12.9.22

A Bordo! 2022, il primo festival di Mediterranea Saving Humans APS

Il proibizionismo dell’immigrazione, il memorandum Italia-Libia, le migrazioni “di serie B” e i respingimenti in Grecia





La scorsa settimana a Napoli si è tenuto "A Bordo!", il primo festival di Mediterranea Saving Humans APS, <<la piattaforma di realtà della società civile>> che con la sua <<azione non governativa>> di <<disobbedienza morale>> -verso le politiche che criminalizzano le migrazioni- e <<obbedienza civile>> -alle norme che salvaguardano i diritti umani- salva persone nel Mediterraneo centrale, anche documentando e denunciando le precondizioni e i risultati dei “viaggi della speranza”. Presente in mare dal 2018, dall’inizio del conflitto in Ucraina è operativa anche “via terra” con delle carovane che portano assistenza medica e beni di prima necessità, e riportano indietro persone vulnerabili.




Purtroppo siamo riusciti a seguire solo l’ultima parte del festival (dati i nostri umili mezzi e anche perché siamo venuti a conoscenza del festival tardi) e abbiamo comunque sentito il dovere di “scendere in piazza”: Sabato 3 c’è stato un breve corteo seguito da un “flash-mob”, di circa due ore, di fronte alla Prefettura partenopea contro gli accordi Italia-Libia, seguito dall’ultimo dibattito e dal concerto conclusivo.

Nelle righe che seguono troverete alcuni spunti emersi dalla manifestazione e in particolare ci soffermiamo: sul memorandum d’intesa italo-libico, sui cosiddetti “migranti di serie B”, su una denuncia fatta contro i respingimenti delle autorità greche e diversi riferimenti a questioni più generiche, come il proibizionismo delle migrazioni.

Troverete anche un video girato male, ma che contiene un audio sufficiente di tutti gli interventi rivolti davanti l’ufficio del Governo. Inoltre trovate anche i collegamenti alle dirette-video di altri eventi del festival postati da Mediterranea e da Refugees in Libya sulle loro pagine Facebook, come il dibattito conclusivo del festival.

Ma partiamo dalla ragione principale della manifestazione di fronte alla Prefettura, gli accordi sottoscritti dal governo libico e da quello italiano nel 2017.



 


IL MEMORANDUM ITALIA-LIBIA

Il memorandum d’intesa, firmato dall’allora presidente italiano Gentiloni e dall’ex presidente libico Fayez al-Sarraj nel 2017, sancisce la cooperazione tra i due paesi <<per affrontare tutte le sfide che si ripercuotono negativamente sulla pace, la sicurezza e la stabilità nella regione del Mediterraneo>>, ossia  <<nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di essere umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere>>, nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, formalmente…



Di fatto si affida il controllo della migrazione, e quindi della frontiera, alla sedicente Guardia costiera libica (ritenuta connivente con gli stessi trafficanti) e al governo che regola i centri di detenzione (centri ufficiali e non) dove avvengono dei veri e propri crimini contro l’umanità, che vanno dalla riduzione in schiavitù allo stupro, passando per l’omicidio, ed evitando il soccorso in mare cui saremmo vincolati giuridicamente… Ma anche non immaginando e applicando altre misure che potrebbero porre fine ai “viaggi della speranza”, iniziando dall’apertura di corridoi umanitari per arrivare a una più utopica fine del proibizionismo delle migrazioni (desiderabile da chi scrive quest’articolo).

In concreto ciò avviene grazie al supporto materiale ed economico dello Stato italiano e dell’Unione europea per una spesa che, fino al 2020, ammonta all’incirca in 800 milioni di euro per diversi progetti in mare e a terra. Di questi circa 200 sono stati spesi per operazioni direttamente sul suolo libico e includono programmi di sviluppo economico, attrezzature mediche per i campi “di concentramento”/di detenzione, imbarcazioni, addestramento e supporto tecnologico <<agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina>>. Problema cruciale dei finanziamenti è che non è dato sapere in cosa consistono questi programmi e come, nello specifico, questi fondi vengono impiegati, dato che la rendicontazione e i dettagli degli accordi sono segreti.

