elementi del vecchio e del nuovo, e cioè del modello statale attuale e di quello concretamente democratico, potrebbero convivere in una fase di transizione. Secondo Ocalan lo stato non può essere abbattuto di punto e in bianco insieme a delle funzioni, come quelle in materia di difesa e sicurezza. Il suo ruolo però andrebbe fortemente e gradualmente ridimensionato, mentre le strutture autogestite dal basso dovrebbe ampliare le proprie funzioni, prendendosi carico di tutto ciò in cui lo stato si rivela inefficiente, preparandosi all’autodifesa dell’autonomia non solo dal punto di vista militare. Idealmente e gradualmente lo stato dovrebbe o potrebbe scomparire proprio quando il modello confederalista-democratico dimostrerà la sua poca o nulla utilità.

Con l’equa mediazione tra diversi interessi, la messa in discussione di diversi punti di vista per superare conflitti interni, l’attitudine alla cooperazione e l’autocritica si avvierebbe un processo auto-trasformativo che, in ultima istanza, supererebbe le “religioni” del profitto e dello stato nazione, giungendo a una “civiltà democratica”, opposta alla autoritaria civiltà e “modernità capitalista”. Per sostituire una società gerarchica con un’altra comunitaria le decisioni più importanti si prendono in varie strutture a livello locale. Man mano che si sale di livello, nei vari organismi che costituiscono le confederazioni, diminuiscono i poteri decisionali dei delegati e delle delegate. Le loro cariche sono revocabili e le decisioni prese dai livelli più alti di questa struttura confederale devono essere emendabili o annullabili dal livello più basso.

Questo modello e la sua strategia pluralista possono essere adattati in diversi contesti, anche se quello per cui è stato progettato originariamente è quello medio-orientale. Il primo esperimento pratico dei principi delineati da Ocalan e da altri teorici della democrazia diretta si sperimenta nel Nord-Est della Siria (o Kurdistan occidentale), la sopra-citata regione de facto autonoma nota ai più come Rojava. La comunità curda, insieme a tutte le altre etnie dell’area, ha riempito un vuoto lasciato dal regime di Assad e minacciato dal jihadismo, conquistando uno spazio di autonomia proprio dopo aver combattuto l’ISIS. A partire dal 2016, trovando una serie di compromessi tra le eterogenee comunità e le rispettive culture, è stata istituita una forma di governo che fonde democrazia diretta e parlamentare, regolata da un Contratto Sociale

Consiste in sette cantoni che si autogovernano, riuniti nell’"Amministrazione Democratica Autonoma della Siria del Nord-Est" (DAANES nel nuovo acronimo, in seguito al rinnovato contratto sociale dello scorso dicembre. Per avere un’idea della struttura e del funzionamento di questo sistema segnaliamo il sito della rappresentanza dell’AANES in Europa, e questo video del canale Youtube “La geopolitica di Fabrizio Eva a partire dal minuto 17 e 30 secondi).

Esistono ovviamente delle contraddizioni, come in tutti i contesti rivoluzionari, risultato di stringenti priorità e scelte pragmatiche. Le più note YPG/YPJ (“Unità di Protezione Popolare”), osannate ai tempi dell’offensiva contro l’ISIS, confuse con i “peshmerga” e oggi dimenticate dall'"Occidente", fanno parte delle SDF (“Forze Democratiche Siriane”), le forze armate che difendo la DAANES. Mentre le SDF sono alleate con gli USA per arginare la minaccia jihadista, non completamente sventata, il secondo esercito più grande della NATO, la Turchia, li vuole annientare. Con l’ “asse” russo-siriano esiste una sorta di patto tacito di non aggressione. Qualora gli Stati Uniti di Trump dovessero ritirarsi dall’area per concentrarsi maggiormente su altri affari e fronti come quello ucraino (altamente improbabile) o quello cinese (più credibile), le SDF potrebbero essere spinte verso la sfera di influenza iraniana per non essere vittime della minaccia esistenziale turca.



Combattenti donne schierate in due file si stringono la mano. A tracolla hanno un kalashnikov e alcune indossano dei copricapi.
Le combattenti delle YPJ in una foto di Kurdishstruggle da Wikimedia


In più, non tutte le fazioni degli organi che sono derivati dal PKK, o che ruotano nella sua orbita, vedono di buon occhio il nuovo ideale e indefinito paradigma rincorso da Ocalan. Chi scrive questo articolo sembra percepire questo genere di contraddizioni anche in alcuni richiami patriottici dei comunicati stampa rilasciati dall’HPG e sopracitati, richiami che mi sembrano accompagnati da una sorta di vetusto e infruttuoso “culto del leader”, più che delle sue rinnovate idee, oltre al culto del martirio.


Sullo sfondo palazzi distrutti e macerie. 7 persone in uniforme e armate di Kalashnikov espongono due bandiere (una della pace e una del TQUILA con una "A cerchiata" e un kalashnikov su sfondo rosa). Su uno striscione, oltre a due "A cerchiate", si legge: <these faggots kill fascists TQILA-IRPGF>
Immagine di alcunə combattentə internazionalistə del "The Queer Insurrection and Liberation Army" a Raqqa pubblicata dall'"International Revolutionary People's Guerrilla Forces" su Wikimedia


Diversi tipi di poteri e di potenze vedono con paura e rabbia l’esperimento libertario del Rojava. Anche se dovesse scomparire o snaturarsi, non spariranno mai i sogni e gli esperimenti concreti di un modello di gestire la società diverso. L’esperimento dell’amministrazione autonoma e democratica dimostra che un altro modo di auto-organizzare le nostre vite, vale a dire la politica in senso lato, non solo è possibile ma è anche una priorità.

Paolo Maria Addabbo




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ultima modifica 17/11/2024 18:46

2 commenti:

  1. Se gli Stati Uniti si ritirano l'Iran può attaccare Israele più facilmente. A Israele i curdi possono fare comodo come l'ISIS perchè tengono impegnati i suoi nemici. Lo stesso vale per la Turchia che vuole sfruttare i curdi contro Iran e Israele.

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    1. Lo Skietto di Fanrivista17 novembre 2024 alle ore 18:51

      Gentile Heval Astro, ti ringraziamo per questo conciso e incisivo commento che aiuta a comprendere i mutevoli e ipocriti interessi delle varie potenze statali. Per afferrare la sfaccettata realtà servono i contributi della altrettanto variegata collettività. Grazie ancora del prezioso parere!

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