Fanrivista ha mandato il suo inviato non speciale allo spazio Piave, dove dal 3 al 5 Giugno si è tenuta la prima edizione di Raise Your Zine, festival di “zine”, photobook , arti visive e sonore imperniato sulla fotografia, nonché prima “call for artist” organizzata da TheDocks insieme a Il Varco Srls e a Passepartout Photo Prize. Il “festivalino” non è stata una mera esposizione di lavori, ma un’importante occasione per “fare rete” tra artisti, fotografi, curatori ed editori: quando ci si pone al di fuori dall’editoria mainstream ogni evento del genere assume un’importanza cruciale sia per “promuoversi” a vicenda, sia per ideare e sperimentare nuove pratiche creative e di vita.
L’associazione di promozione sociale The Docks, attiva nel campo delle arti visive e della fotografia, sostiene progetti editoriali ed è <<un contenitore creativo polifunzionale con vista sui binari>> immerso nella giungla urbana del quartiere Soccavo di Napoli.
Non è stato possibile seguire degnamente tutte le presentazioni, le zine e le autoproduzioni presenti, per la scarsità di “risorse” sia umane e disumane di cui questa fanza/rivista (che attualmente è nei fatti una one-person zine) dispone: anche se gli espositori si contavano sulle dita di due mani, la tre giorni è stata densa di immagini con cui rifarsi gli occhi, spunti di riflessione sul mondo delle autoproduzioni, su questioni storiche, artistiche ed editoriali. Per questo il nostro Cronista Autogestito ha cercato di fare del suo meglio, focalizzandosi (forse un po’ egoisticamente) su alcune “impressioni” (non solo fotografiche) che hanno colpito particolarmente i suoi occhi, e hanno attraversato in entrata e in uscita il filtro della sua mente, e che si connettono a più ampie vedute sul mondo delle autoproduzioni proprie di Fanrivista.
Per questo ci scusiamo per non essere riusciti a “coprire” l’evento al meglio e per la sintetica cernita di opere e “talk” che siamo stati costretti a fare a malincuore (per chi volesse consultare i nomi degli artisti e delle opere presentate durante il festival, il programma completo si trova a questo link), con la promessa di incontrarci e ritornaci sopra in futuro!
Il numero ristretto di “espositori” in eventi del genere può costituire un vantaggio: in questo modo c’è più spazio, anche fisico, e tempo, per interagire con (e tra) i creatori-creativi di contenuti. David De La Cruz, una delle anime del collettivo, spiega (nel breve video che segue) la scelta peculiare dell’allestimento “conviviale” dei “banchetti”: un tavolo con due panche all’estremità. Su una siedono gli espositori, dall’altra parte i visitatori che, comodamente, possono interagire e discutere dei libri e delle zine che si stanno sfogliando.
LA LOCATION DELLO SPAZIO PIAVE: NUOVA LINFA ARTISTICO-URBANISTICA NEL TESSUTO CEMENTIZIO-URBANO
La location, sede-laboratorio del collettivo e denominata “Spazio Piave”, è una struttura, precedentemente in stato di abbandono, adiacente alla stazione Piave della Circumflegrea (di cui ne costituisce una parte), ristrutturata un trentennio fa dall’architetto, accademico e pubblicista Nicola Pagliara. L’altra parte agibile della stazione (quella frequentata dai pendolari) è quantomeno poco curata e, inoltre, ha un solo binario funzionante perché i lavori di completamento non sono stati ancora, per l’appunto, completati…
Lo spazio Piave fornisce una nuova linfa artistica-vitale al tessuto “cementizio” urbano, e si inserisce in un processo di riappropriazione da parte delle comunità dei luoghi (e anche dei cosiddetti “non luoghi” a cui è dedicata una zina di cui si parla nelle prossime righe), processo che riguarda tutti gli edifici svuotati da ogni destinazione d’uso “effettiva” che non sia funzionale alle speculazioni, agli sprechi e agli abusi del capitalismo urbanistico internazionale.