Lo scorso due Febbraio decine di organizzazioni ne hanno chiesto la revoca e hanno domandato a UNHCR (agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati) e OIM (organizzazione intergovernativa dedicate alle migrazioni e dal 2016 collegata all’ONU) di unirsi alla richiesta. Oltre ai respingimenti verso un paese non sicuro e alla cooperazione nel mantenimento dei “lager” libici, vengono criticati anche i cosiddetti rimpatri “volontari” verso i paesi di origine operati dall’OIM: in pratica si chiede a quelle persone, detenute arbitrariamente solo per la loro condizione di migranti, di ritornare “volontariamente” nei paesi dai quali sono fuggiti, paesi in cui potrebbero subire persecuzioni e altre violazioni dei loro diritti, e quindi vengono sostanzialmente “stretti fra due fuochi”. Critiche sono rivolte anche all’efficienza dei programmi di evacuazione umanitaria dell’UNHCR: sono pochissimi quelli che riescono ad accedervi sia per <<la scarsa collaborazione delle autorità europee nel facilitare il reinserimento sul loro territorio, sia per le modalità di selezione>> che, addirittura, sono spesso guidate dalle <<guardie carcerarie>> che tendono a escludere certe nazionalità e con <<procedure prive di garanzie sostanziali e procedurali>>.

L’avvocato Cristina Cecchini dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione  ha dichiarato a proposito: <<I corridoi umanitari e le misure emergenziali di evacuazione, per quanto importanti, sono misure discrezionali e di natura concessoria che non sono idonee ad escludere la responsabilità dello stato italiano per le violazioni subite dalle persone migranti in conseguenza del blocco delle partenze reso possibile dai finanziamenti elargiti alle autorità libiche e non sono idonee in alcun modo a garantire il diritto d’asilo>>.

Secondo Amnesty International, da quando l’accordo è stato siglato, sono più di 85.000 le persone “intercettate” in mare dai guardiacoste-miliziani libici, con delle operazioni che, nei “migliori” dei casi, si concretizzano nel loro ritorno forzato verso la Libia, e cioè un paese non sicuro (come affermato anche dal Segretario generale ONU, invitando a rivedere le politiche di intercettamento in mare) dove ricomincia il ciclo di abusi. In altri casi sono state denunciati abbandoni in mare, mancati soccorsi e reazioni violente anche armate (per esempio in un caso ci sono stati degli spari intimidatori rivolti pure alla nave di una ONG; oppure in un altro, come si vede nel video che segue pubblicato sul canale di "La 7", i guardiacoste libici interferiscono con le operazioni di salvataggio).

 


Amnesty ha anche chiesto la creazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sulla cooperazione con la Libia per il controllo delle frontiere.

Nel 2020 l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione dichiarava a "Globalist.it" che <<l’erogazione di questi fondi potrebbe rendere complici gli italiani con le violazioni profonde dei diritti umani nei centri di detenzione>>: se l’Italia non è complice delle atrocità commesse dal punto di vista del diritto internazionale purtroppo, quantomeno, lo è dal punto di vista morale.

Ma il memorandum, oltre a essere considerato immorale e illegale  per quanto appena detto, sarebbe anche in violazione dell’articolo 80 della Costituzione italiana: essendo di fatto un accordo politico e non uno meramente tecnico, dovrebbe essere approvato dal parlamento. Inoltre sono stati mossi dubbi anche sulla questione degli oneri finanziari, prevista sempre dallo stesso articolo.

Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International, ha spiegato in cosa consiste effettivamente il memorandum secondo lui, inquadrandolo storicamente e geo-politicamente, in un articolo apparso a Febbraio su “Il Domani”: l’obiettivo principale era quello di bloccare gli sbarchi direttamente in Libia, invece di <<salvare persone in mare e sbarcarle in un luogo sicuro – come fatto, almeno a tempi alterni, tra fine 2013 e 2016>>, e ritornando alla strategia attuata dal governo Berlusconi, poi interrotta dalla caduta di Gheddafi. Strategia che era stata anche colpita ulteriormente <<da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che nel 2012  aveva sancito che intercettare persone in mare e riportarle in Libia equivaleva a torturarle>>. Poi, per aggirare quella sentenza, si <<escogitò un trucco>>, e cioè la ricostruzione della Guardia costiera libica dotata di <<motovedette (italiane), di formazione (in Italia o su navi italiane), di una zona di ricerca e soccorso (delineata dalla Guardia Costiera Italiana) e di un centro di coordinamento (su una nave della Marina Italiana ormeggiata a Tripoli) – e si chiese a questa di intercettare persone in mare e riportarle in Libia, per conto dell’Italia ma non in suo nome>>, ottenendo una grande riduzione degli sbarchi sulle nostre coste, e spostando le vittime delle tratte sul suolo libico o “in fondo al mare”.

