16.12.22

SCRIVIAMO QUELLO CHE NON VORREMMO LEGGERE!

Partendo da un aforisma sul giornalismo (e dalle sue “varianti”) arriviamo a riflettere sui “massimi sistemi” della comunicazione e sul perché “scriviamo quello che non vorremmo leggere”!

 


<<La vera libertà di stampa è dire alle persone quello che non vorrebbero sentirsi dire>>

<<Giornalismo  è parlare di qualcosa che qualcuno non vuole sia scritto. Il resto è fare pubbliche relazioni>>

<<Dire una verità che qualcuno vuole non che sia pubblica è giornalismo, il resto è marketing>>

<<Le notizie sono cose che qualcuno non vuole siano pubblicate. Il resto è pubblicità>>

<<Qualunque cosa gli sponsor e la proprietà vogliono pubblicare è pubblicità, il resto sono notizie>>

<<Se qualcuno ti chiama dicendo che ha una storia da raccontare è pubblicità. Il resto è una notizia>>

<<Giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che tu conosca. Il resto è propaganda>>


Per la rubrica “Valvola” pubblichiamo un commento di un aforisma e delle sue “varianti”, la cui attribuzione è incerta: la paternità della prima “versione” di questa “frase-concetto” (tra quelle scritte sopra) , viene fatta risalire da molti a George Orwell, così come le tre versioni successive che alcuni invece attribuiscono rispettivamente a Oscar Wilde, Alfred Harmsworth, William Randolph Earst, Katharine Graham e Harold Harmsworth . La quinta e la sesta sembrano essere anonime. Secondo altri queste attribuzioni sarebbero apocrife (e cioè ascritte agli autori menzionati in maniera errata) mentre la settima pare l’unica di attribuzione certa: l’autore è Horacio Verbitsky[1].

Nel titolo c’è la “rivisitazione” di queste massime pensata da Cronissa Nolletta, autrice di questo post, che la fa “propria” rileggendola e aggiungendo un’interpretazione meno immediata e diversa da quella che sarà già balzata alla vostra attenzione... Cominciamo, come di consueto tra le righe digitali di questa rubrica, a “svalvolare” facendo un po’ di filosofia e psicologia “spicciola”! E diciamo spicciola per il tono informale con cui l’affrontiamo ma, a nostra detta, profonda e intensa…

 

 

LA COMUNICAZIONE UMANA E IL COMPITO PIÙ IMPORTANTE DEL GIORNALISMO

La capacità di comunicare e di tramandare conoscenze è probabilmente quello che ci distingue di più dagli altri animali, nel bene e nel male! La nostra società, la tecnologia e la complessità delle nostre relazioni ci hanno fatto “avanzare” a tal punto che siamo “talmente intelligenti da essere stupidi/e”, talmente complicati/e e articolati/e da non riuscire più a essere compatibili con l’ambiente circostante, essendo l’unico animale che inquina e modifica il suo habitat con una tale incisività e consapevolezza (forse quest’ultima non è comunque sufficiente). Il giornalismo fa parte della dimensione comunicativa moderna: chiunque si occupa di informazione ha il compito di raccontare “le cose” che non sono “finzione” e non sono classificabili come “narrativa pura”, dopo averle “selezionate” tra una marea di vicende -in prima istanza- e sforzandosi di essere il più accurati/e e onesti/e possibile…

Giornalismo è anche, più nello specifico, raccontare e ricercare incessantemente la/le verità anche se quella/e verità “fa/fanno male”, indagando su dei fatti specifici o su fenomeni più ampi che qualcun# non vuole che vengano messi in luce. Nella retorica democratica-liberale, e in particolare secondo la tradizione anglosassone, fare giornalismo dovrebbe equivalere a essere dei “watchdog” (cani da guardia) del potere, e non certo “cani da salotto” che annusano e baciano i piedi del/lla padrone/a. Le frasi succitate mettono in evidenza questo approccio etico del/lla giornalista, ponendo enfasi sulle cose che non vorremmo sentirci dire o su quei fatti e misfatti che pochi “potenti” non vogliono che vengano a galla… Quindi la prima lettura di questi aforismi, l’interpretazione più immediata, riguarda l’importanza delle notizie che qualcun@ non gradisce siano pubbliche, includendo anche noi stesse/i in quel “qualcuna/o” (inclusione che tra l’altro mi pare si evinca nella prima delle sentenze succitate).

Ma l’interpretazione “più nascosta” che io scorgo in queste nove frasi è più profonda e cela almeno altri due significati, e ora spiegherò quali sono le due diverse ragioni che hanno ispirato la frase nel titolo: “Scriviamo quello che non vorremmo leggere”!

