3.12.22

"EMBARGO MEDIATICO” IN ROJAVA

FERMIAMO L’ESCALATION MILITARE

Siamo a 16 giorni dall’inizio dell’operazione “Spada ad artiglio (alcuni la traducono come “Artiglio Spada”, in inglese “Sword Claw”) con bombardamenti aerei, droni, cannoni e carri armati da parte del governo turco nel territorio siriano del Rojava, spacciata come vendetta per l’attentato di Istanbul e violando per la prima volta lo spazio aereo controllato da Russia e USA (anche se alcuni ipotizzavano una complicità della prima, in antitesi alla tesi della violazione).




Foto di un giacimento di petrolio in fiamme tratta dal sito delle YPJ. Nel paragrafo che segue si parla anche della questione energetica in Rojava



IL BILANCIO DELLE VITTIME E L’INTRICATO CONTESTO DELLA GUERRA CIVILE SIRIANA

Stando alle cifre diffuse dalle autorità del Rojava sono stati effettuati all’incirca almeno 4000 attacchi con aerei, droni e veivoli comandanti a distanza, artiglieria pesante e carri armati (mentre da tempo si denuncia e si indaga anche sul possibile uso di armi chimiche). Almeno 15 le vittime civili, la maggioranza morte in uno dei primi attacchi la notte del 19 Novembre, a Derik. In quell’attacco si è usata la tattica “Double Tap”, che consiste nel lanciare un primo bombardamento e, una volta che i soccorsi arrivano sul posto, attuarne subito un altro, in questo caso specifico con un drone. Secondo la testimonianza di un cittadino, Mihemed Ebddurehim, il secondo attacco, in cui è rimasto ucciso anche un cronista, è avvenuto <<dopo che le forze americane erano giunte sul posto. Uno di loro è sceso dalla macchina e ha guardato il suo telefono per poi andarsene via di fretta>>. I soldati, mercenari e agenti di polizia delle forze speciali colpiti e uccisi dalle SDF e dalle formazioni militari collegate sarebbero più di 20. Le perdite si aggirerebbero intorno alle 20 unità, includendo anche i soldati che gestiscono i centri di detenzione dei miliziani dell’ISIS, quasi 30 se si includono anche le forze del governo siriano. Svariati i feriti in circa 80 centri abitati, e 22.000 studenti hanno dovuto fermare i loro studi: in Rojava studio e formazione sono fondamentali e difficilmente vengono interrotte nonostante le difficoltà.

Stando invece alle dichiarazioni del governo turco sarebbero almeno 250 i militari uccisi degli schieramenti avversari (incluse le forze di Assad) negli attacchi e quasi 500 gli obiettivi colpiti. Sarebbero tre i civili uccisi da un colpo di artiglieria che pare sia partito da Kobane, secondo le autorità turche addebitabile ai “terroristi del PKK e delle YPG”, e caduto vicino a una scuola.

Il governo siriano nega di aver risposto al fuoco e bisogna ricordare che lungo tutto il fronte (circa 700 KM) -oltre che nello scenario più ampio della guerra civile siriana- operano, oltre ovviamente ai soldati statunitensi, anche i russi e le truppe di Hezbollah filo-iraniane (che supportano principalmente il regime siriano e che potrebbe uscire rafforzato da questo conflitto), i siriani filo-Assad schierati con le SDF, la forza militare del Rojava a maggioranza curda: l’ “avvicinamento” tra questi due si va consolidando proporzionalmente alla minaccia turca. Quella della cooperazione con il regime di Assad, con cui esiste una sorta di “patto di non aggressione”, rappresenta un “scelta obbligata”, il “male minore” rispetto a quella che sarebbe una vera e propria pulizia etnica dei curdi da parte turca. Per questo il partito “barzaniano” KNC, opposto al PYD nel Consiglio Democratico Siriano -il “parlamentino”della regione autogovernata- all’accusa di dispotismo del Partito dell’Unione Democratica aggiunge quella di essere pro-Assad. A sua volta il PYD accusa il Consiglio Nazionale Curdo di essere in combutta con la Turchia e con le forze ribelli siriane a essa vicine).