Se non verrà annullato, a Novembre, il memorandum si rinnoverà automaticamente per altri tre anni.





“REFUGEES-JOURNALISM” E MIGRANTI DI “SERIE B”



L’intervento e la storia di Yambio David Oliver di Refugees in Libya ci colpiscono particolarmente, anche perché legati all’attività del fare informazione “dal basso”. David infatti è un rifugiato e un attivista originario del Sud Sudan che, dopo quattro anni in Libia e dopo essere stato incarcerato nei campi di concentramento-detenzione, ed essere stato obbligato a fare da interprete ai militari libici, ha organizzato un sit-in di fronte alla sede tripolitana dell’alto commissariato ONU nel 2021 durato mesi, e ha avviato un progetto di “citizen-journalism”- o forse è meglio dire di “refugee-journalism”: il sito Refugees in Lybia che nasce per documentare le inumane condizioni di chi si trova intrappolato in Libia, lì dove i media mainstream non possono o non vogliono arrivare.

Paradossalmente fuggiva da un conflitto e anche dal pericolo di essere reclutato come bambino soldato, fuggiva anche perché non voleva partecipare allo “sterminio di civili” (così dovremmo definire le guerre),  e poi si è ritrovato costretto alla coscrizione e infine a fuggire perché sapeva troppo (come racconta in questo podcast), giungendo in Italia (dove si trova da due mesi), dopo quattro tentativi falliti di attraversare il Mediterraneo ed essere “rispedito” come un pacco, illegalmente, nei campi di concentramento libici.

Nel suo intervento, con una rabbia gentile, ha denunciato le violazioni dei più basilari diritti umani e le scelte politiche scellerate che, indirettamente o meno, alimentano brutali abusi, e verso cui ci siamo colpevolmente assuefatti: persone detenute peggio di animali da allevamento (e non è una metafora vagamente eufemistica, ma la cruda realtà), uccisioni, stupri, torture, diniego di comunicazione (eccetto quelle attuate per estorcere soldi ai familiari dei ristretti, quando reperibili), arruolamenti e lavori forzati, prostituzione, viaggi della speranza dove si muore barbaramente tentando il tutto per tutto, e altri fenomeni causati dal proibizionismo della migrazione, dall’indifferenza o, peggio, dal consapevole sfruttamento dell’economia della schiavitù: l’economia della mafia del traffico di esseri umani, della riserva di manodopera da impiegare a un costo prossimo allo zero e senza rispettare le più elementari norme di un lavoro dignitoso (si pensi al fenomeno del caporalato), di alcune associazioni nel settore dell’accoglienza nate per intascare denari pubblici invece che per assistere e includere chi migra, e non di chi viene accusato ingiustamente di essere un “tassista del mare” perché salva vite a largo delle coste, vite che non sarebbero a rischio se la criminalizzazione delle migrazioni non esistesseNon sarebbero a rischio se l’accoglienza che giustamente stiamo assicurando alle sorelle ai fratelli dell’Ucraina fosse assicurata a chi fugge da altri conflitti, dalla desertificazione o, semplicemente, a chi si sposta per cercare una vita diversa, <<per conoscere cosa c’è in un altro posto>>. Un fenomeno che fa parte della <<dimensione sociale della natura umana che connette tutti fin dalla nascita>>: per migliaia di anni l’essere umano si è sempre mosso, condizione che naturalmente gli è assicurata dalla sua conformazione fisica, ma solo negli ultimi secoli le restrizioni agli spostamenti sono aumentate parallelamente alla facilità di questi, facilità garantita dalle innovazioni infrastrutturali e tecnologiche del villaggio globale… Ma altrettanta facilità non è garantita dalle sue leggi fratricide e dall’avidità!