“Sfogliando” le pagine delle “emeroteche online” (e cioè, in parole povere, facendo una breve ricerca sui motori di ricerca degli eventi di cronaca) abbiamo trovato diverse tracce di questo “abbandono” in varie notizie pubblicate dalla stampa locale, riguardanti la sola stazione, un lavoro d’archivio che per noi cronisti precari indipendenti d’assalto è pane quotidiano: nell’arco di un mese, nel 2016, venivano prima rubati migliaia di biglietti e poi perfino le obliteratrici; sempre nello stesso anno le cronache narravano delle incursioni serali di una baby gang armata di bastoni; tre anni più tardi un’adolescente precipitava dal tetto, forse per una bravata; e ancora, nell’agosto 2015, un venditore di sigarette di contrabbando “di fiducia” lasciava un cartello in cui spiegava che sarebbe stato chiuso per ferie.
Spesso anche il linguaggio giornalistico, tendendo a enfatizzare questo tipo di “degrado”, si trasforma in un potente strumento di propaganda funzionale a processi di gentrificazione, finalizzati a una “sostituzione” di una parte di popolazione con un’altra più abbiente: in pratica, molte volte, un pezzo di città viene dipinto come “malfamato”, salvo poi essere “ripulito” (anche linguisticamente) e ammodernato (forse più nelle parole che nei fatti) per cacciare via gli strati più “marginali” ed emarginati della popolazione, rimpiazzandoli poi con nuovi abitanti (magari lasciando comunque i “vecchi” problemi e innescando dunque un nuovo “ciclo” di degrado e di capitalismo urbanistico)…
A noi “scimmie urbane” resta
il compito di fare in modo che iniziative del genere spuntino come funghi urbani rigenerativi in tutto il pianeta
e in tutti i luoghi (o non luoghi) “periferici”, spargendo spore di una diffusa
(e non accentrata) cittadinanza del Mondo attiva!
LE TALK E LE ESPOSIZIONI: LE ZINE, LE FOTO, LE AUTOPRODUZIONI, LA STORIOGRAFIA, LA FUTURA "STORIA DELL'ARTE", I VIAGGI INTORNO AL MONDO, LA GEOGRAFIA URBANA/UMANA... INSOMMA: LA STORIA!
Restando nell’ambito dell’urbanistica e della riconquista degli spazi, la zina fotografica che è stata premiata dalla giuria è Trentatrè: realizzata dalle tipe e dai tipi di The Docks, l’intento principale è documentare diverse aree partenopee. È finalizzata alla <<riappropriazione fisica e culturale del territorio, e farne una mappatura che permetta di evidenziare le potenzialità dei luoghi>>. Il primo numero è dedicato a Bagnoli, dove aveva sede l’ “Ilva napoletana”. Il secondo volume è invece dedicato a quella che fu un’altra area industriale della città, Gianturco, oggi esempio tipico di un cosiddetto “non luogo”
La copertina del secondo numero di "33" |
Passiamo adesso a parlare della “talk” di Carlotta De Sanctis della IUAV di Venezia che ha presentato TRAVMA – Collective Memory of Punk in Turkey: un sito web e un archivio digitale che costituisce <<la parte grafica di un progetto di ricerca più ampio sulla nascita del punk in Turchia>>, tramite la raccolta e la catalogazione di fanzine e poster della scena underground-hardcore turca, negli anni ‘90.
