16.3.24

BARBARA BALZERANI E LA LOTTA ARMATA

Quarantasei anni fa veniva rapito Aldo Moro e la sua scorta trucidata. A quell'evento prese parte anche Barbara Balzerani, morta pochi giorni fa a settantacinque anni. 


Nell'articolo che segue ci sforziamo di chiarire alcuni concetti chiave relativi al periodo che è passato alla storia come "anni di piombo". Un periodo storico dove c'era molta violenza ma anche tanto fermento culturale e voglia di cambiamento.


Lo facciamo ripercorrendo alcuni eventi salienti della "strategia della tensione", concentrandoci in particolare su un'intervista rilasciata da Balzerani e da altre tre sue compagne d'armi nel '97.

Una giovane Barbara Balzerani sorride dietro le sbarre a un processo
Barbara Balzerani da giovane.



USO DELLA VIOLENZA E CONTESTO STORICO

Questa "fanza/rivista" si sforza di separare i fatti dalle opinioni, per linea editoriale e formazione. La convinzione alla base di questa filosofia editoriale è che le opinioni vanno espresse proprio per cercare di essere il più obiettivi possibili: così chi legge conosce il punto di vista di chi ha selezionato una determinata notizia e può comprendere perché ha deciso di trattarla e come la affronta, giudicando a sua volta quanto è stato scritto e, al contempo, avendo un'idea anche su chi e perché lo ha scritto. 

Come premessa, va quindi detto che chi scrive ritiene giustificabile l'uso della violenza fisica solo per difendere qualcosa o qualcuno. Impugnare le armi è un mezzo estremo a cui ricorrere dopo aver davvero esaurito ogni possibilità, perché l'unica guerra che merita di essere condotta è quella che si fa per proteggere i diritti e le vite di chi è oppresso con altrettanta violenza. Per fare un esempio, basta citare il diritto legalmente riconosciuto ai palestinesi di proteggersi, anche con le armi, da un'occupazione militare e coloniale che va avanti da decenni. Diritto che non può essere invalidato dal terribile eccidio commesso da Hamas e dall'ancora più terribile e spropositata reazione dello stato etnocratico sionista, spacciata come legittima difesa. Israele ha colto la palla al balzo per cercare di completare la Nakba del'48, acuendo il genocidio incrementale in atto da decenni, dopo aver supportato il suo nemico di comodo, i nazionalisti islamici per l'appunto, ma questa è un'altra storia... Un'altra storia di Resistenza è quella al nazifascismo: non poteva essere certo sconfitto porgendo rose, ed è perciò un esempio del fatto che la violenza fisica, purtroppo, a volte è necessaria.

Il giudizio che mi sono fatto del fenomeno lottarmatista di sinistra in Italia, da "millennial" e libertario nato dopo quell'epoca, è negativo, sia dal punto di vista etico ma anche da quello strategico-politico (mentre su eventi a me contemporanei, riguardanti l'uso della violenza politica, talvolta esaltata tramite un'omologata estetica della ferocia, ho già espresso delle opinioni, sforzandomi di "separarle dai fatti"). Per chi ci viveva dentro però le cose apparivano sicuramente diverse: per molti la scelta della lotta armata rivoluzionaria sembrava (e forse sembra ancora, anche "con il senno di poi") l'unica strada percorribile (e forse lo era, perlomeno in certi casi estremi). Sembrava l'unico "sentiero" su cui incamminarsi per avviare una rivoluzione proletaria, l'unico scontro di classe praticabile, o anche la sola maniera per difendersi. Quel sentiero, infatti, lo avevano preparato soprattutto il neofascismo stragista e alcune figure politiche, reazionarie ed eversive, ai vertici dello stato durante la "prima Repubblica", nell'ambito della guerra fredda. L'opinione di chi scrive però conta poco rispetto a chi in quegli anni ci viveva... D'altronde, come vedremo meglio nelle prossime righe, la stessa Balzerani ha definito <<improponibile>> il ricorso alla violenza armata nell'attuale contesto storico italiano.