Spesso si sente parlare di “invasioni” di migranti ma, in realtà, la stragrande maggioranza delle migrazioni avviene all’interno della stessa regione geografica: <<In Libia ci sono circa un milione di persone che sono fuggite verso quel paese. Di queste solo il 10 percento vorrebbe uscirne attraverso il mediterraneo. Il resto vorrebbe restare lì per lavorare fino a che la situazione nei loro paesi di origine consenta loro di farvi ritorno. Per questo sono costretti a prendere la mortifera strada del mare. Negli ultimi cinque anni abbiamo perso tra le 24 e le 25 mila vite. Ogni vita potrebbe essere quella di un politico, di un imprenditore o di un dottore… Ogni vita persa è quella di una persona con desideri, ambizioni, persone che vogliono semplicemente una vita dignitosa>>. Continua spiegando che la stima di 25000 morti negli ultimi anni si riferisce alle vittime in mare, non a quelle spirate nel deserto, nelle città, anche a seguito dei traffici e dei soldi che <<l’Italia ha dato al regime mafioso in Libia>>, con la conseguente esternalizzazione delle frontiere: sono vittime di un <<modello di business>>, pagano il prezzo della lotta per il controllo delle risorse, e il memorandum in realtà <<non riguarda effettivamente le persone che vanno verso l’Italia>>.

Suggerisce poi un esperimento di immedesimazione: <<immaginate di essere voi a dover fuggire dall’Italia e dover prendere un gommone per attraversare la Manica, immaginate di dover lasciare tutto per scampare alla morte: come vi sentireste ad essere accusati di invadere un altro paese come l’Inghilterra?!>>.

Avviandosi verso la conclusione fa un appello molto franco e critico verso coloro che vivono nelle democrazie liberali: <<Oggi non ce la stiamo prendendo con il governo italiano e i paesi membri dell’UE, ma con i cittadini che godono di questa democrazia e che non sanno cosa significhi democrazia, perché dovrebbero sapere cosa accade all’esterno dei loro confini e come l’Italia sta sopravvivendo –e cioè sfruttando persone al di là dei confini>>.




A proposito dell’ambito statistico e dei dati numerici che smentiscono fantomatici esodi  e invasioni di migranti sbarcati, e in relazione all’accoglienza fornita ai profughi ucraini (accoglienza che riteniamo sacrosanta, ma che purtroppo è “a senso unico”), apriamo adesso una breve parentesi di fact-checking” e di “data-journalism:

dal 01/01/2022 al 08/09/2022, secondo i dati del Ministero dell’interno sono sbarcate sulle coste Italiane 62.339 persone. Sempre stando ai dati del Viminale, il 23/03/2022 (un mese dopo l’invasione in Ucraina) i profughi ucraini giunti sul suolo nostrano erano 65.350, e dunque di gran lunga superiori a quelli degli sbarchi. In questo caso però non ricordo nessun demagogo di turno che ha parlato di “invasione” o di “emergenza”, nessun politico populista ha detto che gli ucraini ci rubano il lavoro, e altre dichiarazioni di questo tenore... Per completezza, infine, secondo i dati dell’UNHCR il 06/09/2022 in Italia c’erano quasi 160 mila rifugiati dall’Ucraina (la piccola Olanda ne ospita più di 76 mila, la Spagna circa 140 mila, la Francia 101 mila, la Turchia 145 mila, il Regno Unito quasi 123 mila e la Germania più di un milione), su un totale di più di 7 milioni di rifugiati in tutto il continente europeo.

Per queste ragioni la capomissione di Mediterranea Laura Marmorale non ha lesinato critiche alle autorità europee, e ha rimarcato il concetto dei “migranti di serie A e B”, sia nell’incontro conclusivo che nelle dichiarazioni rilasciate ad Alessandra Fabbretti dell’agenzia "Dire", definendo l’accoglienza degli ucraini <<lodevole ma discriminante verso chi arriva da altre nazioni (…) i nostri governanti non considerano mai che va garantita a tutti la sicurezza di chi fugge da guerre e conflitti, assicurando vie legali per arrivare nel nostro Paese anche riformando certi trattati europei, come la Convenzione di Dublino, o adottando strumenti come la Direttiva sulla protezione umanitaria temporanea, utilizzata invece per i profughi ucraini. La gestione di quell’esodo di persone verso i paesi europei dimostra che si può fare (…) Questa Europa dà diritti a chi le somiglia, per colore della pelle e retroterra culturale>>. La critica fatta alla politiche della migrazione riguarda la sua stessa impostazione, spiegando che bisognerebbe focalizzarsi sulla <<tutela delle persone>> piuttosto che sulla <<gestione dell’ordine pubblico>>.

