Le svariate sfaccettature di un’unica scelta: il rispetto per il pianeta e per tutti i suoi abitanti, nonostante gusti e preferenze connesse a contraddizioni ed ipocrisie umane.
La scelta di uno stile di vita e di una dieta che escludono o riducono il consumo di carne e derivati animali è connessa a svariati fattori e può assumere diverse declinazioni, come nel caso dei “flexitarian”. Semplificando si può dire che ciò avviene perché, alle ragioni etiche, salutistiche e dell’eco-sostenibilità, largamente condivise da chi sceglie o viene educato a essere “veg”, si vanno ad aggiungere le esperienze particolari e le scelte del singolo. Nelle righe che seguono si trovano le considerazioni di chi scrive questo post, vegetariano da sei anni che si interroga sulla possibilità di diventare vegano e sullo sfruttamento del pianeta e dei suoi abitanti, cominciando da quello attuato da sé stesso.
Diventare Veg: tra categorizzazioni, “etichette” e statistiche
Usare delle categorie o delle “etichette” per definire dei fenomeni, come uno stile di vita o l’appartenenza a un credo filosofico, è qualcosa di intrinsecamente connesso alla nostra capacità di astrazione e alla maniera in cui ci relazioniamo alla realtà.
Sono quasi nove su cento gli italiani “etichettabili” come “veg”, cioè che adottano una dieta vegetariana o vegana, secondo i dati pubblicati dall’Eurispes nel 2021. Tuttavia queste “etichette” non considerano altre scelte che riguardano vari aspetti della filosofia-veg, come quelle legate al campo della cosmesi o al settore dell’abbigliamento.
Uno storico esempio delle molteplici sfaccettature delle scelte “veggy” che sembra sfuggano alle statistiche viene dalla cultura buddhista: si è a lungo dibattuto sul costume di certi monaci che, pur praticando il vegetarianesimo e dunque una forma di compassione verso i coinquilini del nostro pianeta, talvolta accetterebbero in elemosina anche carne e pesce, a patto che gli animali non siano stati ammazzati espressamente per farne loro dono. In questo caso si potrebbe parlare di “flexitariani” ante-litteram (se non avete mai sentito questo termine consiglio di leggere un altro articolo, sul sito "Vegan Ok", dove si parla anche della differenza tra vegetariani e vegani, e delle statistiche sui vegani in Italia). Altro esempio di semivegetarianesimo viene dal fondatore di un sito americano che si occupa di sostenibilità, “Treehugger” (letteralmente l’abbraciatore di alberi) Graham Hill: sostanzialmente non ha voluto rinunciare del tutto al consumo di carne ma, per ragioni etiche ed ecologiche, lo ha ridotto al solo finesettimana, definendosi “vegetariano nei giorni feriali”.Quindi adoperare categorie e annesse etichette è fondamentale per definire problemi complessi, ma bisogna fare molta attenzione a non usarle in maniera totalizzante o come stigma, andando ad alimentare falsi stereotipi: primo tra tutti, nel caso di vegani e vegetariani, quello che la nostra dieta non sia completa e che manchi per forza di qualcosa … In realtà le evidenze scientifiche ci dicono che, in generale, il problema principale per quanto concerne la salute (e quindi senza prendere in considerazione aspetti etici e di sostenibilità ambientale) non è l’adozione di una dieta vegana od onnivora, ma piuttosto la mancanza di educazione e di pianificazione alimentare.