La strategia militare del regime turco è chiara (così come quella mediatica): si inizia con bombardamenti aerei e via terra per “indebolire” la resistenza e la popolazione del Rojava (che non è formata solo da curdi, come spieghiamo e ribadiamo più avanti): bombe vengono lanciate contro ospedali, impianti per la produzione di grano, centrali a gas e idroelettriche (in una zona in cui l’elettricità c’è solo per poche ore al giorno) e anche i giacimenti di petrolio strettamente essenziali alla sussistenza e gestiti con un sistema economico cooperativo anti-monopolista: la maggioranza dell’energia nel Nord-est della Siria è idroelettrica e una parte minore è generata dal diesel, un tipo di cherosene altamente inquinante ma purtroppo anche l’unica risorsa per riscaldare appartamenti e mettere in moto veicoli, dato che la costruzione di nuove dighe (fondamentale anche per l’approvvigionamento d’acqua da bere e da usare in agricoltura, nonché uno dei “fronti energetici” del conflitto) e di componenti per i pannelli solari, così come di quelli per sviluppare raffinerie proprie per “emanciparsi” maggiormente dal regime siriano (che importa petrolio dal Rojava), è ostacolata da un embargo “de facto” dei paesi confinanti.

Gli attacchi alle infrastrutture sono quindi preparatori a una più vasta offensiva via terra (sarebbe le quarta a partire dal 2016): erano mesi che la popolazione dell’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria (AANES) sentiva letteralmente “nell’aria” i preparativi militari attuati con diversi voli di ricognizione e posizionamenti lungo il confine. Ma il pretesto dell’attacco è stato servito su un piatto d’argento (se non addirittura “creato ad arte”) con l’attentato di Istanbul del 14 Novembre.

Infine il Comando centrale delle forse statunitensi ha confermato che un attacco con un drone ha messo in pericolo perfino le sue truppe.







LA RICOSTRUZIONE DELL’ATTENTATO E LA STRATEGIA DELLA TENSIONE A POCHI MESI DALLE ELEZIONI

A distanza di quasi venti giorni l’attentato non è stato ancora rivendicato ufficialmente da nessun gruppo, né curdo né jhiadista, mentre invece il governo turco in pochissime ore dichiarava di essere arrivato alla verità con un indagine lampo: l’attentatrice era stata addestrata come una spia dal PKK e militava nelle file delle YPG/YPJ (ricordiamo che solo la prima delle sigle citate è ancora inclusa nella lista delle organizzazioni terroriste di USA e UE, nonostante molti ne chiedano la rimozione). Nelle ore successive allo scoppio dell’ordigno nel quartiere Taksim spiegavamo come l’arresto della presunta attentatrice, Ahlam Al-bashir, insieme alla ricostruzione fatta “in fretta e furia” faceva acqua da tutte le parti, evocando uno scenario da strategia della tensione. Avevamo spiegato anche che un esponente del PYD ipotizzava una <<cospirazione orchestrata dallo stato turco>> e l’appartenenza della donna all’Esercito Libero Siriano, formazione militare opposta ad Assad e appoggiata dalla Turchia, mentre YPG/YPJ e il PKK negavano ogni legame con lei. Poche ore dopo arrivava la notizia, passata in sordina o totalmente “oscurata” dai media mainstream, delle telefonate partite dall’utenza di un politico ultranazionalista dell’MHP (partito alleato di Erdogan e vicino ai “lupi grigi”) verso quella dell’attentatrice: si è difeso dicendo che era stata registrata a suo nome con un documento falso, mentre forse si sarebbe dovuto indagare di più sulla possibilità di una maldestra operazione “sotto falsa bandiera”. Quattro giorni fa invece è stata diffusa la notizia che, oltre ai quasi 60 detenuti in connessione col caso ci sarebbe un latitante con un passato nelle YPG di nome Bilal Hassan, di cui è stata diffusa una foto con il logo della milizia di autodifesa. In una conferenza stampa la comandante Newroz Ahmed delle SDF (corpo militare che difende il Rojava la cui compenente principale sono le YPG/YPJ) ha dichiarato a proposito, negando ancora ogni coinvolgimento nell’attacco, che <<è possibile che abbia prestato servizio nei nostri ranghi, come moltissimi altri che poi hanno abbandonato il corpo o disertato tornando alla loro vita. Tutte le persone che vivono qui sono dei terroristi per Erdogan>>, e ha poi ribadito l’apertura a qualunque accertamento in merito alle responsabilità dell’atto terroristico in cui sono morte almeno 6 persone, spiegando che l’opinione pubblica internazionale è tendenzialmente sbilanciata verso la Turchia e pronta a credere alle sue fandonie per la minore riconoscenza internazionale dell’AANES. Aggiungiamo noi, restando nel campo delle ipotesi, che è possibile che quella persona non c’entri niente con l’attacco così come è possibile che anche se ha militato nelle YPG adesso sia al soldo del governo turco: è difficile stabilirlo in un paese in cui le più elementari libertà democratiche, inclusa l’indipendenza della magistratura, non esistono.