Brigatisti e altri esponenti della lotta armata vengono spesso dipinti come dei sanguinari, avulsi dalla società ma, secondo chi scrive, le cose non stanno esattamente così... C'è una proverbiale "altra campana" che va quantomeno sentita. Alla lotta armata in Italia, infatti, aderirono migliaia di persone. Nel volume "La Mappa Perduta", edito da "Sensibili Alle Foglie" (cooperativa editoriale di cui Renato Curcio, tra i fondatori delle BR, è uno degli iniziatori) si censiscono circa 100 sigle di organizzazioni armate di sinistra e più di 4000 persone inquisite. A queste ne vanno aggiunte sicuramente delle altre, come quelle persone che supportavano le varie organizzazioni non imbracciando direttamente le armi, che non necessariamente vivevano in clandestinità e che non sono mai state indagate o processate. Il giudizio a posteriori di quell'esperienza tragica è, inevitabilmente, non unanime da parte delle migliaia di combattenti che vi presero parte e che possono ancora esprimerlo, come emergerà nelle prossime righe...

Questi dati da soli sembrano suggerire che se la lotta armata non era un fenomeno di massa, riscuoteva perlomeno un consenso popolare molto diffuso: tantissimi italiani hanno appoggiato, anche solo simpatizzando e almeno fino a un certo punto, quelli che, a torto o a ragione, vengono definiti "terroristi". Il giudizio etico, così come quello tecnico-giuridico, deve considerare anche gli specifici tipi di "azioni" militari che spaziano dai semplici sabotaggi agli "omicidi politici" di magistrati, parlamentari, dirigenti d'azienda, ma anche di spacciatori per esempio. C'erano i sequestri di persona che potevano durare solo poche ore, configurandosi più come atti di "propaganda armata" dimostrativi, o essere diretti a ottenere un riscatto. C'erano le "meno cruente" gambizzazioni di giornalisti, insegnanti e studenti e le rapine in banca. Secondo il volume succitato sono 128 le persone colpite mortalmente dalle <<organizzazioni armate di sinistra>>, mentre sul sito della Polizia di Stato si stimano 400 vittime in totale, includendo quindi anche quelle uccise da organizzazioni neofasciste più o meno occulte.

Per giudicare eticamente delle azioni bisogna sforzarsi di comprendere il contesto in cui avvengono. Occorre sicuramente ricordare che c'erano dei "terroristi di Stato", degli eversori di estrema destra all'estero e in Italia, che potevano contare sulla manovalanza delle organizzazioni del "terrorismo nero", che piazzava le bombe per loro e che è stata presentata come semplice controparte di quello "rosso", anche se resta tanto ancora da chiarire sulle, comunque parziali, verità storiche e processuali. Nel '69 la strage di piazza Fontana inaugurò la cosiddetta "strategia della tensione": diffondere il panico nella popolazione tramite attentati terroristici, al fine di instaurare un regime più autoritario, con un "uomo forte" al potere che ristabilisse "l'ordine", dopo aver causato il disordine. Quell'evento è esemplare della strategia: venne accusato ingiustamente un partigiano delle "Brigate Bruzzi Malatesta" e ferroviere anarchico, Giuseppe Pinelli. Tre giorni dopo l'attentato "volò" verso la morte dagli uffici della questura milanese, avviando una serie di innumerevoli depistaggi e l'inasprirsi di cicli di violenza. Quell'evento rappresenta anche uno spartiacque, una di quelle date che vengono utilizzate per delineare un confine temporale. Siamo all'inizio dei cosiddetti "anni di piombo", che culmineranno nella strage di Bologna nell'80 e che alcuni considerano una vera e propria guerra civile anche se "a bassa intensità", o quantomeno degli anni di profonda e diffusa rivolta. 


La Banca nazionale dell'Agricoltura a Milano dopo l'esplosione del 12 Dicembre 1969
La Banca nazionale dell'Agricoltura a Milano dopo l'esplosione del 12 Dicembre 1969

Strage per la quale un certo Licio Gelli è stato condannato per calunnia in seguito al depistaggio delle indagini, con l'aggravante della finalità terroristica, nel '95. Il capo della loggia massonica "Propaganda 2" è stato riconosciuto da una recente sentenza anche come mandante di quella strage, ma non può essere perseguito, essendo morto nel 2015 agli arresti domiciliari "dorati" per bancarotta fraudolenta, nel comfort del suo villone. Le "stragi di Stato" si aggiungevano alle uccisioni nelle manifestazioni, alle violenze padronali e alienanti nelle fabbriche, alle morti sul lavoro, sacrifici umani in nome della divinità del profitto, necessari al tornaconto dei "sacerdoti-industriali", e alle catastrofi ambientali, originate dalla concezione di una natura sottomessa ai dettami dell'artificiale.