Il collegamento con Carlotta de Sanctis che presenta TRAVMA |
La studiosa fa prima un breve preambolo sulla definizione“fluida” di “fanzina”: di solito sono pubblicazioni tipiche di un genere e quindi degli appassionati, dei “fan” di una “sottocultura” particolare, come quella punk; alcuni le fanno risalire al XIX secolo ma, secondo un’altra visione, le prime fanzine, nell’accezione contemporanea, vengono principalmente identificate con degli scritti di genere fantascientifico risalenti agli anni’30 dello scorso secolo; sono prodotte con costi bassi e risorse improvvisate, caratterizzate dall’aspetto linguistico-narrativo sui generis; ma, cosa più importante, erano fondamentali per “fare rete” nell’epoca in cui il web non era ancora nato. Anche per questo le fanzine “old school” si differenziano da quelle mostrate durante il festival e, più in generale, da quelle dei giorni nostri, pur mantenendo in comune i concetti delle pratiche autogestionarie e delle autoproduzioni, e riducendosi dal punto di vista quantitativo: con l’avvento del digitale negli anni 2000, la dimensione cartacea e comunicativa dello scambio tra “network” diversi viene meno, insieme al cambiamento nei temi trattati. Oggi sembrano essere sempre meno espressione di gruppi controculturali come quello punk, e si cominciano a coprire argomenti come quelli della letteratura “di nicchia” e delle fotografie (queste ultime non a caso sono protagoniste del festival).
Questi documenti, provenienti per lo più da collezioni private e di complicatissima reperibilità, sono preziosissimi dal punto di vista storiografico, oltre che rari: in media la tiratura si aggira tra le 50 e le 100 copie. Mondo Trasho è la prima (almeno tra quelle che non sono state smarrite), pubblicata nel 1991 e con un numero di copie più alto rispetto alla media (intorno alle 500 per uscita): pur avendo un taglio estetico punk non è dedicata alla musica ma all’arte in generale: con il suo stile dissacrante verso la società del consumo ha fatto da apripista per molte altre. Ce ne sono poi varie che hanno anche <<un taglio più politico>>, alcune pubblicate interamente in inglese con l’intento di proiettarsi oltre i confini della “Sublime Porta” e quelle riportanti indirizzi e contatti di reti all’estero, contatti che fungeranno anche da fondamenta per scambi culturali (o forse è meglio dire controculturali) e per l’organizzazione dei primi concerti underground. Man mano che la scena underground cresce diventano più frequenti anche gli eventi come i concerti, e i poster che li pubblicizzano, racchiusi in un’altra sezione del sito. Entrambe le sezioni servono anche a tracciare una sorta di mappa dell’underground turco.
La copertina di Mondo Trasho |
Nella conclusione la ricercatrice pone l’accento su due concetti cruciali per gli storici e per gli autoproduttori/fanzinari. Dal punto di vista storiografico si parla di un problema legato alla musealizzazione: bisogna evitare <<la polvere degli archivi e la muffa delle cantine dei collezionisti facendo restare questi documenti “vivi”>>; aspetto che, in questo caso, ha una contraddizione intrinseca, dato che tendenzialmente la maggioranza delle fanzine e degli altri tipi di autoproduzioni si ponevano in netto contrasto con il mondo accademico e con quello editoriale “ortodosso”. L’altro aspetto, quello che tocca l’animo e l’opera di auto produttori e fanzinari con una connotazione politica più definita, è racchiuso in una citazione del volume di Valerio Bindi su “estetica, underground e autoproduzione” dal titolo “Cosa sono le nuvole?”: <<Le zine non sono qui per essere raffinate, sono qui per minare le valutazioni basate sulle gerarchie. Sono qui come documenti che dimostrano l’esistenza dell’altro, non per chiedere il permesso di esistere>>.
Ci sono state poi tre talk sul mondo dei “graffiti”, anche se forse è più corretto parlare di “urban art” o, usando una definizione ancora più sofisticata, di “espressionismo d’impatto”: questi tre incontri hanno intrecciato l’importanza storiografica del documentare certi fenomeni artistici con il tema del passaggio dalle “autoproduzioni” a una produzione editoriale “vera e propria”. Questa transizione, tipicamente, avviene con la cooperazione di realtà editoriali (semi-)indipendenti che permettono il mantenimento dell’autonomia comunicativa insieme alle affinità ideali e progettuali in comune.