Di certo questo evento può anche essere strumentalizzato per fini elettorali, con l’antica strategia e arma di distrazione di massa del “nemico comune”, in modo da "tenere unita" la popolazione in nome di una presunta lotta al terrorismo fatta, paradossalmente, insieme ai terroristi “Daesh” islamici che si dice di combattere…



Foto della Mezzaluna Rossa Curda




I CAMPI DI DETENUTI DELL’ISIS, LE MILIZIE JIHADISTE SUPPORTATE DALLA TURCHIA E LA SOSPENSIONE DELLE OPERAZIONI GUIDATE DAGLI USA

Nel 2014 si è formata una coalizione internazionale per combattere il sedicente Stato islamico. La sconfitta dell’ISIS è avvenuta soprattutto grazie al sacrificio di migliaia di vite dei combattenti delle YPG/YPJ autoctoni e internazionalisti. Proprio grazie a questo contributo e a scontri come l’epica battaglia di Kobane la popolazione del Rojava è riuscita a “ritagliarsi uno spazio” nel nord-est della Siria (o Kurdistan occidentale): lì non vivono solo curdi ma anche arabi, siriaci, circassi, turcomanni, armeni e yazidi. Queste popolazioni e culture diverse, con religioni e credenze politiche che in passato hanno portato a combattere tra loro, stanno provando a sperimentare insieme una società diversa con una democrazia diretta costruita “dal basso” che ha come pilastri l’ecologismo e il femminismo. Tra svariate difficoltà e contraddizioni, insite nella natura stessa di un paese in guerra e di un processo rivoluzionario che ha pochissimi precedenti nella storia dell’umanità, queste persone possono essere un esempio per il Medio-oriente e per il mondo intero, contribuendo anche alla stabilità “geopolitica” dell'area, ma possono allo stesso tempo essere viste come una minaccia al “disordine costituito”. Queste persone per la prima volta hanno avuto un ruolo politico nell’area, hanno costruito una società, con le sue “istituzioni”, in maniera diretta e senza un modello democratico “esportato” dall’esterno.

Uno dei fardelli che pesa su di loro è la gestione di due grandi campi di detenzione (ad al-Hol e Roj) e delle carceri dove si trovano gli ex miliziani dell’ISIS e le loro famiglie. Molti provengono proprio dall’occidente, un occidente che non si prende carico dei suoi cittadini-terroristi. Le SDF denunciano da tempo che all’interno dei campi e nel resto dell’area ci sono delle cellule dormienti dell’ISIS che sarebbero “fomentate” e foraggiate dal regimo turco: in questa maniera si crea una minaccia “interna” e un grave problema di sicurezza in più da gestire, “tenendo impegnate” le forze delle SDF. La Turchia inoltre appoggerebbe anche altre forze della galassia jihadista (oltre che gli stessi esponenti dell’ISIS in particolare) per trafficare petrolio, armi e per avere più soldati da impiegare anche in altri fronti come quello libico e armeno, oltre che in chiave anti-curda ovviamente (come testimonia la presa di Afrin) e così esponendo maggiormente l’intero globo alla minaccia del terrorismo islamico.