 

 

ABBRACCIARE LA COMPLESSITÀ E ALLENARSI CONTRO LA PIGRIZIA INTELLETTUALE

La ricerca del vero “assoluto” e delle molteplici sfaccettature della realtà è qualcosa di iper-complesso, a volte fumoso e a volte molto frustrante, soprattutto quando “la verità” sembra sfuggire infinitamente, oppure quando “più verità” sono plausibili anche se in contrasto tra loro ( e cioè quando si prova a comprendere la proverbiale “altra campana” -quando ce ne sono solo due di campane e di conseguenti “verità”, se si è “fortunati”).

L’estenuante ricerca dell’ “oggettivo”, del “vero” ci porta quindi all’obbligo di dover abbracciare la complessità per avvicinarci a una comprensione più vasta dell’olistica e intricata realtà.

Il concetto di “abbracciare la complessità” può essere inteso anche in un’altra maniera, e cioè come lo sforzo di combattere “la pigrizia mentale”, ossia di non cedere alla tentazione di riempirci la testa di informazioni che, in cuor nostro, sappiamo essere triviali e superflue ma da cui siamo “fatalmente” attratte/i e e che, probabilmente, un giorno ci faranno pentire del tempo sprecato.

Facciamo un esempio banale: in una giornata ho un po’ di tempo libero che voglio dedicare a “guardare qualcosa” in TV o sullo schermo del PC. La mia natura, insieme alle condizioni culturali in cui sono “immersa” fin dalla nascita, mi spingerebbero a optare per qualche serie filmica con puntate costruite con un sapiente –e a volte “diabolico”- uso della suspense, dove si usa un meccanismo tale da farmi incollare allo schermo per svariate ore in una “maratona” da spettatrice!

Così facendo cadrei in quella che, in un certo senso, chiamo “pigrizia mentale” -senza fare la morale a nessuno/a inclusa me stessa. Banalmente avrei potuto scegliere di guardare il video di un’inchiesta giornalistica o di un documentario più “impegnato”, avrei potuto leggere uno stimolante romanzo storico –per restare nella “narrativa”, però da leggere- oppure quel saggio che mi interessa tantissimo ma che però “non ce la faccio a leggere adesso… sono troppo stanca”, o forse non sono così stanca in fondo in fondo, ma semplicemente non alleno la mia mente abbastanza! E forse dovrei essere meno “mentalmente pigra”. Mi sono immersa in qualcosa che percepisco come abbastanza vano, proprio perché “divertente” e “leggero” (evidentemente troppo leggero!), e continuo a rimandare quello che “in cuor mio” so che è più importante, ma che percepisco come “pesante” (se non addirittura vagamente “palloso”) perché devo “abbracciare la complessità” di più, perché devo “esercitare” la mia mente di più, perché i miei pensieri sono sommersi da “sovrastrutture” che mi spingono a “consumare” puntate su puntate di serie infinite, di contenuti il cui solo scopo –o perlomeno quello principale- è pura (o quasi) mercificazione, perché la confusione sulle priorità della mia vita è alimentata dalla “struttura” economica e sociale, e così via –sempre non facendo “la morale” ma sforzandomi di essere il più critica e oggettiva possibile…

E quindi, anche quando dobbiamo parlare di qualcosa davanti a un caffè o a una birra, così come quando dobbiamo scrivere un articolo o un post sui social, o quando dobbiamo scegliere di “leggerlo/consumarlo” siamo perlomeno “tentate/i”, da svariati condizionamenti, a optare per un argomento “leggero”: a mio dire il problema ovviamente sorge quando, “in cuor nostro”, pensiamo che quell’argomento è “troppo” leggero, quando ci sono troppi argomenti “leggeri”, vani, futili…

Per questo al giornalismo, e a chiunque si occupa di comunicazione in senso lato, dovrebbe spettare il compito di stimolare l’allenamento intellettuale e combattere la pigrizia

Per questo “scrivo quello che non vorrei leggere” e parlo di cose che percepisco come “pesanti”, ma serie, con il rischio preventivato di farmi etichettare come “pallosa” o “troppo seria”… Correndo il rischio che le cose che scrivo non verranno lette da molte/i, ma cercando di stimolare le/i poche/i con cui instaurare un dialogo, un rapporto che “in cuor mio” so che è rilevante, anche se a volte sfibrante (ma che fortifica il mio/nostro pensare!).