L'attentato alla Banca Nazionale dell'Agricoltura precedette una serie di eventi, come il fallito golpe Borghese nel '70, la strage di Piazza della Loggia a Brescia nel '74, ma anche il golpe cileno a opera di Pinochet nel '73. Quello di Salvator Allende era il primo governo marxista democraticamente eletto nella storia. Il colpo di stato, appoggiato dagli USA, fa comprendere che il potere del "capitale" se ne frega della volontà degli elettori e che è disposto a ricorrere a qualunque mezzo per preservarsi. Ed è proprio di fronte alla minaccia di quel terrorismo di stato che alcuni militanti di sinistra passarono da un tipo di struttura imperniata sugli scontri di piazza, per difendersi da neofascisti e celerini tramite l'istituzione di servizi d'ordine, a un tipo di organizzazione propriamente militare.

Organizzazioni di combattenti che i cosiddetti "servizi deviati" potenzialmente potevano, e forse sono riusciti, a infiltrare o a etero-dirigere, trasformandole in degli "utili idioti". Non è questa però la sede di indagare vicende e teorie ai limiti del "complottismo". Tesi peraltro usate anche dal partito comunista più grande del "blocco occidentale" come giustificazione per i loro errori politici.

Invece, nel seguito di questo post, riportiamo alcune dichiarazioni di Balzerani e di altre sue compagne d'armi, che aiutano a riflettere su quegli anni da una prospettiva storica, al di là delle proprie affiliazioni politiche e posizioni etiche.



BARBARA BALZERANI: NÉ MOSTRO NÉ MITO

Barbara Balzerani è morta Lunedì 4 Marzo, cinquantasei anni e tre giorni dopo la "battaglia di Valle Giulia", altra data che alcuni individuano come "confine cronologico" in cui iniziano i cosiddetti anni di piombo. Aveva 75 anni, era originaria di Colleferro e si trasferì a Roma nell'anno dell'"autunno caldo", quello del '69. Dopo una condanna all'ergastolo e più di 20 anni di detenzione aveva riottenuto parzialmente la sua libertà diventando scrittrice.

Ha fatto molto discutere (e per chi scrive è più che discutibile, oltre che di macabro gusto) un post che scrisse su Facebook e che provò invano a cancellare. Era il 16 Marzo del 2018: chiedeva di essere ospitata <<oltre confine>> per i <<fasti del quarantennale>> del sequestro Moro, in cui svolse un ruolo di primo piano. In quel mesto anniversario a un incontro pubblico (ripreso con una telecamera nascosta da programmi TV mainstream) dichiarò anche: <<c'è una cosa che è passata in questo paese, che ci riporta alle caverne, a un livello insopportabile. C'è una figura, la vittima -alludendo alla figlia di Moro ndr- che è diventata un mestiere. Una figura stramba che ha il monopolio di parola. Figuriamoci, hanno il diritto a dire la loro, ma non lo hai solo tu, però! Non è che la storia la puoi fare te>>.

Al di là della più che inopportuna battuta su una persona ammazzata e incaprettata, resta il fatto che per indagare sulla storia bisogna raccogliere le testimonianze di tutte le persone che "fecero" quegli anni. E non c'erano solo i brigatisti...

Un esempio banale sulle diverse forze in campo e sulle responsabilità politiche, pratiche e storiche, è collegato proprio al sequestro e all'omicidio di Aldo Moro nel '78. Evento che ha segnato profondamente la nostra storia e che ha innescato il declino della lotta armata di sinistra. Scartando ipotetici "complotti" per far naufragare il "compromesso storico" (il patto che avrebbe unito comunisti e democristiani), con la partecipazione diretta al rapimento di Moro di servizi segreti deviati, addirittura di entrambi "i blocchi", resta comunque un fatto innegabile: il Presidente della DC poteva essere maggiormente tutelato. In pratica, secondo la versione dei brigatisti, anche se Andreotti sarebbe stato il "bersaglio perfetto" di un'azione armata, avrebbero però "ripiegato" su Moro perché la sua scorta era insufficiente. Lo stesso Moro aveva richiesto un'auto blindata che non fu mai concessa: se i vertici del governo e della DC lo avessero veramente voluto, avrebbero potuto tutelarlo! Probabilmente non volevano... Quindi, la responsabilità della sua morte non può essere addebitata ai soli brigatisti ed esecutori materiali.