Nel primo incontro sul tema, intitolato “Dalla distribuzione all’autoproduzione” ha parlato Matteo Piscitelli, che ha presentato il volume “The True Exposed”: documenta le opere del writer “True” con centinaia di foto, video (che danno un tocco di interattività al cartaceo) e traduzione in inglese accessibili tramite codici QR. Edito da Hard2Buff, principalmente un distributore di prodotti per “graffitari” di una marca tedesca. Nasce dall’esigenza di documentare il fenomeno umano e artistico che sta dietro le quinte del writing, e in particolare alle “scritte” colorate che vediamo dipinte (o “spruzzate”) sui treni. Dipingere un treno può essere “fisicamente” molto pericoloso, pericolo che deriva dallo stare a contatto con i binari e dall’elusione dei sistemi di sicurezza… Oltre alle conseguenze legali, e quindi alle denuncie per danni a cose materiali (i treni) e per lo stesso accesso non autorizzato ai depositi in cui sono parcheggiati.
Le esigenze di questi “spericolati” artisti possono essere svariate, ma quelle tipiche dei “pezzi sui treni” potrebbero essere: affermare e “pompare” il proprio ego, in una competizione con altri writer, riuscendo nell’impresa di “colorare” un treno difficilmente accessibile, in un tempo ristretto e con la tensione al massimo; il provare l’adrenalina e il gusto del proibito; la necessità di esprimersi con un atto di ribellione artistica sfidando il concetto comune di “legalmente accettabile”, e così via… È inoltre importante sottolineare che lo staff di Hard2Buff, insieme a quelli di una pubblicazione simile, non a caso intitolata “Egowar” (che riporta solo foto di “pezzi sui treni”), ci tengono a sottolineare che non incoraggiano nessun atto di vandalismo, ma che sentono la necessità di documentare un fenomeno antropologico (fenomeno di cui sono venuto a conoscenza nel momento in cui il mio sguardo è caduto su questa rivista quando, qualche giorno fa, la vedevo esposta nel banchetto di H2B al festivalunderground UE’. È anche tramite il passaparola, e quindi la loro “dritta”, che sono venuto a conoscenza del festival che ora sto recensendo).
L’opinione pubblica tende a concentrarsi sull’aspetto legale-vandalico di alcune opere e non sullo studio decennale di artisti che, a partire dagli albori del writing negli anni ’70, concentrano gli sforzi artistici di un’intera vita per perfezionare o variare una singola opera, che può consistere in una rappresentazione dipinta di lettere stilizzate, singole componenti del loro nome d’arte.
La seconda delle tre presentazioni dedicate ai “graffiti” è stata tenuta da Toni TRES, e riguarda il progetto No Color Sketch: è un progetto che essenzialmente raccoglie i bozzetti del lettering (in italiano si direbbe letterizzazione e quindi l’arte di disegnare delle lettere). Questi schizzi consistono nel lavoro di studio e perfezionamento, fatto su carta, che precede la trasposizione vera e propria, quella più estesa, che potrebbe essere realizzata su un muro così come su un treno.
Toni Tres nella talk "in presenza" |
Il progetto nasce da una serie di fanzine “artigianali” che si stanno concretizzando in diversi volumi di una collana (tra cui uno di prossima uscita) e ha diverse funzioni tra loro collegate: c’è la funzione didattica “per immagini”, in quanto si documenta lo studio di un artista (esattamente la stessa funzione degli schizzi di Michelangelo o di Caravaggio, anche se in questo caso si “fotografa” “lo studio della lettera” o, con un’espressione amata dai curatori, lo “style writing”); c’è quella del lavoro d’archivio che raccoglie il percorso di un singolo artista o di una “corrente” dell’arte urbana; non meno importante è documentare cosa c’è dietro i vari stili ponendo maggiore attenzione sulle tecniche specifiche (un esempio di tecniche peculiari potrebbero essere quelle studiate per dipingere rapidamente sui treni). Quindi, in quest’ottica, il libro d’artista non è più solamente un oggetto autoriale o il catalogo di una mostra, ma la viva testimonianza artistica di uno specifico periodo.