Ma soprattutto, mi faccio carico del rischio di essere “noiosa” per contrastare le tendenze strutturali e sovrastrutturali che, secondo la mia modesta opinione, sono tanto dominanti quanto triviali e dannose, per contrastare quei meccanismi commerciali collegati al cosiddetto “mercato della dopamina che ci spinge a essere “bravi” e voraci “consumatori poco senzienti”, a scorrere contenuti sui social per l’eternità cliccando maniacalmente su notifiche e mini-video, proprio per gli stessi meccanismi biochimici che alimentano la ludopatia o la dipendenza da una sostanza, meccanismi sfruttati fino all’esasperazione e all’autodistruzione dal sistema socio-economico dell’animale umano...

 


RIMUOVERE PROBLEMI E INGIUSTIZIE DALLA NOSTRA MENTE NON LI RISOLVE

Ma c’è anche un’altra interpretazione del titolo di questo post (e del primo aforisma in particolare) che è ancora più “nascosta” di quella appena espressa, più “rimossa”.

Partiamo con degli esempi: quando all’ora di pranzo vediamo la pubblicità di una ONG che ci fa vedere bambini che muoiono di fame, potremmo avere una reazione “empatica” e sentirci quasi in colpa per il cibo che stiamo apprezzando (anche se a mio dire la colpa sta nella gestione delle politiche alimentari e nel non considerare il cibo come una cosa “pubblica”) e fare una donazione, oppure potremmo cambiare canale (o “skippare” la pubblicità, a seconda del media usato) infastiditi, probabilmente ritenendo quel problema “lontano” da noi o “strumentalizzato” in qualche maniera; altro esempio: quando siamo alla fine di una giornata dura e sul telefonino ci appare la notifica di una notizia del licenziamento di svariate/i lavoratrici/lavoratori, oppure la notizia che una famiglia precaria con disabili a carico è stata sgomberata con la forza da un edificio abbandonato ed è finita per strada, potremmo avere una reazione “empatica” e cominciare a pensare come attivarci -anche nel nostro piccolo- per risolvere quel problema, oppure potremmo avere una reazione comunque “empatica” ma tendente alla rimozione di quella notizia perché ci sentiamo impotenti, perché ci sentiamo arrabbiati e ci rifiutiamo di “abbracciare le difficoltà”. Va da sé che quanto più ci “identifichiamo” con quel problema, quanto più “quel problema” è anche il nostro problema (perché magari anche noi siamo precarie/i e non riusciamo a pagare l’affitto per esempio) tanto più ci sentiremo coinvolte/i, e tanto più saremo propensi/e a pensare o fare qualcosa per “combattere” il precariato e le speculazioni edilizie oppure, se la nostra mente non è “allenata” alla “lotta politica” ed è tendenzialmente disfattista, negativa e “pigra”, quelle notizie ci faranno solo deprimere e tenderemo a rimuoverle, imposteremo le notifiche per non ricevere più fatti su eventi del genere o semplicemente le “cestineremo”…

In altre parole: di fronte a una notizia “negativa” si può attivare un meccanismo di “rimozione”, un meccanismo di difesa da quell’emozione “cattiva”, di rifiuto. Lo stesso meccanismo può attivarsi anche nella mente di chi “seleziona” e “produce” le notizie (avallato anche dalle condizioni materiali, economiche e “strutturali” già citate), tuttavia, come oramai sarà chiaro, ritengo che la funzione del giornalismo (e della comunicazione in senso ampio) è anche quella di non far finire quelle vicende “brutte” e “traumatiche” nell’oblio, di non spostarle nell’“inconscio mediatico-collettivo”, lanciando un allarme, spingendo al pensiero critico, ad affrontare le difficoltà “abbracciandole”!

È chiaro che molte/i di noi non vorrebbero stare nel 2022 a discutere di come certi elementari diritti umani vengano calpestati dopo secoli di abusi e lezioni che l’umanità non ha ancora appreso, ed è comprensibile che a volte non si riesca a “reggere” la pressione di alcuni contenuti mediatici... Preferirei anche io andare al “passo successivo” e immaginare una società nuova, più equa, più libera… Il problema però è che evidentemente noi, il genere umano, non siamo ancora pronti e forse non lo saremo mai nel senso pieno del termine: per questo dobbiamo rimboccarci le maniche anche se il nostro sforzo dovrà, come il concetto matematico recita, “tendere all’infinito”…

 


“BAD NEWS GOOD NEWS” E LE QUATTRO “S”: ALCUNI ESEMPI PRATICI

Ritornando al giornalismo, più nello specifico, bisogna ricordare che gli esempi di sopra sono delle semplificazioni che non valgono in senso universale, ma anzi... Potrebbe sembrare un paradosso ma esiste un detto che quasi sicuramente avrete già sentito: “Bad news good news”, ossia “le cattive notizie sono buone notizie” nel senso che, di solito, fatti eclatanti e tragici come un attentato o un’alluvione ricevono più attenzione di notizie meno “cruente” e che non hanno al centro fatti di “sangue”.