Monika Matus, attivista dell’organizzazione Grupa Zagranica (Gruppo di Frontiera), piattaforma polacca di diverse organizzazioni umanitarie, lo scorso Novembre a "Rainews24" spiegava che la maggior parte di persone che giungevano alla frontiera Polacca dalla Bielorussia venivano re-inviate nello stato vassallo della Russia di Putin, ed erano principalmente iracheni e siriani. A Marzo di quest’anno, con l’intensificarsi del “flusso ucraino” dalla frontiera più a sud, spiega all’agenzia "Dire" che<<i profughi dall’Ucraina entrano in Polonia senza problemi, la frontiera è spalancata anche per chi è senza documenti, e la procedura d’asilo parte subito. Sarebbe una cosa bellissima, se non fosse che invece pochi chilometri più a nord, quelli che arrivano dal confine bielorusso trovano il muro a fermarli, oltre a un enorme dispiegamento di agenti di frontiera che li respingono sistematicamente indietro (...) Il nostro governo applica l’apartheid (…) applica una segregazione per quelli che invece non sono ucraini bensì libanesi, siriani, yemeniti, somali, afghani… il ministro dell’Interno ha già dichiarato pubblicamente che quelli non sono “veri rifugiati”, a differenza degli ucraini che, ha detto, “scappano da una guerra vera”. È propaganda>>.


I RESPINGIMENTI ILLEGALI IN GRECIA





L’intervento conclusivo della manifestazione alla Prefettura è la pesantissima denuncia contro il governo di Atene, fatta da Iasonas Apostolopoulos, che da diversi anni partecipa alle operazioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo e adesso fa parte dell’equipaggio della nave di Mediterranea, la Mare Jonio. Sarebbe stato premiato dal suo paese con una medaglia, ma il riconoscimento gli è stato infine negato. Spiega che adesso in Grecia è illegale cercare di attuare questo genere di operazioni, dunque si rischia il carcere anche <<perché non si vuole che ci siano testimoni dei crimini che il governo greco compie: in Grecia abbiamo l’unica guardia costiera che invece di salvare persone in pericolo, crea il pericolo, creano i naufraghi. Le autorità sequestrano le persone sulle coste e le ributtano in mare aperto. Sostanzialmente la maggior parte delle persone arrivano da sole in Grecia, l’arrivo non viene registrato, loro vengono catturate, tecnicamente sequestrate. Poi vengono poste in luoghi segreti dove gli vengono sequestrati i loro averi –passaporti, telefonini- messe su gommoni e abbandonate in mare aperto senza cibo, acqua e ogni mezzo necessario alla sopravvivenza. Questi crimini sono supportati dall’UE e da Frontex>>, per questo pensa sia necessario che gli stati dell’Unione europea debbano unirsi per combattere questo genere di pratiche. Una maniera per combattere i respingimenti che <<sono studiati per restare invisibili>> è proprio renderli visibili.

Per questo spiega che lui, come tutti quelli che prendono posizione contro i respingimenti, sono presi di mira dal governo, subiscono minacce di morte ed etichettati come “traditori”: <<se amare il tuo paese significa accettare l’uccisione di rifugiati ai nostri confini, gli abusi della polizia e lo sfruttamento economico, allora siamo orgogliosi di essere chiamati “traditori”… La solidarietà non può essere criminalizzata, e la solidarietà alla fine prevarrà!>>. È di circa due mesi fa l’inchiesta portata avanti da diverse testate internazionali, tra cui il The Guardian”, che fornisce ulteriori dettagli e pare confermare la versione dell’attivista, mentre il governo conservatore greco nega questo genere di accuse, facendole “rimbalzare” verso il governo turco

Intanto un funzionario delegato ai diritti fondamentali dell’agenzia Frontex (ossia la guardia costiera europea che a sua volta è accusata di essere complice dei respingimenti illegali) ammette che <<la Grecia è uno di quei paesi che ha bisogno di un maggiore monitoraggio>>.