Proprio in queste ore è arrivato l’annuncio di Aram Hanna, portavoce delle SDF, in cui dichiara che le operazioni per combattere l’ISIS della coalizione internazionale guidate dagli Stati Uniti sono terminate. Sul canale telegram delle YPJ si legge che l’ISIS <<sta beneficiando degli attacchi nel Nord-est della Siria>>. Circa un giorno prima Nesrin Abdullah, esponente della stessa milizia, dichiarava che <<se il Mondo continua a chiudere i suoi occhi noi non possiamo più farci carico della sicurezza dei mercenari jihadisti>>. Ancora un giorno prima veniva diffuso un video dell’emittente curda Ronahi con 4 minori, “i cuccioli del Califfato”: dichiarano di aver ricevuto una telefonata in cui si spiegava che, tramite dei trafficanti, sarebbero stati aiutati a fuggire contestualmente al caos creato con i bombardamenti aerei. Quei bambini, figli di terroristi, così come la loro sopravvivenza e la loro educazione dovrebbero essere dei problemi affrontati dal mondo intero,  e invece li lascia lì a marcire o ad aspettare l'occasione per rinforzare il barbaro estremismo islamico. La comandante YPJ Dilbirin Kobane ha sottolineato la schizofrenia dei bombardamenti Turchi verso i campi di detenzione degli jihadisti difesi con il supporto degli USA, cioè di un suo alleato.



 



IL FRONTE IRANIANO

Contemporaneamente anche l’Iran, in un momento di particolare debolezza interna, sta lanciando attacchi con missili e droni nella regione autonoma del Kurdistan iraqueno, volti a fiaccare la resistenza del popolo di cui faceva parte Mahsa Amini, la giovane picchiata a morte che ha infiammato le rivolte nella Repubblica islamica. Questi eventi potrebbero innescare la reazione del governo federale dell’Iraq mentre l’Iran dichiara che si fermerà soltanto quando i curdi iraniani lì presenti saranno disarmati. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha condannato l’attacco definendolo una <<sfrontata violazione della sovranità territoriale dell’Iraq>> invitando il governo degli Ayatollah a fermare gli attacchi: non ci sembra casuale che la condanna statunitense sia decisamente più “timida” nei confronti dell’operazione militare dell’alleato NATO turco, che “vanta” il secondo esercito più numeroso della coalizione e che sta usando il processo per l’entrata di Svezia e Finlandia nel patto atlantico come ulteriore arma di “ricatto politico”: oltre alla mediazione nel conflitto ucraino per far giungere a destinazione grano e fertilizzanti ha anche la storica leva della “regolazione” del flusso di migranti (pagata profumatamente con soldi europei).





LE TIMIDE O INESISTENTI REAZIONI DELLA COMUNITÀ INTERNAZIONALE E L’”EMBARGO” MEDIATICO

L’attenzione mediatica si è concentrata molto sull’attentato e, considerando i media mainstream, praticamente per nulla sull’operazione militare. Comunque c’è qualche segnale, a livello internazionale, di uno sforzo diplomatico (ancora non sufficiente): insieme alle timidissime (se non ipocrite) reazioni a non continuare con gli scontri da Russia e Stati Uniti, anche Cina e Germania hanno condannato l’operazione mentre una delegazione di parlamentari francesi annuncia che si recherà in Rojava.

 Diversi attivisti in tutto il mondo hanno iniziato diverse proteste, come il blocco dei check-in dei voli della compagnia di bandiera turca e l'accensione di fumogeni, che simbolicamente indicano l'uso di armi chimiche, davanti a luoghi come ambasciate e consolati, oltre a diversi cortei.

Il popolo curdo e del Rojava fa affidamento su di noi, noi “occidentali” che siamo “privilegiati” per essere nati in una parte del pianeta senza conflitti così duri e che, anche indirettamente, siamo responsabili di quanto avviene fuori dai nostri confini, verso latitudini “esotiche”: non bisogna arrivare a sacrifici estremi e generosi come quelli di “Orso” e delle altre e degli altri “martiri”, ma comunque bisogna assumersi delle responsabilità!

Sta a noi impegnarci per comprendere meglio e fare uscire “al di fuori” dell’area militante queste vicende, sta a noi fare pressione sui nostri governi e sulle aziende “di casa nostra” (in particolari quelle militari) per adottare misure come le sanzioni economiche contro la Turchia, sta a noi fare la nostra parte (anche se piccolissima) e protestare nella maniera che riteniamo più giusta per fermare l’escalation militare e la guerra nel Kurdistan e in tutto il mondo.


Paolo Maria Addabbo




Come di consueto concludiamo l'articolo con una citazione musicale, in questo caso relativa alla denuncia dell'uso di armi chimiche

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