14.6.22

La scienza e l’infinito

Il post che segue è stato scritto molti anni fa da un professore di matematica, quando la parola “post” ancora non diceva nulla ai più. Nasce dal suo “tormento” sull’impossibilità umana di comprendere le ragioni prime e ultime dell’esistenza, ed esprime il concetto secondo cui si può “razionalmente” tendere sempre di più (e infinitamente) verso “la Verità” senza però raggiungerla: il “sentimento” è uno strumento che potrebbe penetrare la radice intima delle cose, mentre il “razionale” (semanticamente, ma forse non logicamente opposto) sembra gettare luce solo sulla loro superficie.


La percezione dell’infinito è cosa antica nel sentire degli uomini. Per il poeta è sensazione vaga e indefinita che suscita l’immaginazione e fa subentrare il fantastico al reale. Per l’uomo di scienza è felice intuizione di ciò che non ha limiti di numero, di spazio e di tempo, che si palesa alla mente nella difficile e faticosa impresa della conoscenza degli intimi segreti dell’universo.

Lasciamo immaginare al poeta <<gli spazi interminabili e i sovrumani silenzi>> per dire qui, quando e come il pensiero, percorrendo gli ardui sentieri della scienza, riesce a captare l’infinito.

Per ben cominciare il discorso è utile riferirsi alle scienze matematiche e ricordare l’opera del grande Archimede, il più geniale scienziato dell’antichità classica e una delle menti più elevate che la storia conosca. Egli giustamente è considerato il primo conquistatore dell’infinito; lo ha dominato e ne ha fornito insieme una definizione e un modo di costruzione. Invero, la sua conquista è quella dell’infinito dei numeri, fondata su di una maniera pratica di scrivere i grandi numeri che egli stesso inventava. Due sono i suoi lavori fondamentali rivolti a specifici argomenti di aritmetica. Uno di essi è noto con il nome “Arenaria” ed è dedicato a sostenere, in antitesi con l’astronomo Aristarco, la tesi della infinitezza del Mondo.

Per convalidarla, Archimede dimostra che l’aritmetica fornisce senza difficoltà i mezzi atti a scrivere il numero, evidentemente grandissimo di granellini di sabbia che sarebbero necessari a riempire il globo delle stelle fisse, cioè la sfera universale; anzi ci insegna a scrivere numeri molto maggiori. Occorre ricordare che, a quei tempi, neppure i più grandi intellettuali riuscivano a concepire i grandi numeri, perché questi oltrepassando qualunque uso pratico sfuggivano alla stessa immaginazione. Così, ad esempio, era inconcepibile pensare e dire che dopo il chilometro 864 viene il chilometro 865, poi il chilometro 866 e così continuare la progressione su di una strada immaginaria, aggiungendo un chilometro a quelli già contati. Ciò perché allora era impensabile che si potessero percorrere distanze tanto enormi. 

Nell’Arenaria, Archimede per prima cosa fece uno sforzo considerevole per dimostrare che, dopo il più grande numero immaginabile, vi era ancora un numero più grande; ed in questo modo egli contravveniva al famoso detto “bisogna pur fermarsi”. Per avvalorare la sua tesi, Archimede poi inventò un nuovo sistema di numerazione che rendeva possibile scrivere numeri enormemente grandi, ma pur sempre finiti dei quali il sistema di numerazione posseduto allora  dai greci, non riusciva a fornire alcuna nozione. Il vecchio sistema era in verità piuttosto complesso; esso si avvaleva di numerosi segni che, arricchiti di opportuni indici in basso non riuscivano ad esprimere numeri al di là della miriade di miriadi (100 milioni)Con il nuovo sistema ideato, Archimede può spingere la numerazione oltre ogni limite e concludere che il calcolo, nel suo processo illimitato, arriva a superare ogni realtà.


La conquista di Archimede dell’infinito dei numeri fu poi sfruttata dalla matematica solamente nel corso del XVII secolo, quando la nozione dell’infinito incominciò a dare le vertigini ai filosofi. Fu appunto in questo secolo che ebbe origine l’istituzione dell’analisi infinita, comunemente detta analisi infinitesimale, cioè del calcolo delle grandezze infinitamente grandi ed infinitamente piccole. Geniali autori di questo calcolo furono due grandi personaggi, il tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz e l’inglese Isaac Newton. Essi istituirono una nuova metodologia matematica, spinti dalla necessità di risolvere numerosi problemi, fra i quali: individuare le proprietà peculiari di una curva e tracciare le tangenti nei suoi punti; calcolare le aeree delle superfici ed i volumi dei solidi; studiare il moto dei corpi, chiarendone i caratteri. Il metodo di Archimede, e quindi di Leibniz e Newton è stato soprattutto quello di avere inventato un’operazione del pensiero che conduce all’infinito.