GLI ALTRI INTERVENTI DI FRONTE ALLA PREFETTURA: DAI LAGER CONTEMPORANEI A UN MONDO SENZA FRONTIERE




Padre Alex Zanotelli, <<un missionario di 84 anni>> che ne ha sofferti 12 <<vivendo in una baracca, in una delle baraccopoli più terribili di Nairobi>> e la cui generazione <<sarà tra le più maledette della storia umana>>, dopo aver stimato i <<sepolti nel mediterraneo>> tra i 50 e i 100 mila in totale, a causa dei viaggi della speranza, mette in relazione da una prospettiva storica la nostra società con quella nazista: <<un giorno quello che noi diciamo dei nazisti, domani lo diranno di noi: siamo davanti a dei crimini autentici, criminalità pura! Come fa uno stato che si presenta come rappresentante della legalità a essere partecipe di un massacro del genere?!>>. Il memorandum lo definisce <<un testo criminale. Chiediamo almeno di capire cosa c’è scritto perché è secretato>>. Tra i suoi inviti, rivolti specificamente <<ai giovani>>, quello a rispondere con un amore politico alla sofferenza delle altre persone (<<come dice papa Francesco>>) e a impegnarsi per la sopravvivenza del pianeta. Al festival ha anche presentato il suo ultimo libro “Lettera alla tribù bianca”.




Due rappresentanti di Alarm Phone fanno da voce ai dispersi nelle profondità del mediterraneo, sommersi anche dalle ipocrisie e dalle insufficienze delle democrazie liberali che, in nome di quei valori che dovrebbero difendere anche in mare, fanno persino delle guerre per esportare “quel” modello di democrazia... La voce dei dispersi si materializza nelle commemorazioni che si tengono in diverse città di Africa ed Europa e, nel frangente specifico della manifestazione, nelle testimonianze di alcuni parenti (in collegamento telefonico da Zarzis in Tunisia) di persone il cui destino non è noto, che continuano per anni a <<resistere dall’altra parte della frontiera>> anche chiedendo di fare luce sul loro destino (con strumenti formali e giudiziari che però non vengono presi in considerazione) su possibili omissioni di soccorso e di altro tipo.






Specificamente affine alla loro lotta è quella de Le veglie contro le morti in mare, un coordinamento di cittadini che scende nelle piazze fisiche e fa “foto-azioni” sulle piazze virtuali dei social quando si verificano situazioni di soccorso mancato. Una delle attiviste conclude il breve intervento con un paragone: <<vietare alle persone di spostarsi è come lasciare imputridire l’acqua che beviamo>> perché gli altri siamo noi, perché siamo interdipendenti!

Gian Andrea Franchi di Linea d’ombra ODV, associazione triestina che assiste migranti della rotta balcanica, spiega che la maggior parte dei migranti assistiti da loro non vuole restare in Italia, e per questo <<devono nascondersi>> tramutandosi in “fantasmi”, in ombre... L’associazione sostiene la causa di un mondo senza frontiere, di persone libere di migrare <<come degli uccelli>>. Ricorda poi la morte di pochi giorni fa del ragazzo pakistano di 28 anni, dal nome ignoto, <<suicidato dallo stato>> nel CPR di Gradisca d’Isonzo: <<si tratta di un assassinio di stato. I CPR sono delle galere illegali, per di più affidate a compagnie private che guadagnano, letteralmente, sul dolore di queste persone. Questo è indicativo della società in cui viviamo, in cui il guadagno è la fonte principale di vita, basata sul disprezzo di vita reale>>: perciò accusa lo stato di questo omicidio e di tutte le altre vittime sulle diverse rotte migratorie. Ricollegandosi al paragone di Alex Zanotelli sui campi di concentramento afferma che questi, in realtà, non sono mai scomparsi dall’Europa, e che la parte del mondo in cui viviamo <<porta il marchio del colonialismo e del razzismo, contro cui dobbiamo lottare fino in fondo>>. Conclude il suo intervento con un motto appreso in Palestina: <<esistere è resistere, resistere è esistere>>.

Claudio Olivieri di La Comune rivendica l’importanza della manifestazione perché avviene in un <<periodo di guerra, che non è l’unica (…) e che si intreccia a tante altre ingiustizie>>, dato che <<guerra, razzismo e stati sono strettamente legati>>: gli stati non possono impedire la naturalezza dello spostamento umano, ma possono renderlo <<molto doloroso>>. Conclude invitando la “sinistra” composta dai movimenti, dalle associazioni del terzo settore, del sindacalismo di base (e diversa da quella “di palazzo”) a unirsi <<cominciando da un tema qualificante, qualitativo, perché qualifica la civiltà, l’essere e il diventare più umani>>, e cioè il tema della libera circolazione delle persone che si può concretizzare in un permesso di soggiorno generalizzato.