Nelle talk, parlando del confine tra ciò che è legale e illegale e di ciò che è moralmente accettabile, delle motivazioni che guidano gli artisti e della necessità di documentare un fenomeno al di là degli aspetti normativi, è emersa la “stereotipica” figura della signora anziana molto critica del graffito che, a suo dire, rovina il paesaggio. La stessa “signora anziana” però, si fa notare, non si pone altri problemi come quello delle speculazioni edilizie e degli edifici abbandonati in un dato posto… Emerge infatti l’esempio di Castel Volturno, <<dove abbiamo fatto un murales che adesso non esiste più>>, perché quelle costruzioni cadono letteralmente a pezzi!
I curatori dei progetti presentati hanno affermato: <<la nostra risposta al vandalismo è culturale>>, dato che quelle scritte sono un pezzo di storia dell’arte, al pari dei graffiti dei primi uomini nelle caverne o dei bozzetti di artisti noti da secoli. Gli autori, i curatori e gli editori vogliono documentare un fenomeno spontaneo “controculturale”, vogliono porre l’attenzione sulla necessità di esprimersi, sganciando questo fenomeno dal vandalismo tout-court: una maniera di farlo è, per l’appunto, tramite questi libri.
Il titolo di questa presentazione è: “Dall’autoproduzione alla realizzazione di una collana editoriale”. Si riferisce alla tipica esigenza di “uscire fuori” da una nicchia di amatori o di compagni di lotte politiche in senso lato (o comunque di “espandersi” cercando di raggiungere più persone), una fase che nel mondo delle autoproduzioni (che siano grafiche, musicali o letterarie) può essere ritenuta controversa, fase di cui questa fanza/rivista ne rappresenta un esempio: Tony infatti spiega che <<a un certo punto mi sono reso conto che non potevo fare tutto da solo>>, e per questo si è rivolto a Showdesk.
Passiamo dunque alla terza presentazione collegata alla precedente, tenuta da Nicola Nunziata e Roberto Ciarambino, e intitolata “Arte e design come strumenti di innovazione sociale”: i due hanno parlato del progetto Showdesk, un’organizzazione di volontariato e sigla editoriale che si occupa di <<realizzazione di eventi pubblici, workshop, progetti di educazione informale, programmi di residenza, azioni di condivisione e scambio di buone pratiche>>. Il progetto nasce per opera del collettivo Sottobosco. Si spiega che alle origini dell’attività, circa dieci anni fa, si svolgevano delle presentazioni e il “pubblico” era formato sostanzialmente da altri artisti: in pratica, similmente a quanto è avvenuto con la prima edizione del festival, più che proporre “cose” a un pubblico “esterno” in realtà si stava costruendo un “network” di “artivisti”, e cioè si stava “facendo rete”. In sostanza si supportano una serie di progetti che avrebbero costi elevati per il mercato tradizionale (che li fagociterebbe minandone l’indipendenza), senza una canonica relazione tra committente e prestatore d’opera, puntando piuttosto a un rapporto di collaborazione. Showdesk quindi non è un organizzazione no-profit che si avvale di “progettisti” terzi, ma è costituita essa stessa da “progettisti”. Anche il modello economico si basa sulla circolarità e sull’economia di sussistenza: la donazione che può essere fatta non è solo quella meramente in denaro, ma è soprattutto quella che si fa donando il proprio tempo e know-how. A questo proposito si è parlato di due temi che mi hanno colpito: il confine tra charity e un no-profit attivo (ossia tra il fare la pura carità e un volontariato attivo), e il concetto di “autosfruttamento” (che si realizza quando chi è nel mondo delle autoproduzioni sfrutta da sé la propria “forza lavoro”, mandando avanti un progetto indipendente e, magari, svolgendo al contempo altri mille lavori-sfruttamento “veri” per sopravvivere… O almeno questa è la mia personale interpretazione!).
