5.2.24

ABORTO, IL PERSONALE È POLITICO

Narrano le nostre storie, arbitrano i nostri corpi, violano la nostra privacy e minano le nostre scelte. Pauline Harmange, già autrice di “Odio gli uomini”, non ci sta e decide di raccontare intimamente il suo aborto.


Il personale è politico” è uno slogan risalente alla “seconda ondata femminista” (anni ‘60) che ancora sentiamo nostro, che ancora gridiamo e che ancora scriviamo: è anche il sottotitolo del volume “Aborto” della scrittrice e attivista francese Pauline Harmange, edito in Italia da Mimesis e presentato a Napoli allo Zero81 lo scorso mese da Angela Balzano, autrice –assieme a Valentina Greco- della prefazione e da Federica Di Martino, psicologa, psicoterapeuta e fondatrice di “IVG ho abortito esto benissimo. La presentazione è stata organizzata dal collettivo “Cca’ nisciun’ è fessa”. 


Uno screenshot della locandina dell'evento


Il filo sottile che ha legato tutti i punti di questa presentazione è la necessità di politicizzare l’esperienza dell’IVG (acronimo di “Interruzione Volontaria di Gravidanza”) senza perdere la complessità e la dimensione intima di chi lo ha vissuto, lo vive e lo vivrà, evitando retoriche appiattenti e sottolineando la necessità di costruire una solida narrazione collettiva.

 

Le relatrici e le moderatrici al tavolo



CNEF: IL PROGETTO



È doveroso iniziare spendendo qualche parola su “Cca’ nisciun’ è fessa” (CNEF). Il progetto nasce, nel 2020, sulla base di due necessità sentite dalle persone a cui è toccato l’amaro destino di dover abortire a Napoli: la scarsità di servizi legati alla salute sessuale e riproduttiva sul territorio (consultori, centri IVG funzionanti e dignitosi, etc.) e soprattutto alla mancanza di trasparenza delle strutture e dell’amministrazione sul tema, che comporta confusione e frustrazione in chi deve accedervi.

CNEF si definisce come <<una rete territoriale solidale di supporto e orientamento per il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), ma anche di sensibilizzazione sui temi della salute sessuale riproduttiva e non>>.

Basta una breve ricerca incrociata tra il loro sito internet e quello del Ministero per rendersi conto che voler abortire in questa città significa andare in contro a un percorso a ostacoli, un labirinto elefantiaco e intricato, pieno di strade sbarrate e vicoli ciechi.

Il tasso di ginecologhe e ginecologi obiettori in Campania sfiora l’80%, e la percentuale di strutture che effettuano l’IVG supera di poco il 25% (dati del Ministero della salute aggiornati al 2021), non considerando le orde di “pro-life” con i loro tentativi, disperati e violenti, di minare il diritto delle donne ad abortire.

Una delle moderatrici ha fatto notare, durante la presentazione del libro, che i dati forniti dal Ministero e dagli istituti di ricerca sono aggregati per regioni (e non per strutture sanitarie), dunque non offrono informazioni utili alla fruizione dell* cittadin* che intendano abortire. Ci si dovrebbe dunque affidare a siti di altro genere come quello dell’Asl, per esempio, che purtroppo però non sono aggiornati rispetto ai servizi realmente attivi nelle strutture (consultori che risultano aperti ma non lo sono, per dirne una).

Nel pratico, Cca’ Nisciuna è fessa, fornisce informazioni circa le strutture attrezzate, i servizi forniti dalle suddette (aborto farmacologico, chirurgico…) e i loro contatti, attraverso un meticoloso lavoro di mappatura del territorio (Napoli e provincia), sempre in fieri.

Oltre a questo organizzano anche eventi pubblici di sensibilizzazione, informazione e di protesta contro gli svariati ostacoli alla tutela dei diritti sessuali e riproduttivi e all’accompagnamento, materialmente ed emotivamente offerto alle persone che intraprendono un’interruzione volontaria di gravidanza.

Il collettivo è inoltre impegnato nel diffondere un approccio trans-inclusivo alla salute sessuale e riproduttiva. Sui loro canali è scaricabile gratuitamente un opuscolo a riguardo, realizzato in collaborazione con ATN – Associazione Transessuale Napoli, documento informativo nato dalla rilevazione di una serie di difficoltà che le persone non “convenzionali” -in termini binari- si trovano ad affrontare nelle strutture sanitarie, soprattutto quelle che si occupano di salute sessuale e riproduttiva.

Insomma, di reti solidali come CNEF, in città e in tutta Italia, si ha davvero bisogno, perché nessun* si senta sol* nell’affrontare un’esperienza di aborto.