Un documento video, fondamentale per chiunque voglia approcciare storicamente le BR e gli anni della lotta armata, è sicuramente l'intervista di Ennio Remondino a Balzerani, Renato Curcio e Mario Moretti nel 1987: annunciarono che l'esperienza di quel tipo di lotta armata era giunta a conclusione, pur non rinnegandola e non dissociandosi dalle BR.

Una delle ultime apparizioni pubbliche di Balzerani, in cui parla del contesto di quell'epoca e degli errori che non erano stati commessi non solo da <<chi ci ha battuto>>, si trova anche sul profilo Facebook di "Mediter Italia"

In questo post ci concentriamo, però, su quanto detto dalla Balzerani e da altre tre ex-brigatiste, in un documentario del 1997, dal titolo: "Do you remember revolution - Donne nella lotta armata" di Loredana Bianconi.

La giovane Balzerani si trasferisce a Roma nel '68 <<ufficialmente>> per continuare gli studi, in realtà per vivere il fermento rivoluzionario che non si respirava nel piccolo comune da cui proveniva, dove i ritmi della vita erano scanditi e dettati da un'onnipresente fabbrica farmaceutica. In quel periodo <<non c'era la lotta armata in questo paese. Chi ha sparato il primo colpo non era il movimento. Invece dall'altra parte c'erano celerini, partiti politici, bombe, assassini di compagni, le avvisaglie di possibili colpi di stato>> e, perciò, c'era una <<continua tensione>> e una preoccupazione che si <<rovesciasse tutto sul piano militare>>. Racconta che inizialmente non avevano <<assolutamente nessuna strategia militare>> ma solo una conoscenza per <<mantenere la piazza>>. La strage di Piazza Fontana fa sembrare, a moltə, l'unica scelta possibile, quasi un' imposizione: <<noi ci sentivamo attaccati e accerchiati. Non è che fossimo di natura portati alla violenza per la violenza>>.

Per quanto riguarda l'uso della violenza in quello specifico contesto storico, argomentava che <<non si può confondere lo sguardo di oggi con quello di ieri. Oggi la riflessione è andata molto più avanti. Si è arrivati a disconoscere il discorso del fine che giustifica i mezzi, che le categorie dualistiche possono governare l'esistente, l'amico o il nemico, la pace e la guerra. Forse è una riflessione indubbiamente positiva. Però noi non eravamo oggi, eravamo ieri: ieri vigevano questi tipi di categorie. Si poteva scegliere diversamente, ma significava sottrarsi (...) tornare indietro. Ma tornare indietro a fare che?! Io credo che non c'è vita possibile nel momento in cui le speranze e le aspettative di futuro, anche personali, riposano tutte sul cambiamento e la rivoluzione, sul superamento dell'esistente. A quel punto può succedere, come è successo, che più che la paura e l'orrore della morte ci sia l'orrore per la vita, per questo tipo di vita che distrugge la capacità di scelta, di esserci, di migliorare una situazione>>, e per questo sentirsi <<costretti a delle scelte>>. 

Scelte che implicavano la violenza, che poteva sembrare giustificabile per un fine sociale e politico più grande: <<ero in pace con questo tipo di scelta ed ero in disposta a farlo per un tornaconto che mi travalicava, un interesse riferito a una classe, ai popoli del Mondo, a quella parte politica e sociale in cui mi riconoscevo (...) se io ripenso a quello che sono, quello che sono stata eccetera, molto probabilmente prima che la mia esperienza politica mi avesse portato a questo tipo di scelta non me lo sarei neanche sognato di poter prendere una pistola in mano>>. Si era intrapresa <<una strada pensando che essere comunisti significava essere portatori di una giustizia diversa, di un mondo più pulito, più bello, giusto e santo. Quindi, è evidente che è una grossa forzatura, è indubbio. E questo incide e ha inciso sul livello profondo di ciascuno di noi.