DIBATTITO SU ACCOGLIENZA, PACE E LE NOSTRE CITTÀ





Dopo il corteo si è tenuto l’incontro conclusivo, la cui diretta si trova anche sul profilo Facebook di Mediterranea.





Tra gli svariati concetti su cui meditare alcuni ci sono rimasti particolarmente impressi: Beppe Caccia, coordinatore delle operazioni di Mediterranea, ha parlato anche degli aspetti giuridici relativi all’accoglienza, auspicando un’estensione degli strumenti offerti per la protezione dei singoli richiedenti asilo anche alle collettività. Un altro possibile “allargamento” potrebbe essere quello delle ragioni per cui questo genere di permessi dovrebbero essere concessi, come la desertificazione e i disastri ambientali.

Monica di Sisto di Fairwatch rievoca le istanze e le preoccupazioni del G8 di Genova del 2001: dopo più di vent’anni siamo veramente prossimi <<alla fine>> e proprio per questo dobbiamo lottare per ottenere quanti più diritti possibili. Di fronte alle immani tragedie, come quelle viste in prima persona quando si è recentemente recata in Ucraina, pensava a cosa si poteva fare in concreto: <<facciamo quello che si può!>> è stata la risposta più banale ma anche la più appropriata, quello che si può “nel nostro piccolo” e, in quel frangente specifico, portare un aiuto concreto, anche se sembra un’insignificante “goccia” nell’oceano del conflitto: meglio di non fare nulla e abbandonarsi agli eventi.

Don Gennaro Matino, che rappresentava il vescovo napoletano –assente per problemi personali- evoca la chiesa nell’era di Papa Francesco e si concentra semanticamente sulle parole “pace”, “sorella”, “fratello” e “guerra”: <<senza “parole” non c’è una “rivoluzione”>> propriamente detta, ma una semplice ed effimera <<insurrezione>> . Rimarcando il concetto che troppe volte <<noi cerchiamo una pace senza fastidio, senza lotta, senza rivoluzione>>, una pace e –per chi crede- un paradiso che non può esistere se, banalmente e tristemente, <<chi ha fame non può mangiare>>! Per definirci davvero parte dell’umanità <<bisogna credere nella pace e nell’accoglienza>>, ed è curioso che prima della fine secondo conflitto mondiale esistevano i <<ministeri della guerra, oggi quelli della difesa… Ma ci vorrebbe un Ministero della Pace>>.

Un rappresentate di “From the sea to the city” racconta dell’esperienza di Barcellona, dichiarata “città dei rifugiati”, e che spesso si è scontrata con la burocrazia e la volontà del governo centrale: nonostante l’attività di singole municipalità e delle organizzazioni della società civile venga osteggiata e <<limitata dalle leggi nazionali, la cooperazione è comunque fruttuosa>>, e per questo adesso la rete di cui fa parte punta a superare i limiti imposti collaborando con altri soggetti e collettivi a livello transnazionale.

L’intervento di Anna Fasano di Banca Etica, dopo la premessa sull’importanza di focalizzarsi su un cambiamento del sistema finanziario, così come studiamo e desideriamo il cambiamento di altri sistemi sociali e così come ci battiamo per cambiare altri fenomeni umani, si concentra sull’”arma della scelta”: <<a volte ci sentiamo impotenti di fronte ai colossi economici, ma noi abbiamo la possibilità di scegliere>> e non dobbiamo sentirci impotenti: <<ciascuno di noi è invece potente, e come collettività anche di più>>. Per esempio si potrebbe utilizzare l’arma della scelta andando <<dalle nostre banche e dire: noi non vogliamo finanziare il nucleare, oppure le armi, ecc. C’è una banca che ha ricevuto migliaia di mail e ha dovuto cambiare la politica sul finanziamento dell’industria delle armi>>, anche per tutelarsi da un danno reputazionale. Per questo bisogna ricordare che <<anche se non decidete, decidete: decide l’indifferenza>>.