STIGMA DEL TRAUMA E PORNOGRAFIA DEL DOLORE     

Il volume di Harmange è il racconto della personalissima esperienza dell’autrice: i suoi step, le sue emozioni, le sue intime contraddizioni, nessuna pretesa di ergersi a paradigma. Il libro è la cronaca diretta e sincera di un segmento della sua biografia, non della sua identità, del suo aborto, attorno a cui sente il bisogno –che tutt* noi condividiamo- di costruire una nuova narrazione, spogliata dallo stigma del senso di colpa e della vergogna.




Perché bisogna parlare di aborto in termini politici?! Perché, generalmente, sono “gli altri” a parlare di aborto, mentre la ri-politicizzazione del discorso parte da chi lo ha vissuto e ha deciso di parlarne. Federica di Martino infatti si sofferma parecchio, nel corso dell’intero evento, sulla riappropriazione del linguaggio e della narrazione che esiste attorno all’IVG.

<<Si parla di questioni che riguardano l’aborto durante i panel di dibattito televisivi – afferma Di Martino – e la cosa interessante è che vengono chiamati puntualmente esponenti del movimento pro-life, Maria Rachele Ruiu, ad esempio, o Jacopo Coghe, mentre dall’altra parte, chi risponde, è il politico di turno, prevedibilmente un uomo dai 50 in su che non ne sa parlare, e che si fa portavoce di quel diritto che in realtà, in Italia, viene concesso solo nei termini di pietosa elargizione. Tutto questo ci fa capire una cosa: le voci delle donne non sono silenziose, sono silenziate>>.

Con questo, Di Martino, ci lascia intendere che in realtà esiste un modo per riscrivere la propria storia di aborto, fuori dalle narrazioni stereotipate, come esperienza personale da inscrivere necessariamente in un contesto politico, che perciò è anche collettivo.

Balzano ammette che il racconto, in sé e per sé, è carente di questa dimensione collettiva (da qui la necessità di una prefazione di circa 30 pagine a un volume di 120 pagine in totale) e infatti, il potenziale politico del libro, è nello stesso atto di Harmange di essersi raccontata.

<<Nessuno vuole ascoltare le donne che sono ricorse all’aborto. Dovremmo tenere la bocca chiusa, sempre. E se proprio dobbiamo parlare, ecco cosa ci viene concesso: farlo sottovoce, con lo sguardo basso e senza entrare troppo nei dettagli>>, argomenta Di Martino.

È necessario parlare politicamente di aborto anche per liberarsi dalle maglie dell’individualismo liberale che “tollera” i diritti di ognun* ma solo se sono domandati sottovoce, elemosinati e se per ottenerli ci si prostra e sottopone a una serie di punizioni sociali.

Anche dietro il più “felice” e desiderato degli aborti può celarsi dolore e angoscia. Vale anche il contrario, ovviamente: ci può essere della gioia e del sollievo anche se l’esperienza di IVG è imposta dalle circostanze materiali, da condizioni economiche e psicologiche non ottimali, se si è incerte, se è l’esito di un percorso che sembra obbligato, e non espressione della nostra completa volontà.

Sorge quindi spontaneamente una domanda: quanto di questo dolore è nostro e quanto iniettato dall’esterno?

La retorica vigente tende a generare empatia e affezione nei confronti di embrioni che, fuori da ogni evidenza scientifica, vengono chiamati “bambini”. L’immagine mentale del non-nato come “vivo”, lo rende reale ed esistente nel mondo, dunque pubblico. Tutti (qui uso il maschile inclusivo con coscienza di causa!) si sentono in diritto di sindacare e commentare le scelte delle donne a cui, sempre erroneamente, ci si riferisce come “madri”.

Il feto dunque diventa collettivo, non più della donna che lo porta in grembo, e le parole che si ricamano pian piano attorno all’aborto diventano stigma sociale e vengono interiorizzate da tutte noi.

Si arriva a far nostro il senso di inadeguatezza e vergogna, e quando la società non ha lavorato bene su di noi –perché le “difese immunitarie” erano forti – ci sente in colpa per non essersi sentite in colpa.

Federica di Martino a questo punto racconta la nascita di “IVG ho abortito e sto benissimo”, che emula un omonimo format francese (IVG je vais bien, merci) e raccoglie storie di aborti felici, per superare la retorica e lo stigma del trauma. Non tutti gli aborti sono uguali, non tutti sono traumatici e soprattutto non tutti allo stesso modo.

Giornaliste e giornalisti, spiega Di Martino, vengono attratti come falene dalle storie di aborto (anche in buona fede). Il motivo è molto semplice: la cosiddetta “pornografia del dolore” è una strategia comunicativa eticamente deplorevole, ma straordinariamente funzionante: <<tutti vogliono parlare di aborto, provano interesse... L’interesse è borghese. Se una cosa ti interessa e non ti riguarda, puoi guardarla da lontano e dimenticartene il secondo seguente>>.