Io però, rispetto a questa storia, come lo sono stata al momento in cui l'ho vissuta direttamente, ritengo di esserci in pace. Nel senso che non mi ritengo un assassina, non mi ritengo colpevole di un reato, mi ritengo uno dei possibili prodotti di quel tipo di scontro che, per scelta personale e per contingenze, si è trovato all'interno di una di una scelta estrema, e che questa scelta l'ha fatta con estrema consapevolezza. Anche se ovviamente poi il portato di quello che vivi non è che lo puoi capire immediatamente, o addirittura prima: sono tutte cose che che poi scavano, si sovrappongono una all'altra e ti fanno così, per quello che sei. Però non è che non sapessi cosa significava la scelta di entrare nelle BR nel '75. Sapevo perfettamente che in questa scelta c'era anche questo. Quello che oggi più mi avvicina al senso dell'orrore è sapermi percepita invece in quest'altra maniera. Cioè sapere che il risultato di questa scelta e di questa di mia militanza politica può essere percepita come una una scelta di morte. Questo però non è direttamente collegato a quanto è successo: questo è direttamente collegato a quanto, su questa storia, non si è voluto riflettere, perché non esiste nulla di assoluto. Non esiste il bene e il male assoluto: tutto è molto relativizzato rispetto al contesto, al momento in cui le cose avvengono. E in quel contesto, in quel momento una scelta come quella, era una scelta politica e non lo era solo per me. Ci, voglio dire, se noi avessimo vinto saremmo degli eroi. Verità, ragione, bene e male sono tutti concetti che sono relativizzati ai momenti storici. Questo non toglie che ci sono state quelle cose di quel tipo là e ce ne sono state anche altre, ci sono state le morti dei compagni... Ognuno di noi penso che di fronte alla definitività della morte, al di là di dargli un senso (perché un senso nel senso ce l'ha), ognuno di noi conserva una parte di sé che non ci sta con queste cose. Non può starci perché siamo siamo fatti così. E quindi sì: c'è tutta una parte che è consegnata a ciascuno di noi, e ci fa i conti così come può, così come vuole e come sa>>.

Alcuni giornalisti, forse più degli storici, tendono a "mostrificare" altri esseri umani. A prescindere dalle responsabilità per determinati atti commessi da queste figure, oneri che possono essere politici, penali, morali o storici, resta sempre il fatto che sono nostri simili. Al contrario, molti militanti di sinistra sono inclini a mitizzare figure in maniera anacronistica, concependole come reliquie di un passato "mitico" che non c'è più, o che forse non è stato mai così "magnifico". È proprio il caso della Balzerani e di altri esponenti della lotta armata: alcuni la dipingono come una creatura mostruosa e sanguinaria, altri invece la tramutano in "divinità laica". Documenti storici, come questa intervista audio-visiva, rendono invece la dimensione documentabile e umana di queste persone, e ci aiutano anche a formare opinioni e giudizi etici in maniera più obiettiva.



L'UNICA STRADA PERCORRIBILE?!

Le parole di Adriana Faranda, anche lei coinvolta nel sequestro Moro, riflettono dei dubbi molto più profondi sulla <<guerra che non aveva portato le trasformazioni che noi auspicavamo>>e sulle persone che sono state colpite in quel conflitto. Lei, a differenza della Balzerani, si è dissociata dalle BR.

Sempre nella stessa intervista spiegava che <<la scelta delle armi non fu indolore (...) da me fu vista come ultima necessità, quasi una costrizione. Forse eravamo anche incapaci noi... Non voglio assolutamente attribuire tutta la responsabilità alla chiusura delle istituzioni... Forse siamo stati poco capaci, poco duttili a cercare di sperimentare tutte le strade che avevamo davanti da tracciare, da inventare, anche perché le colpe non sono mai da una parte sola... Però, sicuramente non soltanto dalla parte nostra. Davanti a questa, forse, poca duttilità, l'ultima scelta che ci era sembrata possibile, logica, praticabile, era quella dello scontro aperto, anche sul piano militare>>.

Mentre, a volte, dalle esternazioni di Balzerani sembra emergere quasi nostalgia e compiacimento per alcuni aspetti della vita militare-clandestina, come quando rifletteva sul fatto che mai avrebbe immaginato di imparare a maneggiare una pistola. Quelle di Faranda riflettono, invece, più incertezza e sconforto. Balzerani aveva dichiarato di essere <<in pace>> con l'esperienza della lotta armata, mentre nelle parole di Faranda troviamo tanta inquietudine. Racconta dei dubbi di quando ha dovuto abbondare la figlia per entrare in clandestinità, convinta che lo stava facendo per assicurarle un futuro migliore. Il disagio con l'ingombrante scelta armata riaffiora pure quando descrive come si era auto-educata a reprimere le sue emozioni, lasciando spazio solo alla freddezza e distaccandosi dalle comuni esigenze sociali.