La mia scelta Veg tendente al veganesimo
Chi scrive questo post è vegetariano da circa sei anni. Nello specifico seguo una dieta latto-ovo-vegetariana e valuto la possibilità di passare a una dieta vegana (cercando già di privilegiare opzioni vegane quando “possibile”). Attualmente mi sforzo di favorire scelte culinarie vegane: per esempio non provo gusto nel bere latte vaccino e preferisco golosamente diverse alternative vegetali, ma non ho escluso del tutto latticini e uova in padella: dunque potrei definirmi semivegano. Tra i molteplici interrogativi che mi pongo il principale è: un moderato o sporadico consumo di derivati del latte e di uova, in un società “ideale”, sarebbe possibile senza sfruttamento altri essere esseri senzienti, almeno in teoria? Dico “in teoria” perché, non essendo uno scienziato devo sicuramente documentarmi meglio e studiare di più … Ma non credo sia strettamente necessaria una laurea in scienze o biologia per capire che è “inumano” e “bestiale” (oltre che ecologicamente non sostenibile) mettere in cinta con delle siringhe delle mucche o tenere stipate delle galline in una scatola come se fossero dei pupazzi di plastica per ottenere ingenti quantità di latte e uova, che forse potrebbero essere uno sporadico e preziosissimo dono (tralasciando dunque tutta un’altra serie di bestialità disumane come la carneficina sistematica di cuccioli maschi che, non producendo direttamente latte o uova, diventano prodotto di scarto o, al meglio, materia parzialmente riutilizzabile).
Ma questo interrogativo allo stato attuale delle cose è prettamente teorico perché, con l’odierno paradigma produttivo che investe tutti i settori della società è <<matematicamente, statisticamente, economicamente impossibile produrre latte e uova senza uccidere un altissimo numero di animali>>. Infatti, per quanto concerne il latte vaccino non <<sarebbe fisicamente ed economicamente possibile mantenere fino alla loro morte naturale (si pensi che i bovini vivono mediamente 40 anni) tutte le mucche e tutti i loro figli>>; discorso simile vale anche per le uova: <<dove verrebbero messi tutti i pulcini maschi se non venissero triturati appena nati? Proviamo a pensarci: in rifugi dove lasciarli vivere per 20 anni? Alla fine di questi vent’anni sarebbero diventati migliaia di miliardi, solo in Italia. E le galline stesse, dopo lo sfruttamento di due anni non possono certo essere messe in un ipotetico ospizio per galline in pensione, non ci sarebbero né lo spazio né i soldi per immaginare il mantenimento di tali strutture (…) Considerate che in natura le galline (quando erano ancora una razza selvatica), come qualunque altro uccello, depongono le uova solo per la riproduzione, al ritmo di non più di 25 l’anno, ovvero 25 10 volte di meno. Il concetto di “gallina ovaiola” l’abbiamo inventato noi umani: le galline non sono “animali che producono uova”, sono semplicemente uccelli che, come tutti gli altri uccelli esistenti, depongono alcune uova in dati periodi dell’anno per far nascere i propri piccoli>> (dal libro di Marina Berati intitolato "Perché vegan" e consultabile qui ed edito da "AgireOra Edizioni", parole consultabili anche nella sua "Lettera Aperta ai Vegetariani" pubblicata sul sito veganhome.it).
E questi ovviamente sono solo i principali aspetti riguardanti la sostenibilità economica e fattuale di un potenziale consumo di uova e latte realmente sostenibile ed eticamente limpido che si scontra con la realtà dei fatti negli allevamenti industriali e anche in quelli di dimensioni più “casalinghe”: molte altre crudeltà e afflizioni sono tralasciate in questo scritto per esigenze di sintesi…
Interrogativi simili al mio probabilmente se li è posti anche Donald Watson, attivista inglese che diventò prima vegetariano, dopo aver assistito allo scannamento di un maiale, e poi in seguito vegano: fu lui a coniare questo termine e a fondare la Vegan Society insieme ad altri attivisti che avevano precedentemente militato nella più antica Vegetarian Society.
Numerosi sono poi gli interrogativi che mi si pongono quando la mia scelta di non partecipare al “rituale” di ingerire cadaveri (perché l’atto del mangiare ha una sua ritualità, la cui tendenza odierna è sempre più quella “mordi e fuggi” in senso letterale), e quindi di non essere anche carnivoro (secondo alcuni sarebbe più corretto dire “necrofago” perché gli umani tendenzialmente mescolano e lavorano diverse carogne), si palesa. Di solito mi viene chiesto: <<lo fai perché non vuoi fare male agli animali?>>. E poi la domanda che segue più frequentemente è: <<ma quindi non mangi neanche il pesce, nemmeno le cozze e le vongole?!>>.