 

Nel riquadro sopra (o a questo link se non lo visualizzate nella pagina) un meme tradotto in diverse lingue, tratto dalla serie satirica Bojack Horseman: il conduttore di un talkshow si chiede se <<il concetto di libertà di scelta delle donne è andato troppo oltre>>. Per questo ha invitato in studio un <<gruppo di uomini bianchi, in giacca e papillon, per parlare di aborto>>. Il video della gag satirica si trova a quest'altro link.

 

 

Da questo meccanismo deriva una sfilza di servizi e documentari con voci campionate e volti sfocati, in cui si vedono puntualmente racconti che seguono il canovaccio dello stigma del trauma. Nessuna voce che dice “je vais bien, merci” (“va tutto bene, grazie”), nessun viso, nessuna caratterizzazione.

L’aborto può sicuramente essere un’esperienza dolorosa, ma non è solo questo. In Italia le persone che effettuano IVG sono medicalizzate, infantilizzate e mal seguite, e questo genera frustrazioni, sensi di colpa e di vergogna che non vengono da dentro, sono indotti.

Di Martino cita una recente pubblicata su Contraception” dal titolo: “Quanto farà male? Fattori associati all’esperienza dolorosa di donne sottoposte ad aborto farmacologico nel primo trimestre”. Lo studio mette in correlazione il dolore fisico provato dalle donne che abortiscono tramite farmaci e che non hanno mai partorito naturalmente, sia con la dismenorrea che con i livelli d’ansia: questo ci fa capire che la creazione di un ambiente confortevole e di cura, senza ostacoli materiali e pseudo-morali, non è solo umanamente necessario ma, a quanto pare, anche notevolmente impattante sulla sofferenza fisica di tutte le persone che effettuano un IVG.

 


VIOLENZA E GOVERNAMENTALITÀ

Balzano introduce il concetto di “fronte neo-fondamentalista”, con cui definisce il calderone pro-life, cattolico e antiabortista in generale, portando alcuni esempi –in termini quantitativi - della sua violenza esplosiva in Europa e soprattutto negli Stati Uniti.

Nell’introduzione al libro “Materialismo Radicale – itinerari etici per cyborg e cattive ragazze” (edizioni Meltemi) siglata da Rosi Braidotti e dalla stessa Balzano si legge: <<Secondo le statistiche raccolte dalla Federazione Nazionale Aborto dal 1977 negli USA ci sono stati 17 tentati omicidi, 383 minacce di morte, 11 morti, 13 feriti, 100 attacchi con l’acido, 373 invasioni fisiche, 41 attacchi con bombe, commessi contro le cliniche che offrono servizi legati ai diritti riproduttivi. Non si contano gli atti vandalici e i cortei violenti dei pro-life>>. Considerate che questi dati si fermano al 2015, dunque andrebbero aggiornati (e non in positivo, purtroppo!).

Tra gli attentati di matrice neo-fondamentalista Balzano ne ricorda uno: quello avvenuto il 27 novembre del 2015. Un uomo armato ha attaccato una clinica “Planet Parenthood” a Colorado Springs, uccidendo tre persone e ferendone altre nove, affermando, in sede di processo, di aver agito <<per difendere i non-nati>>.

Nel primo capitolo del libro “Per farla finita con la famiglia – dall’aborto alle parentele postumane” (edito sempre da Meltemi), Balzano racconta invece la violenza psicologica dei pro-life italiani attuata con delle aberranti campagne pubblicitarie e comunicative di un movimento che, in Italia, è alleato e parta organica di diversi movimenti neofascisti. Alcuni di questi estremisti vorrebbero addirittura inserire per legge l’obbligo di far sentire il battito fetale prima dell’IVG, una vera e propria violenza e tortura mentale! Da notare che, considerati gli eventi sopra menzionati, definirsi come movimenti “per la vita” è ossimorico.

Siamo d’altronde a pochi giorni di distanza dal convegno organizzato alla Camera dei Deputati in cui l’aborto è stato definito come un “non diritto” da esponenti del Centro Studi “Machiavelli”, invitati dalla Lega. Dunque, l’ideologia antiabortista, serpeggia anche in sedi istituzionali e nella politica parlamentare che puntualmente strizza l’occhio ai buzzurri pro-life.

La lente sotto la quale si analizza nella prefazione del volume di Harmange, la narrazione neofondamentalista circa l’aborto, è sicuramente foucaultiana. Infatti Balzano, ricercatrice femminista e docente precaria, ricorda che il corpo, quello delle donne in particolare, è il primo terreno su cui si esercita potere. La governamentalità occidentale è descrivibile nei termini di un controllo biopolitico. Inoltre occorre far cadere l’accento sul fatto che la vita, che al governo interessa riprodurre, è quella della famiglia bianca, eterosessuale e nucleare. È molto importante che le persone non cis/et siano escluse della questione della giustizia riproduttiva in generale, dall’IVG alle tecnologie di riproduzione assistita (si noti quanto, ad esempio, sia escludente la legge 40 che concede l’accesso al servizio di procreazione assistita solo alle coppie eterosessuali cis). Per riprodurre il modello familiare tradizionale è quindi necessario dotarsi di norme e leggi conservatrici e proibizioniste.