E qui ci ricolleghiamo a un altro detto, quello delle “quattro S”, e cioè quattro tematiche che storicamente “fanno ascolti” sui diversi media: “Sesso, Sangue, Soldi e Sport”. Questo tema merita una trattazione a parte, e vi promettiamo che ci ritorneremo (incoraggiateci nei commenti, sui social, via mail e come vi pare se state trovando questo scritto utile!), adesso però facciamo degli esempi pratici di come pensiamo si debbano trattare i due casi succitati, dato che sta sempre a chi si occupa di comunicazione non trattare questi avvenimenti in maniera “fredda”, e invece usare un approccio costruttivo e anche proattivo nel “raccontare cose”: quando alcune settimane fa c’è stato l’attentato di Istanbul nel nostro piccolo abbiamo fatto una serie di ricerche per parlare dei dubbi sulla ricostruzione ufficiale del regime turco, sull’identità dell’attentatrice e sul presunto coinvolgimento di un esponente ultranazionalista turco: quest’ultima notizia, così come l’attacco di Erdogan al Rojava e dell’ “embargo mediatico” conseguenti all’attentato, non sta avendo certo lo stesso risalto della guerra in Ucraina e, forse, nemmeno delle dimissioni nel CDA della Juventus o di chi vincerà i mondiali di calcio tra i più oscuri della storia dello sport…

Altro esempio è quello dell’alluvione a Ischia: invece che seguire, a tratti forse quasi in maniera macabra, l’operato dei soccorritori con aggiornamenti in tempo reale sulla conta delle vittime penso che sarebbe più utile, come in parte si fa, parlare di come violentiamo il nostro territorio, di come mettere in sicurezza il patrimonio architettonico che cade letteralmente a pezzi e di come evitare che si ripetano tali tragedie (e fare ciò anche dopo i “funerali” delle vittime e il conseguente “sgonfiarsi” della notizia)…

Infine, sempre sulle “fredde statistiche” e sulle conte dei “morti”, vi segnaliamo un articolo sulle vittime civili nelle guerre, dove ci addentriamo nel tema delle “fake news” in maniera atipica, siccome in questo caso c’è un dato sovrastimato, una “fake news a fin di bene” che forse “a fin di bene” non è, dato che potrebbe addirittura farci “assuefare” ai “gelidi numeri” di morti e può incrementare lo scetticismo verso chi ha nobilissime intenzioni e non vuole la guerra...

 


IL GIORNALISMO È UNA FORMA DI ATTIVISMO

Molto speso la categoria delle/dei giornalisti è molto bistrattata: spesso ci dipingono come degli/delle impiccioni/e o, peggio, come dei manipolatori/manipolatrici… A volte a buon ragione, altre volte invece a torto… La linea editoriale di Fanrivista è quello di un giornalismo che, proprio per essere “obiettivo” deve anche essere schierato, militante, come abbiamo scritto nella presentazione di questo progetto. Per noi <<il giornalismo è una forma di attivismo>>, ma questo è un altro aforisma e ve ne parleremo la prossima volta… Anche se non vorremmo scrivere di ciò e dedicarci ad altro! Ma ci tocca farlo come animali umani, con una società e una comunicazione molto complessa, pure troppo!


Cronissa Nolletta



 

Il primo degli aforismi citati è ripreso da molti siti online in italiano ed è attribuito a Orwell, come si nota dai risultati dei motori di ricerca

[1] Nota “filologica” a cura di Maria Paulina Lackofmann: sull’attribuzione degli aforismi e delle sue varianti, le principali fonti che abbiamo consultato sono l’articolo del sito “Quote Investigator e una pagina del forum “Literature StackExchange”. I contenuti di queste pagine, e quindi gli aforismi, sono in inglese e speriamo di averli tradotti nella maniera più appropriata, consapevoli che ogni lingua rispecchia caratteristiche collettive e individuali “uniche” e quindi, per certi versi, “intraducibili” in senso pieno!

Come nostra consuetudine "alleghiamo" alcune citazioni musicali in sintonia "sinestetica" con il post: si tratta di "Journalistes en danger" di Alpha Blondy, dei "Cinque Anarchici" di Kento e Mad Simon, e infine di "Oggi non ho niente da dire" dei Bisca. Grazie di essere arrivat' fin qui e buon ascolto!








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