L'ironico listino prezzi di Showdesk |
Michele Sibiloni nella talk da remoto |
Un’altra talk che ho seguito è quella di Michele Sibiloni. Ha parlato della sua esperienza di fotoreporter giornalistico in Africa Orientale e del desiderio di passare a qualcosa con un taglio più <<documentaristico>>, aspirazione soddisfatta con due titoli “marchiati” Edition Patrick Frey: il primo è il fotolibro è intitolato “Fuck It” (spin-off del volume è il “corto”-documentario collegato, intitolato “Sandra”, nome della giovanissima sex-worker alle prese con i problemi della sopravvivenza economica, delle malattie sessualmente trasmissibili e della dipendenza da crack, con un tatuaggio sulla gamba da cui deriva il titolo del libro). L’autore documenta degli incontri “pasoliniani” con i “sottoproletari urbani” che vivono la notte della capitale ugandese, Kampala, dove problemi come l’abuso di droghe e la prostituzione sono tragicamente sottovalutati. Anche il fotobook “Nsenene” è ambientato nello stesso paese, e documenta l’evento della caccia alle cavallette con stupende immagini che, letteralmente, brillano sulla carta nell’evento notturno.
La copertina di Nsenene |
Diverse altre le talk che io, cronista autogestito, mi sono perso... Ho comunque provato a “recuperare” e a rendere meno svogliato il mio lavoro, fermandomi a parlare ai vari banchetti e facendo ricerche online sui siti dei vari partecipanti...
Partiamo da quello di Cratèra, che già dal nome fa intuire il legame vulcanico e primordiale con il territorio e con la pietra lavica: è una neonata realtà editoriale focalizzata su architettura, design e fotografia, con un rapporto di “odio-amore” (o forse è meglio dire di “parziale rottura-interesse”) con le pubblicazioni accademiche, e con l’ambizione di anticipare la ricerca <<prima che si configuri nella sua forma finale>>. Hanno pubblicato la prima issue di una zina-poster intitolata “Spike” che ricicla, risistema e dà nuova vita e imprevedibili sviluppi a degli “scarti” di “scatti” fotografici: una sorta di errore indotto nel sistema editoriale con il tentativo di intercettarne i “picchi” (“spike” in inglese) e anticiparli. Di particolare interesse antropologico è anche il libro “Diari dal confinamento”: raccoglie gli scritti di studenti dell’ultimo anno di architettura durante il primo lockdown pandemico. In quel frangente la maggioranza della popolazione si trovava in una sorta di arresti domiciliari collettivi: anche in questo caso le differenze delle varie soluzioni abitative, e quindi il fatto di vivere in un “basso” o in una casa con terrazzo, riflettevano quelle sociali e la parziale “livella” che ha rappresentato la “reclusione” pandemica. Il libro è curato da Francesco Casalbordino e da Marella Santangelo. Quest’ultima ha fatto dello spazio detentivo il suo ambito principale di ricerca, ed è referente del Polo Universitario Penitenziario dell’UNINA: tra i diversi lavori e ricerche, ha coordinato due workshop che hanno visto lavorare insieme studenti e detenuti per progettare miglioramenti di un corridoio e delle ore d’aria.
Le produzioni di Cratèra |
Sempre sul concetto di scarto e di selezione nel campo della fotografia si concentra anche la sigla editoriale della piattaforma online Discarded, che dà spazio <<ad autrici ed autori sovversivi rispetto all’estetica della fotografia contemporanea>>. Un astante del pubblico, durante la presentazione del primo numero di un loro magazine (intitolato Discarded XXX), <<che propone una nuova visione della fotografia erotica contemporanea>>, ha fatto una domanda riguardo al confine tra erotismo e pornografia: in sintesi, la risposta è che i due concetti possono essere relativi, e ciò che è erotismo per alcuni può rappresentare porno per altri, e viceversa.