La già citata capomissione Laura Marmorale, spiegando che il convoglio di aiuti umanitari su cui viaggiava non si era spinto fin dentro le zone di guerra ma al confine, dove si trovavano centri commerciali convertiti in campi profughi, ha raccontato che la guerra la si poteva vedere anche negli occhi delle persone, nello sguardo di donne e bambini, principalmente, dato che la maggioranza degli uomini è obbligata a essere impiegata sui campi di battaglia.


LA TAVOLA ROTONDA DELLE DIVERSE ORGANIZZAZIONI PRESENTI IN MARE: LA FLOTTA CIVILE SI APRE AL PUBBLICO

Nel pomeriggio della stessa giornata si è tenuta una tavola rotonda delle diverse associazioni che si occupano di ricerca, soccorso e assistenza ai migranti in mare, dal titolo “Civil Fleet e Civil MRCC: cooperation at sea”. Anche questo momento d’incontro si trova sulla pagina social di Mediterranea.




Presenti rappresentanti di Alarm Phone (associazione il cui principale obiettivo <<consiste nell’offrire una più ampia visibilità all’SOS dei migranti in difficoltà>>), SeaWatch (che salva persone in mare anche grazie all’osservazione aerea), Open Arms, Sea Eye, Salvamento Marítimo Humanitario, Proem-Aid e del soccorso in mare di Medici Senza Frontiere

Sulla pagina di Refugees in Libya si trovano alcuni stralci degli altri dibattiti: qui c’è un altro intervento degli attivisti David Yambio e Lam Magoke qui la testimonianza di un altro attivista della stessa associazione.

 

CONTINUIAMO O INIZIAMO A “COMBATTERE”!





Il concerto finale ci fa ricordare quanto siamo privilegiati a poterci dedicare a dei momenti di svago come questi, ci induce a pensare che anche i momenti più distesi e ricreativi possono essere impiegati a sostegno di attività come quelle di chi è impegnato in prima linea a difendere i più elementari diritti umani, diritti che dopo millenni faticano ancora a essere di fatto (e talvolta anche "sulla carta") riconosciuti.

Momenti come questi fungono da breve pausa per darci la carica e continuare a “combattere”, ognuno nel suo “piccolo”, nella propria dimensione e nei luoghi, fisici e metaforici, che vive: non possiamo girare la faccia dall’altra parte e dobbiamo impiegare più risorse di quei “privilegi” fondati su secoli di sfruttamento e abusi, soprusi che poi si ritorcono contro la maggioranza delle stesse popolazioni che colonizzano (anche se le colonizzazioni avvengono in versioni più “morbide” del passato) e contro il pianeta intero, perché crediamo che quando i diritti anche di una sola persona vengono violati, si violano i diritti di tutti!

Dobbiamo “combattere” nelle nostre famiglie, nei nostri gruppi di amici, negli spazi online, nelle piazze fisiche, sui luoghi di lavoro e di militanza, oppure, per quelli che hanno le competenze e la possibilità, nei mari, nei deserti, nelle città, dovunque la sofferenza è talmente esplicita e gli abusi sono talmente sfacciati da richiedere un’azione immediata.

Noi di Fanrivista pensiamo che (come si è già scritto sopra riportando le parole dei partecipanti alla manifestazione), pure se si volesse ammettere che alcuni di tali “esodi” siano effettivamente non dovuti alle guerre e ai conflitti in generale (al di là di come vengono classificati dalle organizzazioni internazionali), alle condizioni climatiche e alle conseguenti carestie, alle discriminazioni e alle persecuzioni attuate per le preferenze di genere, per l’etnia, per le idee politiche o per la religione che si professa, dobbiamo impegnarci per costruire un mondo senza confini… Se è un’utopia, allora, dobbiamo attivarci per tendere il più possibile verso di essa!

Concludiamo questo “report” sul festival e sulle riflessioni scaturite da esso con le parole dell’attivista Lam Magok che ringraziando, incitando e definendo la folla presente alla manifestazione come composta da <<combattenti”>>, ha spiegato: <<l’unica lotta buona è quella che si fa per proteggere persone!>>. Rivolgendosi invece ai governi europei li invita a non fare accordi con i <<criminali libici>>, ma di stipularne altri <<a favore delle persone che scappano dalle guerra>>!









Lùman Incolorito

ultima modifica 8/11/23 ore 01:49



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