Critica poi la legittimità di ricorrere a mezzi violenti ed estremi, alzando sempre più il tiro, considerando "nemici" sempre più persone, ricorrendo sempre maggiormente all'omicidio politico e arrivando a colpire perfino un sindacalista, Guido Rossa, un vero e proprio <<suicidio politico>>.

Critica inoltre anche le modalità che le BR si erano date per contrastare la violenza dello stato, senza riuscire a immaginare una società alternativa e replicandone simmetricamente le strutture. Lei stessa, come la Balzerani, faceva parte del Comitato strategico dell'organizzazione, oltre che della "colonna" romana. Esistevano tutta una serie di modalità e strutture <<speculari>> a quelle statali, organismi strategici ed esecutivi, tribunali "proletari" e le "prigioni del popolo".



LE PRIGIONI STATALI E QUELLE "PROLETARIE"

Anche Nadia Mantovani faceva parte dello steso Comitato strategico, e anche lei si è dissociata dalle BR. Nell'intervista spiega che l'omicidio politico, nelle prime fasi della storia della più nota organizzazione armata di sinistra, non era ancora concepito.

Un altro spunto di riflessione suscitato dalle sue parole riguarda la carcerazione e le condizioni detentive durissime cui sono stati sottoposti gli esponenti della lotta armata... Senza considerare le abominevoli torture "extra-giudiziali", commesse da chi indossava una divisa. Da persone che avrebbero dovuto "custodire" le fondamenta dello stato di diritto, e che invece hanno pestato, usato elettrodi, praticato il "waterboarding" (ingerimento forzato di acqua e sale), tirato capezzoli e perfino violentato una donna con un manganello, come nelle peggiori dittature. Reati avallati da un ministro democristiano (che come altri della DC confluirà nel PD) e prescritti perché all'epoca non c'era una legge sulla tortura, che qualcuno adesso vorrebbe abolire.

Tuttavia anche la giustizia parallela "proletaria", secondo Mantovani, si è rivelata tutt'altro che clemente: <<è sempre stata una pretesa, al nostro interno, il fatto che la violenza che noi eravamo costretti a esercitare doveva essere diversa. Doveva essere più rispettosa delle persone, delle libertà e di tutto. Per esempio, ci siamo trovati a fare dei prigionieri e questo era un elemento di contraddizione rispetto al nostro discorso: era necessario fare prigionieri per dilatare l'efficace di un'azione nel tempo. Riconoscevamo questo, ma nello stesso tempo era contrario ai nostri principi tenere una persona priva della propria libertà, perché non volevamo finire in carcere noi e non volevamo che nessuno stesse in carcere con noi. Di fatto poi abbiamo tenuto delle persone in carcere, però, c'è sempre stato uno sforzo di "ospitalità". Diciamo che doveva essere un modo diverso di stare, non così terribile di come si prefigurava. Di fatto, però, credo che i nostri prigionieri abbiano vissuto condizioni estremamente rigide e brutte, in spazi angusti e in condizioni veramente disumane>>. C'erano dunque delle contraddizioni immense e incontrollabili che derivavano da quella forza "autonoma", che si sviluppavano come avviene in tutti i contesti rivoluzionari.

Un contesto dal quale non era difficile uscire, una pagina di storia personale e collettiva che era problematica da svoltare: fu tragico <<dire basta>> perché era un pezzo della propria vita, perché c'erano stati morti, subiti e causati, <<che non potevano essere richiamati in vita>>. Morti per una causa che <<adesso dicevamo non avere più senso>>. Forse è proprio questa difficoltà di fare autocritica, su temi così enormi, all'origine della "mitizzazione" di quel conflitto operata da molti sopravvissuti e posteri.



GLI ERRORI POLITICI ED ETICI

Anche Susanna Ronconi, l'ultima donna intervistata nel filmato di due ore, aveva fatto parte delle BR, prima di confluire nell'organizzazione più movimentista nota come "Prima Linea". Anche nelle sue parole si trova molta autocritica, sia in generale che relativamente ad alcuni fatti specifici.

In generale si pone il problema del divario tra il politicamente necessario e il moralmente accettabile: tutto ciò che ritenevano politicamente utile giustificava e legittimava l'uso della violenza. La convinzione nel fine che giustificava i mezzi faceva sembrare l'omicidio politico una <<triste necessità>> per portare avanti la guerra di classe. In quel contesto vigeva una sorta di <<censura collettiva>> che non permetteva di mettere in discussione quella che sembrava una necessità. Non c'era nessuno spazio per il dilemma etico che rappresenta causare la morte di un altro essere umano.