La risposta per la seconda domanda è più sintetica, oltre che collegata al tema delle “etichette” sopramenzionato: <<se mangiassi pesce mi definirei “pescetariano”>>. Per la prima domanda invece la risposta è più articolata: la questione etica del rispetto degli animali, nel mio caso, è strettamente connessa al disgusto che ho sviluppato nel tempo per il corpo di animali morti … Sono due fatti intrinsecamente connessi! Cercare di capire se ho sviluppato prima una maggiore empatia per i miei coinquilini del pianeta o il disgusto per il loro cadavere è un po’ come cercare di capire se “è nato prima l’uovo o la gallina”…:
C’è, penso, qualcosa di primigenio nell’istinto umano alla violenza e quindi, in seconda istanza anche nel cibarsi di altri esseri. Anche se così non fosse (e comunque non è detto che così dovrebbe essere e che non possiamo sforzarci di cambiare questa primordiale inclinazione), fin da bambino sono stato educato in questo senso (in più ricordo che quando mangiavo nello specifico carne di pollo tritata avvertivo una sensazione di brividi nel cranio, non ho idea però a cosa fossero legati)… Ma da bambino, da adolescente e da post-adolescente c’era anche una certa avversione per certi tipi di carne, insieme a uno sporadico ragionamento sul benessere animale: ciò era il germe del mio vegetarianesimo “miscellaneo”, ibrido di ragioni etiche e questioni meramente di gusto: qualcosa che oscilla tra il disgusto morale e sensoriale. Adesso comincio a domandarmi se portare il mio essere “veg” su un altro livello, implementandone l’aspetto etico.
Probabilmente infatti anche l’esperienza come operaio in una fabbrica di carne mi ha fatto acquisire una visione diversa dei “prodotti animali” e, in generale, dei “prodotti” del nostro sistema economico-sociale. Se oggi non fosse così facile entrare in un negozio e uscire dopo pochi istanti con la borsa piena di artificiosi insaccati, ma si dovesse invece scannare un maiale, intelligente e dolce come il cagnolino al quale si è affezionati, probabilmente più persone farebbero la stessa scelta che fece Donald Watson quando da adolescente optò di non cibarsi più delle membra in potenza decomposte di altri esseri senzienti, e poi di un qualcosa che esce dalle loro mammelle e dal loro di dietro.
Nelle due foto che seguono e nella breve storia che c’è dietro, si riflette il mio tipo di vegetarianesimo con tendenze e preferenze flexi-vegane: nel mio frigo avevo circa 40 grammi di tofu da consumare (potrei mangiarne 200 grammi a cena) e una confezione di un tipo di formaggio con caglio microbico (potrei mangiarne 100 grammi a cena): la soluzione è stata mangiare altri 80 grammi di formaggio insieme alle mitiche (nonché mia “food addiction” oltre che virtualmente –alla fine di questo articolo capirete perché “virtualmente”- cruelty free), verdure grigliate a casa (melanzane e zucchine di cui vado ghiotto), come secondo.
Il piatto "flexivegano" con tofu e formaggio con caglio microbico prima di essere scaldato. |
Il piatto "semivegano" uscito dal microonde. |
Per gli “specisti-integralisti” e per me stesso, vegetariano che anche indirettamente contribuisce alla morte e allo sfruttamento di homo sapiens e altri viventi
Mi permetto di dire con molta umiltà che, anche se si accettasse senza batter ciglio una visione fondamentalista, specista e completamente egoistica del nostro rapporto con gli animali e con l’ambiente, sarebbe quantomeno logico (se non anche eticamente più accettabile) fermare gli allevamenti-prigioni e luoghi di sterminio sistematico, e propendere verso soluzioni che siano almeno più vagamente rispettose dei loro diritti e della Terra. Se proprio ci fosse un estremo bisogno di cibarsi di altri essere viventi, almeno, andrebbero trattati con più decenza, con più “umanità” ed evitando di distruggere il nostro stesso habitat: questa è infatti una strategia alimentare tanto egoista quanto stupida. In più, se proprio non si riuscisse a evitare la carne per una questione di gusto e irrefrenabile attrazione, sarebbe comunque interessante contemplare la possibilità della carne sintetica.