Molto interessante è stato anche l’incontro con Baco, laboratorio fotografico palermitano che <<sviluppa pellicole, idee e progetti>> con una particolare attenzione alla rivalutazione di archivi inediti. Sul loro tavolo c’era in esposizione un libro fotografico (titolo “Il mio sogno”) di scatti trovati per caso in un mercatino delle pulci: sono dei “selfie” di un lavoratore che si imbarcava sulle navi da crociera, Giacomo Calò, che rappresentano frammenti della sua vita tra l’inizio del dopoguerra e gli anni ‘70. In più c’era anche una zina che, da cronista, mi ha colpito di più: contiene alcuni scatti selezionati dall’archivio del fotografo Fabio Sgroi, che precede la pubblicazione di un libro e di una mostra che si terranno a breve: anche qui, similmente alle fanzine turche di cui sopra, vengono “registrate” su pellicola delle foto della scena punk-underground siciliana a partire dagli anni ’80, insieme ad altre che immortalano storici momenti di cronaca, scatti fatti durante la sua carriera di fotoreporter per il giornale L’Ora e durante i suoi momenti di vita più “privata”.
"Il mio sogno" prodotto da Baco a partire da un ritrovamento casuale di foto |
Quattro sono i “prodotti” che mi hanno attirato particolarmente nell’esposizione di Yogurt, nato nel 2015 come magazine e poi evoluto in una piattaforma curatoriale che si articola in casa editrice, negozio e agenzia creativa. Il primo è il libro fotografico e autobiografico di Chiara Ernandes, intitolato “Still Birth”: Chiara era infatti una neonata “nata morta” o quasi, dato che secondo i cosiddetti parametri di Apgar si trovava al confine tra vita e morte. Con le necessarie attrezzature e un intervento tempestivo si può scongiurare il peggio in casi del genere. Questo libro è anche un tentativo di “normalizzare” un evento che l’ha segnata già prima che potesse iniziare a formare ricordi distinti. L’altro titolo che ha catturato la mia attenzione, legato ai temi dell’antispecismo e del vegetarianesimo è Novogen di Daniel Szalai: al suo interno si trovano le facce di un centinaio di polli le cui uova sono preziosissime per l’industria farmaceutica, insieme ad altre foto del “procedimento produttivo” di allevamento. Sempre riguardo alle facce, però questa volta umane, c’è un volume di quasi 600 pagine edito da RVB di Clement Lambelet che affronta il tema delle espressioni facciali, partendo da esempi vecchi di secoli, e cimentandosi in un contemporaneo esperimento che mette alla prova le capacità di lettura di queste espressioni da parte di uno specifico software: il titolo suggerisce che, per il programma, The Happiness is the only true emotion (tradotto: La felicità è l’unica emozione vera). In più è stato mostrato, in anteprima, il volume di una sorta di “influencer” ante-litteram o wannabe, di un’artista di nome Silvia (non ho segnato il cognome, scusate, se volete/potete segnalatelo nei commenti o in privato e lo aggiorno, sorry...) che con fotografie in stile pop ironizza su una forte depressione curata male da cui l’autrice si sta riprendendo, un discorso che si riallaccia al tema della distinzione della pazzia (parola che in genere viene usata con un’accezione negativa e patologica) dalla follia (termine al quale genericamente si può attribuire un’accezione positiva).
Il volume sulle espressioni facciali esposto sul banchetto di Yogurt |
Veniamo infine agli ultimi due editori indipendenti/auto produttori con cui ho potuto interagire di meno.