Ronconi ricordava di quando, nel Dicembre del '79, prese parte a un'azione di Prima Linea in cui fu assaltata la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, dove si formavano le future classi dirigenti. Nella struttura furono sequestrate circa duecento persone. Una decina furono identificate e "sanzionate" con gambizzazioni. L'eclatanza della gambizzazione di massa aveva il carattere di giustizia sommaria, <<che giustamente>> si abbatté specularmente su di loro. Era stato <<un grande errore>> che ovviamente si tradusse in un ritorno di immagine molto negativo, anche tra chi si definiva di sinistra.

Altro errore strategico e politico fu l'<<ipotesi rivoluzionaria>>, sbagliata, sul cosiddetto "operaio sociale": sembrava una figura forte all'interno delle fabbriche che, in virtù delle sue capacità, poteva spostarsi al di fuori per condurre altri tipi di lotte sociali. In realtà, argomentava Ronconi, il cosiddetto operaio sociale "usciva" dalla fabbrica perché la sua immagine era debole all'interno. Quell'errore lo definiva <<un abbaglio rivoluzionario>>, e non era certo l'unico...

L'errore più grande, secondo lei, fu l'esecuzione di una persona <<che aveva deciso di collaborare con la polizia>>, un atto non giustificabile sul piano politico e militare dettato dalla paura, e quindi <<più feroce nella sua inutilità>>. Ma quegli errori, precisava, andavano comunque collocati all'interno di <<un'esperienza collettiva che non rigetto>> e infatti, stando a quanto riportano le cronache, non ci risulta che si sia mai formalmente dissociata dalla lotta armata.



FARE I CONTI CON LA STORIA PER UN FUTURO PIÙ GIUSTO

Le opinioni sul significato di quell'epoca saranno sicuramente molteplici e diverse da quelle qui esposte. "La Fanzina Generalista" per linea editoriale è pronta non solo a ospitarle, ma anche a cercare di avviare e continuare un dibattito sugli aspetti più controversi o meno conosciuti e discussi di quel periodo, e sull'influenza che continua ad avere.

Sono tanti i segreti che devono ancora emergere: se non riusciamo a fare chiarezza sul nostro passato, anche il presente che viviamo continuerà a essere falsato. Per questo potrebbe essere utile ragionare su una sorta di amnistia e forme di protezione per chi di quel passato è stato protagonista, sul modello di quanto avvenuto in Sudafrica con la Commissione per la riconciliazione e la verità: forse così abbiamo ancora qualche possibilità di fare luce su vicende oscure e dolorose, di fare i conti con la nostra storia per arrivare alla verità e ottenere, quindi, giustizia.

Infine, non è di secondaria importanza ricordare che esistono forme di violenza più subdole, e forse ancora più pervasive. Sono le violenze contro l'ambiente e la maggioranza di persone che lo abitano, violenze commesse in nome del progresso e di un modello di sviluppo basato sull'accumulazione infinita, che arriva a occupare ogni ambito della nostra esistenza, dall'aria che respiriamo all'arte, riflettendosi nella nostra cultura. Sono quelle violenze che, quando non causano direttamente morti, ci trasformano in meri pezzi di una vita che diventa catena di montaggio onnicomprensiva. Un paradigma che tiene soggiogata la stragrande maggioranza della popolazione per assicurare delle condizioni di vita, comunque precarie, alla maggioranza di un'altra popolazione, la cui minoranza gode di troppi privilegi, spacciati come meriti. Questo impoverimento complessivo e il conseguente allargamento del "prole-precariato" fungerà da contraddizione intrinseca e fatale allo stesso sistema socio-economico capitalista, oppure sarà solo un momento intermedio prima della catastrofe sociale e climatica? Sta a noi capirlo e deciderlo...



Anarco-pacifista



Come di consueto, concludiamo questo post con una citazione musicale. Si tratta di "Martino e il ciliegio" del rapper Murubutu ed è ispirata alla storia di Prospero Gallinari.




Alleghiamo anche la già citata apparizione pubblica di Balzerani, dello scorso Settembre.

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ultima modifica 19/03/2024 12:59

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