Rispetto, anche se non condivido, la scelta di chi vuole mangiare la carne, ma non è assolutamente accettabile la totale e plateale mancanza di rispetto verso i diritti degli animali e verso la nostra “casa” (che non è solo nostra). Gli unici interessi che mi sembrano siano tutelati sono quelli connessi a uno sfruttamento economico e ambientale che crea un benessere diffuso solo sul breve termine, e un benessere di maggiore entità per pochi, ma che comunque non sarà infinito! Perché le risorse a nostra disposizione non sono infinite … Dal punto di vista dei latticini, come accennato sopra: attualmente anche per questi preferisco il gusto delle alternative vegetali, come una certa marca di latte di farro o un prodotto confezionato simile al “galbanino” dal punto di vista visivo (ma con un nome commerciale che ricorda quello della parola “mozzarella” incrociato con “riso” –è infatti ottenuto dalla fermentazione del riso-) e dal gusto affumicato che supera di gran lunga il corrispettivo “provoloso” di derivazione animale… Resta il parziale problema della disponibilità e diffusione di queste alternative nella “vita reale-quotidiana”(per esempio al compleanno di un amico dovrei rifiutare la sua fetta di torta, e con tale rifiuto cercare di affermare il mio punto di vista sul benessere animale e ambientale?!) oltre che dei valori nutrizionali (per qualche giorno provai a mangiare solo tofu al posto degli altri secondi, con degli imprevisti sul versante del gonfiore addominale… Per questo problema, e anche per un secondo che nutrizionalmente vada a sostituire le uova, dovrei contattare il mio nutrizionista e ovviare con la giusta pianificazione ed educazione alimentare).
Infine colgo anche l’occasione per fare un personale invito a tutti i vegetariani, vegani e a chiunque abbia a cuore la sostenibilità sociale e ambientale: dobbiamo sicuramente impegnarci di più per combattere anche lo sfruttamento di noi “primati umani”, perché i pomodori che arrivano sulle nostre tavole troppe volte sono raccolti da fratelli e sorelle sapiens trattati come schiavi, i cui diritti, anche se espressamente riconosciuti almeno sulla carta, sono puntualmente calpestati. Un discorso analogo si potrebbe fare per i preziosi minerali contenuti nel mio portatile, quello con cui scrivo questo articolo, e si potrebbero fare svariati esempi di “prodotti” derivanti da un modo di organizzare la società barbaro, non sostenibile e autodistruttivo. L’impegno per l’emancipazione “animale” (che si tratti di homo sapiens, bovini o insetti) e la tutela di tutti gli esseri viventi, incluse le piante che ci fanno respirare, devono andare di pari passo, perché tutti gli esseri sono intimamente connessi, da un punto di vista biologico e forse anche da quello spirituale.
Certamente cambiare la propria dieta, non solo per sé stessi, è una maniera di cominciare a essere più empatici e moralmente solidali agli animali non umani, oltre che una scelta materialisticamente più sostenibile per il pianeta… Sempre che i prodotti e le battaglie vegane non siano fagocitate dal sistema consumistico e dai suoi principali attori, a cominciare dalle multinazionali impegnate nell’industria alimentare (prima di tutti in questo caso) fino ad arrivare agli attivisti più o meno conniventi e consapevoli delle loro partnership (interessante a tal proposito è lo scritto di Marco Reggio intitolato "Allevatori "etici": animali(sti) felici")… E forse, non avendo ancora completato una transizione verso il veganesimo, pur comprendendo che allo stato attuale delle cose il consumo di latticini, uova e miele comporta il massacro di altri esseri, sto solo rimandando il problema e fornendomi giustificazioni per stare in pace con me stesso, come quelle che mi do quando uso il telefonino con i metalli preziosi impregnati di sangue… O forse sto facendo comunque del mio meglio e sto incominciando a progredire come essere animale pensante…
ultima modifica 7/11/23 ore 21:06
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