Invero il pensiero movendosi in  un mondo puramente astratto, fatto di simboli appropriati, di definizioni e deduzioni, percepisce in modo chiaro e distinto l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande e ne traduce i concetti in termini matematici. E tutto ciò inorgoglisce il matematico, ed in genere l’uomo di scienza che, in un certo senso, si sente conquistatore dell’infinito. Però, nel momento in cui egli abbandona il mondo delle astrazioni e rivolge la sua attenzione alla realtà concreta che lo circonda, e cioè al macrocosmo ed al microcosmo, per scoprire gli intimi segreti dell’universo, si rende conto di quanto sia labile quella sua conquista.

L’astronomo nella profondità del cielo, il fisico nel problematico mondo delle particelle subatomiche si avventurano in una marcia trionfante e faticosa: trionfante perché è sulla via del vero, faticosa poiché il cammino è durissimo e per di più senza traguardo. E tuttavia l’uomo di scienza, sospinto dal desiderio di sapere, vivo e palpitante, pur velato da soave malinconia, affina la sua ricerca dell’infinito. Nei laboratori più all’avanguardia, con macchine sempre più grandi e sofisticate, si rompono particelle sempre più piccole, penetrando le radici della stessa natura; nei centri della ricerca spaziale, progetti sempre più ambiziosi gettano l’occhio nello spazio, quindi nel tempo, cercando di avvicinarsi sempre più al momento in cui ebbe origine l’universo. Ma che cosa è questa affannosa ricerca se non quella di arrivare alla sorgente della materia che ci circonda? È possibile avere una risposta scientifica al problema?

La risposta c’è ed è chiaramente negativa: le scoperte più recenti confermano soprattutto un dato incontrovertibile, quello cioè che potremo sempre più approssimarci, alla sorgente della materia ma mai toccarla con un dito. Così pure risaliremo sempre più indietro all’origine del nostro universo, ma mai riusciremo ad arrivare ai primi istanti in cui la materia ebbe origine. Che la scienza  non porti ad una conoscenza totale della realtà che ci circonda è un fatto che, diversamente dall’uomo comune, gli scienziati di oggi considerano come scontato. Potremmo arrivare a conoscere sempre di più il “come” delle cose, ma non arriveremo mai ad una spiegazione razionale del loro perché. Si illude l’uomo quando, esaltato dalla sua potenza razionale crede che ogni mistero possa essergli svelato dalla ragione, dimenticando la sua condizione umana.

Blaise Pascal, famoso scienziato del ‘600, affermava che “l’esprit de geometrie” (lo spirito della geometria), cioè il pensiero razionale è come una luce che scivola sulle cose, illuminandone la superficie; a penetrare invece nell’intimo delle cose e ad attingere la loro segreta radice, occorre invece “l’esprit de finesse” (lo spirito della delicatezza), cioè il sentimento. <<Conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore; per questa seconda via conosciamo i principi primi… La conoscenza dei primi principi, per esempio, che c’è spazio tempo, movimento, numeri, non è meno salda di alcune di quelle che ci  danno i nostri ragionamenti. Su questa conoscenza del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione e fondarvi i suoi ragionamenti>> (dai “Pensieri di Pascal”).

Vero è che l’universo è in una dimensione che non può essere afferrata dalla sola razionalità della nostra mente. Nei vari campi della scienza si scoprono fatti e tendenze, fenomeni veramente eccezionali, che non si spiegano con il solo gioco del caso: si delinea così la possibilità di un universo preparato e finalizzato da un Creatore che ha riposto intelligenza e sentimento nella creazione. Dai nuclei degli atomi alle orbite elettroniche, dalle particelle cosmiche alle radiazioni solari, ogni corpuscolo, ogni vibrazione, ogni legge, trovano la propria finalità. La natura appare soggiogata ai disegni di una Entità Superiore che è intelligenza e sentimento; un’Entità che i credenti chiamano Dio, situata all’infinito, nell’eternità, depositaria di ogni informazione e autore del “fiat” dell’universo.


Ed allora, consapevoli dei limiti del sapere scientifico, certi di scorgere sempre più ampi orizzonti, riverenti di fronte a ciò che sfugge all’ansiosa ricerca scientifica, perché non spingere l’umano desiderio dell’infinito con uno slancio che permetta di entrare in contatto, sia pure infinitesimale, con questa verità assoluta che ci circonda? È cosa ardua, ma non c’ è altra soluzione al mistero del mondo ed è rassicurante per quanto incredibile possa apparire.

Michele Addabbo

 


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