A questo proposito, occorre inoltre sottolineare l’insufficienza della legge 194 che Di Martino definisce “di compromesso”, notando inoltre che le proposte di modifica –in senso progressista – siano costantemente sottoposte a ostracismo istituzionale, in qualsiasi conformazione governativa.

Qual è allora il tempo giusto per parlare di giustizia sessuale e riproduttiva? È sicuramente complicato attraversare le istituzioni con le nostre istanze quando al governo c’è una destra iper-conservatrice (e con i partiti di centro sinistra non era molto meglio sotto questo punto di vista).

Di Martino sottolinea quanto sia importante non attendere la giusta combinazione astrale di eventi politici, culturali e sociali prima di cominciare a pretendere i nostri diritti. Se il corpo è il primo luogo di esercizio del potere sarà anche sede di resistenza e sottrazione.

 


GIUSTIZIA RIPRODUTTIVA MULTI-SPECIE

<<Quando gli antiabortisti vogliono che bambine e bambini vengano al mondo, indipendentemente dal contesto in cui cresceranno, a chi stanno rendendo un servizio? Nell’interesse della società, non preferiremmo forse che tutte nascessero nel migliore ambiente possibile per affrontare la vita? Ed eccolo qui il portato della giustizia riproduttiva condensato in poche righe. Se l’accesso all’aborto ci è negato, ostacolato, in nome di un pretestuoso diritto alla vita dell’embrione ma le condizioni di vita sul pianeta terra sono fortemente minate dallo stesso fronte neofondamentalista, neoliberista, antiambientalista, che ci sottrae autodeterminazione sessuale e riproduttiva, la domanda di Harmange è molto più che lecita e trova eco nell’attuale divenire multispecie della giustizia riproduttiva>>.

Questo estratto della prefazione ha scaturito un interessante discorso circa la discrasia che vi è tra l’estenuante pressione che i pro-life attuano per convincerci a figliare, e la difficoltà materiale di generare altra vita in un ambiente ecologico, economico e sociale che non riesce a sostenerla.

La dignità della vita è un concetto piuttosto abusato dal fronte neofondamentalista, che però va risemantizzato e ricollocato nella dimensione concreta e immanente.

<<Quando le filosofie di estrema destra, incontrano quelle neoliberiste, si creano dei veri e propri sistemi riproduttivi: il capitalismo avanzato, per essere più esplicite. In nome della salvaguardia della dignità della vita -dei non nati, dunque, di anime trascendenti che attendono l’ensoulment, seguendo la loro logica ndr-, tutto ciò che è materia viva, immanente e concreta, viene devastata>>.

Le posizioni di Balzano sulla genitorialità sono radicali. Per sintetizzare, un* femminista, pur se sentisse l’istinto di genitorialità, dovrebbe problematizzare la propria volontà sotto una serie di aspetti che hanno come focus le risorse che il mondo riesce a offrire in un momento di devastazione (eco)sistemica.

La prima questione è legata all’accesso alle risorse, che saranno sempre più scarse e meno capaci di assicurare un tenore dignitoso di vita. Altro problema che Balzano porta alla luce è la riproduzione del privilegio. Seppure l’ipotetico figlio o figlia avrà accesso alle risorse, sarà tra i pochi a farlo e, dunque, persona privilegiata.

Quest’ultimo è un argomento piuttosto controverso. Il sotto-testo che qualcuno ha letto tra le righe è che sei un po’ meno femminista se sei genitore/genitrice. Naturalmente il senso del discorso non era quello, non a livello conscio perlomeno. La specie umana si riproduce troppo e a discapito di altre forme di vita. La genitorialità non è sempre un atto egoistico ma, a livello sistemico, la sovrappopolazione umana ha causato e causerà dei problemi.

Non fare figli non è sicuramente la panacea di tutti i mali connessi alla devastazione ambientale; ma è una scelta eticamente condivisibile, non dare alla luce nuova vita quando non sai se sarà dignitosa e giusta.

Balzano ci lascia con uno spunto: i femminismi si stanno rendendo conto che la questione riproduttiva non riguarda solo i corpi umane, ma investe la terra tutta, è già diventata postumana!

 

Flora Molettieri

 

Per non soccombere al dolore e all'oppressione patriarcale, usiamo l'ironia come tattica politica di autodifesa. "I've seen better days but I don't care", scriveva Amanda Palmer in "Oasis": consiglio musicale con cui le relatrici della presentazione ci hanno lasciat*.

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