Sul banchetto di DITOPublishing, sigla editoriale indipendente con sede a Roma, rimango affascinato da alcune “autoproduzioni old school” rilegate a mano che ricordano il formato delle audiocassette, con delle immagini che rimandano a una playlist cartacea. L’occhio poi non può non cadere su rappresentazioni elementari di peni in serie: il poster-book di Attilio Solzi, intitolato “Obsession”, nasce da considerazioni antropologiche sulle prime rappresentazioni che esprimevano l’identità degli uomini primitivi. Va da sé l’ipotesi su quella, più elementare, che potrebbe rappresentare la nostra era almeno dal punto di vista della quantità di rappresentazioni (nell’edizione speciale si trovano anche dei tatuaggi rimovibili come quelli che si trovavano nelle buste di patatine). Mi incuriosisce molto anche il formato di Balladof the End, zina fotografica, interdisciplinare e partecipativa di Greg Jaeger e Jordi Pallarès: aprendola noto diversi fogli non rilegati, ed esprimo a Martha la paura di non saperla ricomporre… Il punto è proprio questo: può essere ricomposta e riletta in ogni ordine!
La zina scomponibile prodotta da DITO publishing |
Del banchetto di WittyBooks, quello con cui sono riuscito a interagire di meno anche a causa di un caldo torrido, mi hanno colpito due titoli che rappresentano anche due viaggi. Uno è quello dell’antropologo e fotografo Camillo Pasquarelli, in un’area super-militarizzata e contesa tra India e Pakistan, il Kashmir. Nel volume “Monsoons never cross the mountains” ricercava lo <<scatto in maniera libera>> tramite il suo “filtro autoriale” portato all’estremo e poi, infine, mediato dalla prospettiva dei bambini. L’altro volume di foto (dal titolo “Varco Appenino”) racconta non uno, ma una serie di viaggi di Simone Donati nel centro e sud Italia. I testi del “poeta-paesologo” Franco Arminio accompagnano il progetto-viaggio in paeselli remoti ma comunque vivi, anche se temporalmente in bilico e quieti…
Si conclude anche per noi di Fanrivista il festival di zine, foto e autoproduzioni: occasioni come questa, anche se “su piccola scala” sono fondamentali per sperimentare nuove forme di vita e creative. Forse, proprio perché in un certo senso sono “di nicchia” e di dimensioni ridotte rispetto alla maggioranza dei festival mainstream, sono ancora più importanti da seguire e raccontare: in primis perché probabilmente finirebbero sulle pagine di altri giornali solo per annunciarne l’esistenza, mentre noi/io di questa fanza puntiamo sull’approfondimento degli eventi, dal punto di vista personale e collettivo, anche partecipandovi direttamente; in ultima istanza è importante seminare anche le più piccole metaforiche “piantine”, sperando che crescano e curandole perché diventino possenti alberi, senza che queste siano inquinate dalle fumose logiche di mercato ma, anzi, si spera che queste piantine contribuiranno a ripulire l’aria dallo smog omologante capitalista delle narrazioni dominanti e facilmente vendibili: forse non sarà abbastanza per avere, metaforicamente, un pianeta pulito, ma quantomeno ci abbiamo provato e abbiamo acquisito nuove esperienze da usare e tramandare...
La copertina anteriore e posteriore del fotobook di Pasquarelli in Kashmir |
Grazie se siete arrivati fin qui e avete sopportato la mia ostica scrittura, probabilmente avete partecipato (o avreste voluto partecipare) al festival, vi interessa il mondo della autoproduzioni, delle produzioni editoriali ibride o atipiche… E comunque, qualunque sia il motivo, vi ricordo i prossimi appuntamenti allo spazio Piave: domani 10 Giugno e dopodomani 11 Giugno ci sarà l'evento "Fotografie Inutili" con Luca Bortolato dalle 18 alle 19:30. Il 12 Giugno ci sarà una presentazione e proiezione di Max Pam alle 19:00.
LOVE!
Cronista Autogestito
Il cronista autogestito, nostro inviato non speciale, che lavora e si “autosfrutta” chiacchierando e sfogliando autoproduzioni rilegate a mano oldschool, mentre si mette in posa e si spara le pose |
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